Il profumo della libertà
Il mio impegno professionale contro la violenza in difesa della democrazia si è sviluppato su due versanti: prima contro il terrorismo “brigatista”, poi contro la criminalità mafiosa. Si tratta, ovviamente, di problemi diversi, posto che nel suo ‘dna’ la mafia ha la conquista di sempre più potere al fine di accumulare sempre più ricchezze illecite; mentre nel ‘dna’ del terrorismo si trova soprattutto fanatismo ideologico.
Vi sono, però, alcuni tratti comuni: sia la mafia che il terrorismo impiegano sistematicamente la violenza anche estrema, e in quanto organizzazioni criminali che praticano la violenza come metodo costituiscono un grave pericolo per la democrazia. Per contro è proprio impiegando le ‘armi’ della democrazia che si hanno le maggiori probabilità di sconfiggere o contenere la criminalità mafiosa e terroristica.
IL TERRORISMO
La vittoria contro il terrorismo “brigatista” arrivò grazie al contributo di una molteplicità di fattori. In prima linea l’azione della forze dell’ordine e della magistratura, ma decisive furono le “retrovie”. Vale a dire che la sconfitta vera del terrorismo si produsse nel Paese, nel cuore e nella testa degli italiani, quando – nella seconda metà degli anni Settanta – prese corpo un forte reazione di massa, basata sull’assunto che il terrorismo andava sconfitto non solo sul piano investigativo-giudiziario ma anche, se non soprattutto, sul piano politico. Per conseguire questo risultato fu necessario organizzare una stagione di assemblee, andando nei quartieri, nelle scuole, nei circoli, nelle sedi di partito e del sindacato, negli oratori e nelle fabbriche per coinvolgere la gente. Per rendere la cittadinanza consapevole che il terrorismo era una minaccia non solo per le possibili vittime, ma per tutti, in quanto fattore di imbarbarimento della vita civile e di progressiva involuzione del sistema in senso reazionario. Per parlare, per chiarire che la violenza era un corpo estraneo ai problemi della vita quotidiana, un problema che si aggiungeva a quelli che già si avevano e anzi ne impediva la soluzione. La violenza era un ostacolo invalicabile al fisiologico diritto alla civiltà della convivenza. Per isolare i terroristi occorreva spazzare via incertezze e ambiguità ( anticamera di contiguità) presenti soprattutto a sinistra e che si erano manifestate con slogan tipo “compagni che sbagliano” o “né con lo Stato né con le Br”. E lo si faceva con gli strumenti della democrazia – riunione e confronto – dimostrando così la forza dei principi costituzionali e delle istituzioni. Tagliando l’erba sotto le gambe dei brigatisti, posto che la loro “rivoluzione” presupponeva, per avere qualche probabilità di successo, proprio il venir meno della fiducia nelle istituzioni. Diventava chiaro che reagire da Stato non democratico, dimenticando la Costituzione, sarebbe stata una sconfitta per tutti, in un momento in cui faticosamente si andavano affermando nuovi diritti per le classi sociali tradizionalmente escluse dal potere. Perchè gli anni Settanta furono non solo “di piombo”, ma anche gli anni della legge sul divorzio, dello statuto dei lavoratori, del compromesso storico, dell’alternanza nell’amministrazione di grandi città. Tutte novità che il terrorismo voleva soffocare. La scelta di contrastare l’eversione coinvolgendo la società civile, praticando il dialogo e gli altri strumenti della democrazia, alla fine pagò. L’isolamento politico creò un’autentica implosione nelle organizzazioni terroristiche. Una slavina di “pentiti” determinò il crollo verticale delle organizzazioni storiche. E nel 1983 l’Italia potè considerarsi fuori dall’emergenza terrorismo.
LA MAFIA
Quanto alla mafia, va prima di tutto ricordato che la violenza delle armi (che si esprime in omicidi e stragi) non è l’unica violenza, c’è anche quella economica: delle estorsioni, dei taglieggiamenti, degli appalti truccati, del riciclaggio che stravolge le regole del mercato e della concorrenza. Guai poi a dimenticare che la violenza della mafia, gangsteristica o economica, è inestricabilmente intrecciata con complicità e coperture anche di alto livello, ed è questo intreccio (le cosiddette “relazioni esterne”) che costituisce un pericolo speciale per la democrazia. Difendere la democrazia dalla violenza criminale mafiosa significa, quindi, indagare anche su questo versante. Per contro, spesso chi osa farlo viene visto come un eretico o un marziano. E la democrazia, invece di essere tutelata, ne risulta indebolita. Spesso poi c’è qualcuno che rema contro gli interessi della democrazia. Per cui può anche succedere (è successo!) che settori consistenti dello Stato, contro la mafia, per certi profili legati alle “relazioni esterne” (che sono il punto critico dell’incidenza della mafia sulla qualità della democrazia) si sono fermati a undici metri dalla fine, come se si dovesse tirare un calcio di rigore, al novantesimo. Ma invece di tirare, si è preferito rientrare negli spogliatoi.
Nello stesso tempo, su di un altro decisivo versante per le sorti della democrazia, la partita stenta persino ad avviarsi. Lo sapeva bene Carlo Alberto Dalla Chiesa, un generale tutto di un pezzo, votato alla repressione nel rispetto delle regole, e tuttavia pronto a dire (nell’intervista a Giorgio Bocca per Repubblica del 10 agosto 1982, pochi giorni prima di essere ucciso con la moglie Emanuela Setti Carraro e il loro autista Domenico Russo): “Ho capito una cosa molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi caramente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati”. In altre parole, se i diritti fondamentali dei cittadini non sono soddisfatti, i mafiosi li intercettano e li trasformano in favori che elargiscono per rafforzare il loro potere. Così la mafia vince sempre. E i mafiosi ne sono ben consapevoli. Lo ha spiegato con cinica brutalità – in un colloquio con un magistrato di Palermo – il boss Pietro Aglieri: “Vede, dottore, quando voi venite nelle nostre (sic) scuole a parlare di legalità e giustizia, i nostri (sic) ragazzi vi ascoltano e vi seguono. Ma quando questi ragazzi diventano maggiorenni e cercano un lavoro, una casa, assistenza economica e sanitaria, a chi trovano? A voi o a noi?”. Ecco, finché i cittadini, invece dello Stato, troveranno soprattutto i mafiosi, finché saranno costretti a essere sostanzialmente i loro sudditi, la guerra alla mafia non sarà vinta e la qualità della nostra democrazia volgerà sempre al ribasso. Si allontanerà ancora l’obiettivo scolpito nella nostra Costituzione, di realizzare una “democrazia emancipante”, nella quale il compiuto riconoscimento dei diritti di libertà è integrato dalla solenne affermazione del principio di uguaglianza in senso sostanziale, assunto non come semplice aspirazione o obiettivo, ma come dato normativo fondamentale. In questa democrazia la cittadinanza è uno status di cui fanno parte, oltre al diritto elettorale, un reddito decoroso e il diritto a condurre una vita civile, anche quando si è ammalati o vecchi o disoccupati o abitanti in territori controllati dalla mafia. I principi di giustizia distributiva in forza della nostra Costituzione sono diventati diritti e le politiche per realizzarli atti dovuti, sottratti una volta per tutte alla negoziazione politica e a maggior ragione ai condizionamenti del potere criminale mafioso. Se invece di ripartire dalla Costituzione per fondarvi l’antimafia sociale, quell’antimafia dei diritti che è indispensabile tanto quanto l’antimafia delle manette, si continuerà a preferire, invece della “bellezza del fresco profumo di libertà”, il “puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità” (sono le commosse parole che Paolo Borsellino, pochi giorni prima di essere ucciso a sua volta, pronunziò nel trigesimo della morte di Giovanni Falcone), ecco che la violenza mafiosa – quella economica non meno di quella fisica – continueranno ad avere spazi incompatibili con una democrazia degna di questo nome.