Il sicomoro
Sono Zaccheo, quel tal pubblicano
cui era giunta notizia dell’arrivo
a Gerico del Rabbi nazareno;
timor mi venne, era ancor lontano,
del poterlo vedere d’esser privo;
in strada scesi allor, senza freno,
ma tosto mi trovai intrappolato
in una turba di esseri più alti
di me, che basso sono di statura;
ma il rimedio fu da me trovato
mirando a ben più adatti spalti
per una vista più ampia e sicura.
L’idea che ebbi allor, che vale oro,
fu quella di correre avanti
e issato sopra un sicomoro
il maestro vedere più di tanti.
Ma fu il Rabbi a posar lo sguardo
sul sicomoro (che sia benedetto)
e su di me in cima arrampicato:
“Scendi, Zaccheo, e non esser tardo,
oggi mi fermo sotto il tuo tetto”.
A ciò veder taluno ha mormorato.
Qual fu poi lo svolger dell’evento?
Del maestro il dir così profondo,
l’intenso suo mirar, che arde il cuore,
sì fece che da quel momento
la vita mia mutò da cima a fondo:
d’allor non vissi che per il Signore.
Il sicomoro non vorrei obliare:
di breve fusto ma di alti rami,
simbol di mezzi di comunicare
per chi nel volgere dei tempi brami
tendere alla realtà infinita,
Rabbi Gesù, Via, Verità, Vita.