TESTIMONI

Nella terra di Abramo

Una guerra che non termina. La gente, le Chiese, le terre tra devastazioni e silenzi, nel racconto della delegazione di Pax Christi Internazionale.
Renato Sacco

Qualcuno scherza e mi dice sorridendo “ormai tu conosci l’Iraq come le tue tasche”. Sono stato in Iraq, dal 10 al 17 settembre, con la delegazione internazionale di Pax Christi: 7 persone provenienti da Francia, Germania, Belgio, Stati Uniti e Italia. Accolti, come sempre succede in Iraq, con una cordialità e disponibilità straordinarie. Un viaggio intenso e fruttuoso, caloroso e ricco di incontri. Al termine abbiamo divulgato un comunicato (il testo integrale si trova sul sito www.paxchristi.it, ndr.) in cui tra l’altro si dice che lo scopo della delegazione era “esprimere solidarietà alla popolazione irachena, acquistare una miglior comprensione della complessa realtà irachena, proporre azioni concrete a supporto degli sforzi incessanti della gente irachena per arrivare alla pace e alla riconciliazione nel proprio Paese, sulla base di quanto visto e ascoltato” con l’impegno di informare la comunità internazionale sulla situazione in Iraq e delle sue minoranze, oltre che sul lavoro di pace e riconciliazione della Chiesa irachena, incluse le testimonianze dei martiri, il vescovo Paulos Faraj Rahho, Padre Rajeed, Paulos e altri”.

ANCORA IN FIAMME
Non è facile parlare dell’Iraq, un po’ perchè si rischia di ripetere sempre le stesse cose e un po’ perchè è ormai un Paese di cui non si parla più, dimenticato. La situazione continua a essere faticosa, preoccupante, incerta per dirla con parole tenere. Dall’inizio di quest’ultima guerra in Iraq, marzo 2003, anche chi sperava in un cambiamento vede aumentare la propria delusione. Il Paese non decolla. Il terrorismo e l’integralismo aumentano. Anche i sequestri che spesso finiscono tragicamente, come è successo a un infermiere cristiano di Kirkuk ai primi di ottobre. Ma l’elenco potrebbe essere molto lungo. Spesso, anche nei viaggi precedenti, qualcuno diceva che la situazione sembrava migliorare, invece dopo qualche giorno... uno scoppio inaudito di violenza e di morte, come è successo ancora a Baghdad pochi mesi fa.
Alla nostra delegazione non è stato possibile andare a Baghdad dove molti amici, tra cui anche mons. Warduni, ausiliare del patriarca, ci aspettavano. La delusione per non essere andati a portare un segno di speranza fino a Baghdad era molto forte; ma, ci hanno detto, sarà per la prossima volta, magari anche con una delegazione della Chiesa Italiana. Molti gli incontri con rappresentanti religiosi, sia cristiani sia di altre religioni, musulmani e yazidi, una piccola minoranza religiosa presente non solo in Iraq. Interessanti le riflessioni offerte da chi, per esempio il vescovo di Alqosh, ci chiedeva di non favorire l’esodo dei cristiani dall’Iraq. I governi occidentali non devono appoggiare questa politica di fuga dal Paese. “Se ci volete aiutare, diceva, aiutateci qui nel nostro Paese”. E anche p.Gabriele Tooma, Superiore Generale dei monaci Caldei sottolineava le gravi responsabilità dell’occupazione anglo-americana, che ha, certamente rovesciato Saddam Hussein, ma ha distrutto il Paese, mettendo la gente nelle condizioni di non poter vivere. “Gli americani – ci diceva – occupano i palazzi che erano di Saddam e la nostra gente non riesce a pagare l’affitto della casa. Loro hanno il petrolio per i loro carri armati, e noi facciamo fatica a trovarlo per le nostre case, per cucinare”.
“La situazione per il popolo iracheno
– si legge nel comunicato – è molto incerta e si prevede un aumento delle violenze nel periodo che ci separa dalle elezioni del gennaio 2010. Da una parte ci sono forze che aggravano le divisioni a sfondo etnico e religioso e dall’altra ci sono coloro che promuovono il dialogo, la comprensione, la riconciliazione e la nonviolenza. La delegazione ha incontrato molti ottimi esempi di lavoro per la pace. Gli sforzi straordinari di molti leaders religiosi della città petrolifera di Kirkuk hanno consentito loro di visitare moschee sunnite e sciite (vedi foto) e di interagire con leader islamici. ... A Erbil la delegazione ha incontrato il gruppo iracheno nonviolento LaOnf, un’organizzazione non governativa irachena che promuove una rete nella nonviolenza”.
Senza dubbio “cristiani e altri gruppi minoritari continuano a sentirsi minacciati in Iraq e a lasciare il Paese”. Va però sottolineato che “alla delegazione è stato detto che il conflitto è politico e non religioso, con violenze che scaturiscono da equilibri di potere”.
Certamente resta molto grave la situazione dei profughi, nell’area del Nord: nel Kurdistan iracheno ce ne sono circa 100.000. E diversi milioni sono in Siria, Giordania, in attesa di lasciare definitivamente il Paese. La partenza dei cristiani sarebbe una perdita per tutto l’Iraq, che rischia di andare verso una divisione in tre Stati: Kurdi, Sunniti, Sciiti, e sarebbe anche una sconfitta della storia millenaria di convivenza.
Infine è doveroso non dimenticare che l’Iraq ha visto tante, troppe guerre. Molti ci chiedevano: come mai le parole accalorate di Giovanni Paolo II contro la guerra sono state così presto dimenticate, anche all’interno della Chiesa? Come mai non si parla più di guerra, ma quasi solo di terrorismo? Chi c’è davvero dietro ai vari attentati? A volte si danno spiegazioni sbrigative sulle cause di diversi attentati, come se fosse così semplice capire. Proprio noi, italiani, che non abbiamo ancora fatto luce su tante stragi in Italia... e non abbiamo voluto neanche che si facesse piena luce sull’uccisione, in Iraq, di Nicola Calipari, anche lui una delle tante vittime dimenticate. E poi è doveroso ricordare le tante mine che l’Italia ha venduto a Saddam Hussein e di cui è disseminato il Kurdistan? L’amico vescovo di Dohuk e Zakho mons. Butros Harboli mi diceva che non può neanche andare nella sua casa dove è nato perchè il terreno è minato quasi sicuramente da mine italiane. “Venite a riprendervele, ve le diamo gratis!!”, mi diceva con un sorriso amaro.
Come molti vescovi ed esponenti della società civile ci hanno detto, è importante ancora oggi in Iraq e in Occidente “rifiutare l’occupazione e la guerra come metodo per costruire la democrazia e per instaurare la legge, quando viene presentata come unica opzione possibile”.
Le strade della pace nella terra di Abramo sono altre.

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