Disarmare le coscienze
Nonostante si sia conclusa da un ventennio la stagione della guerra fredda, la corsa agli armamenti continua. Anche il nostro Paese è, da questo punto di vista, oggetto di grandi attenzioni da parte delle potenze occidentali. Le postazioni militari presenti sul nostro territorio nazionale vengono di continuo ampliate o dotate di nuovi (e micidiali) strumenti bellici, suscitando reazioni contrastanti tra chi intravede, grazie a tali operazioni, nuove opportunità di lavoro e di sviluppo commerciale e chi denuncia con forza il pericolo della compromissione della pace.
Il panorama mondiale odierno è, d’altra parte, assai variegato: la ricerca di nuovi equilibri tra le potenze del passato e le nuove potenze emergenti rende instabile la situazione geopolitica internazionale, mentre, a sua volta, la crisi economica, che genera pesanti disagi nella vita di molte famiglie, rischia di far dimenticare l’importanza di battaglie ideali come quella del disarmo. Se dunque si può dire, per un verso, che la sensibilizzazione delle coscienze attorno al tema della pace sia cresciuta – la conferma viene dai toni accesi che hanno caratterizzato anche da noi la protesta popolare in occasione della guerra dell’Iraq – non si può negare, per altro verso, che permangano, e sembrino avere anzi un consistente revival, atteggiamenti ispirati a sentimenti di ostilità e di contrapposizione, dai quali nasce la violenza e il ricorso alla guerra. Conflitti etnici, odi razziali e il rifiuto dell’immigrato considerato come “nemico” sono fattori che fanno leva sulle peggiori pulsioni latenti nell’uomo e concorrono ad alimentare lo spirito bellicista.
Guerra giusta?
La corsa costante agli armamenti lascia intendere, d’altronde, che il ricorso alla guerra rappresenta ancora per molti la via obbligata per la soluzione dei conflitti. La nozione di “guerra giusta” è stata riproposta (con sorpresa) dallo stesso presidente Obama in occasione della consegna del Premio Nobel per la pace a Stoccolma.
Il pacifismo sembra aver subito una grave battuta d’arresto; ma più in generale sembrano aver perso significato alcune convinzioni ritenute da molti come definitivamente acquisite.
Il rifiuto del concetto di “guerra giusta”, e perciò la negazione radicale della possibilità della guerra (di ogni guerra), non è infatti nato all’insegna di una utopia astratta, ma di motivazioni di ordine razionale, fondate su considerazioni di realismo politico. La Pacem in terris di Giovanni XXIII, l’enciclica che ha per la prima volta negato con forza la possibilità di utilizzare tale concetto, faceva, infatti, anzitutto appello all’analisi della situazione storica, affermando che è “del tutto irragionevole (alienum a ratione) pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia” (n. 67).
L’esistenza di armi che hanno il potere sconvolgente di distruggere l’umanità è la ragione richiamata dal Pontefice per stigmatizzare l’insensatezza (o la irragionevolezza) della guerra, in quanto strumento assolutamente sproporzionato (dunque inadeguato) ad affrontare qualsiasi causa giusta. Questo tipo di argomentazione è stato, a suo tempo, ripreso e fatto proprio da gran parte della letteratura, sia cattolica che laica, sui temi della guerra e della pace, al punto da far apparire scontata la convinzione – spesso ribadita da Ernesto Balducci – che ciò che fino a ieri poteva considerarsi utopia è divenuto oggi realismo politico. Non è forse partendo di qui che sono venute maturando nuove categorie, in primis quella di “intervento di polizia internazionale”, per giustificare operazioni, anche armate, volte a ripristinare i diritti violati in situazioni nelle quali ogni altra strada sembra risultare impercorribile? La differenza – è bene sottolinearlo – non è nominalistica ma di sostanza; contrariamente alla guerra che ha come obiettivo la sconfitta del nemico, ciò che infatti in questo caso si persegue è il semplice arresto di un processo gravemente degenerativo, facendo peraltro ricorso a un’autorità internazionale e utilizzando la polizia (e non l’esercito addestrato a fare la guerra), nonché, dandosi precisi limiti di tempo e impegnandosi a creare le condizioni per l’apertura di una trattativa.
D’altra parte, il “no” alla guerra, concepito come un “imperativo di ragione”, è supportato da motivazioni più profonde e positive, in particolare da quella passione per la vita, che obbliga a evitare ogni attentato nei suoi confronti e a promuovere tutto ciò che la tutela e tende a migliorarne la qualità umana. L’ispirazione di fondo da cui è mossa la stessa Pacem in terris, al di là della preoccupazione di fornire motivazioni razionali valide per tutti – è questa la prima enciclica papale che si rivolge anche agli “uomini di buona volontà” – è di questo ordine e ha come riferimento la radicalità evangelica. Il rimando è alla beatitudine dei “pacificatori” o degli “operatori di pace” definiti “figli di Dio” – si tratta del titolo più alto conferito nel discorso della montagna a colui che fa propria la sequela di Gesù – ; beatitudine che esige per essere praticata un grande amore per la vita umana non solo nella sua dimensione biologica ma personale e relazionale, la scelta della nonviolenza come via per la soluzione dei conflitti (su questo torneremo in seguito) e, da ultimo (ma non in ordine di importanza), la capacità di fare proprio il paradosso dell’amore del nemico.
Il magistero della Chiesa ha ripetutamente ribadito, negli ultimi decenni, questa linea di condotta, lasciando chiaramente intendere come la nozione di “guerra giusta” – nata peraltro in un contesto assai diverso con l’intento positivo di fissare dei limiti alla possibilità di dichiarare la guerra e alle modalità della sua esecuzione – sia ormai divenuta del tutto anacronistica, e perciò obsoleta. L’attuale pontefice Benedetto XVI è più volte intervenuto rilevando a questo proposito “…che l’opzione militare non è una soluzione e che la violenza, da qualunque parte essa provenga e qualsiasi forma assuma, va fermamente condannata” (Discorso al corpo diplomatico, 8 gennaio 2009). E non ha mancato anche di denunciare come riprovevole l’incremento delle spese militari e l’attuale corsa alla fabbricazione di nuove armi, insistendo sulla necessità di una sempre più estesa azione di disarmo: “…non si possono non registrare con rammarico – scriveva Benedetto XVI nel 2006 in occasione della giornata mondiale della pace – i dati di un aumento preoccupante delle spese militari e del sempre prospero commercio delle armi, mentre ristagna nella palude di una quasi generale indifferenza il processo politico e giuridico messo in atto dalla comunità internazionale per rinsaldare il cammino del disarmo. Quale avvenire di pace sarà mai possibile, se si continua a investire nella produzione delle armi e nella ricerca applicata a svilupparne di nuove?” (Messaggio per la giornata mondiale della pace, 1 gennaio 2006).
Impegno per giustizia e nonviolenza
La militarizzazione del territorio e il costante aumento del livello quantitativo e qualitativo degli armamenti sono in aperta contraddizione con l’impegno a promuovere la pace, che è l’aspirazione di ogni uomo che crede nello sviluppo positivo della convivenza civile. Tale impegno comporta un’azione a vasto raggio, incentrata su un modo nuovo di intendere i rapporti tra gli uomini e tra i popoli; un modo basato sul riconoscimento del valore inestimabile di ogni persona umana, sul rispetto della dignità e dei diritti dei singoli e delle nazioni e sull’avvio di una forma di dialogo in cui la forza della ragione abbia il sopravvento sulla forza delle armi.
Il perseguimento della pace deve in primo luogo tradursi nella lotta per la giustizia, nello sforzo cioè di superare le disuguaglianze economico-sociali e culturali in continua crescita. La globalizzazione, lungi dal sanare le distanze, le ha accentuate contribuendo ad alimentare la conflittualità sociale. La violenza, rinfocolata oggi dal separatismo etnico, dal nazionalismo esasperato e dal fondamentalismo religioso è causata in radice dal profondo divario sociale tra i popoli in conseguenza dell’affermarsi di una forma di capitalismo selvaggio e totalitario, che ha prodotto politiche distruttive sia nei confronti del Sud del mondo che nei confronti dell’ambiente. La promozione della pace esige l’instaurarsi di un sistema equo nelle relazioni tra gli uomini e tra le nazioni; implica la costruzione di un ordine nuovo che garantisca a tutti cibo e dignità personale.
Questo tuttavia non basta. L’opera di pacificazione è anche frutto dell’adozione di un modo diverso (radicalmente alternativo a quello tuttora imperante) di affrontare e risolvere i conflitti. Obbliga, in altri termini, a scegliere la nonviolenza come opzione di principio da tradurre in comportamenti personali e in azioni politiche. Essa ha infatti, in primo luogo, a che fare con un profondo cambiamento degli atteggiamenti soggettivi, con una vera mutazione antropologica. Non si tratta soltanto del rifiuto a considerare l’altro come “nemico”, ma, più radicalmente, di superare la tentazione di ridurlo a “oggetto” privandolo della sua identità. Si tratta di dare spazio a valori quali la tolleranza, la mitezza, la pazienza, l’abnegazione, la riconciliazione e il perdono; ma anche il coraggio di osare l’impossibile e l’accettazione costante della propria fallibilità; di promuovere, in definitiva, una cultura e un linguaggio improntati al riconoscimento di ogni soggetto umano in quanto dotato di dignità infinita.
Ma la nonviolenza è anche – come si è detto – una pratica pubblica, che deve, in quanto tale, tradursi nella definizione di una precisa strategia, basata sull’utilizzo della via diplomatica, sul rafforzamento delle istituzioni internazionali e sull’allargamento del sistema democratico. Una strategia che non esiti a mettere in campo anche forme attive di intervento sulla realtà sociale quali la disobbedienza civile e l’obiezione di coscienza, il diritto alla resistenza e la proposta di tecniche di difesa nonviolenta, spingendo le istituzioni a ricercare vie diverse per la soluzione dei conflitti e la tutela dei cittadini.
La presenza anche nel nostro Paese di significative reazioni (se pure quantitativamente limitate) alla militarizzazione di alcune aree del territorio è il segnale di una maturazione delle coscienze che fa ben sperare per il futuro. Il “no” deciso – senza “se” e senza “ma” – alla guerra deve accompagnarsi al consolidamento di stili di vita improntati alla giustizia e alla riconciliazione e deve integrarsi con la capacità di dare conto del possibile sviluppo, anche sul piano strutturale, di prassi risolutive dei conflitti alternative a quelle belliche.