CHIAVE D’ACCESSO

Empowerment

Per non cadere vittime passive del potere, dobbiamo imparare a creare alcuni poteri nuovi.
Alessandro Marescotti (a.marescotti@peacelink.it)

Possiamo cambiare la società? Come?
Secondo Noam Chomsky “per la gente al potere è essenziale riuscire a far credere che in sostanza sono i grandi leader a far andare avanti tutto e che la gente non deve far altro che seguirli. È un modo per svilire la gente, per degradarla e renderla passiva”.
Una strada completamente diversa di cambiare la società è quella di cooperare e, invece di seguire il “leader”, costruire reti. Ma per renderle efficaci occorre perseguire una lucida strategia di “empowerment”.
Con tale termine si intende il processo di ampliamento delle possibilità di una persona (ma anche un gruppo di lavoro) che ha lo scopo di aumentare la capacità di agire nel proprio contesto e di operare delle scelte. È una tecnica che fa leva sulle risorse già presenti per aumentarne l’autodeterminazione. Si può distinguere un empowerment individuale e uno sociale.
L’empowerment individuale (“self empowerment”) consente di sentirsi protagonisti della propria vita e riguarda il potenziamento personale e professionale per utilizzare al meglio le proprie capacità, risorse e potenzialità. L’empowerment sociale è, invece, centrato sulla partecipazione ad attività di gruppo. Il concetto di empowerment assume la finalità di promuovere lo sviluppo dell’apprendimento e della crescita individuale nel corso di tutta la vita.
L’empowerment è anche uno strumento per la promozione della salute.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO – World Health Organization), con la Dichiarazione di Alma Ata (1978), la Carta di Ottawa (1986), la Dichiarazione di Jakarta (1998) e la Carta di Bangkok (2005), ha affermato a più riprese che l’azione di comunità e l’empowerment sono pre-requisiti per la salute.
L’empowerment è, inoltre, una strategia per la difesa ambientale.
Ma perché questa ragionevole teoria dell’empowerment non prende piede e non diventa visione comune e condivisa nell’azione politica? Perché non diviene una strategia per educare il cittadino a coltivare competenze e a ricercare informazioni con spirito critico?
La risposta è purtroppo semplicissima: perché la politica si impernia sempre più su elìte di potere che non solo espropriano i cittadini dei loro diritti, ma costruiscono una “antropologia della rassegnazione” mediante una complessa quanto efficace strategia di comunicazione del senso di frustrazione. Potremmo definirla una strisciante demolizione dell’autostima.
Ciò produce una sorta di tacita accettazione di un potere che nasconde persino le proprie informazioni, comprese quelle interne ai processi decisionali, e che vuole il cittadino di fatto escluso dalle decisioni, le quali sarebbero competenza di gruppi ristretti o di “tecnici” ed “esperti”. Tutto ciò uccide la partecipazione e la stessa concezione della “politica” intesa come condivisione della “polis”.
Ma a volte accade che cambi la percezione globale della propria vita e della propria funzione di uomini nella comunità. Avviene cioè un “cambio antropologico”, un mutamento della percezione del sé e della comunità, del proprio potere di scelta. Questo può avvenire di fronte alla percezione di un pericolo diffuso, di una forte insicurezza, di un’imminente minaccia. Si avvia, quindi, un meccanismo di partecipazione diretta al proprio destino e di costruzione di reti solidali di autotutela. Gli individui e la comunità diventano capaci di maggiore autostima e il pessimismo lascia il posto a un più alto tasso di fiducia nel cambiamento dal basso.
John Holloway ha scritto un libro interessante: “Cambiare il mondo senza prendere il potere. Il significato della rivoluzione oggi”. Holloway indica la dimensione e la direzione della lotta nella quotidianità, nella socialità e nel fare collettivo. “L’obiettivo della rivoluzione – scrive Holloway – è la trasformazione della vita comune, quotidiana, ed è certamente da questa vita comune e ordinaria che deve sorgere la rivoluzione”. La posizione di Holloway collima con il concetto di empowerment e con la posizione nonviolenta. Egli scorge, inoltre, dietro “conquista del potere” il rischio concretissimo di nuovi rapporti di dominio. È molto significativo quello che scrisse Danilo Dolci: “Una cosa è tendere a sostituirsi al vecchio potere e altro è creare nuovo potere in ciascuno”.

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