CHIESA

In memoria dell’amore

Il martirio di don Pino Puglisi: fermo al processo di beatificazione.
Rosario Giuè

Mentre apprendiamo che volge a felice conclusione il processo di beatificazione di papa Giovanni Paolo II a cinque anni dalla sua morte, non molti nel popolo di Dio sanno che il processo per la beatificazione di don Pino Puglisi, il parroco di S. Gaetano-Brancaccio e ucciso a Palermo dalla mafia 16 anni fa (la sera del 15 settembre 1993) è in fase di stallo. Ed è fermo perché la Congregazione vaticana per la Cause dei Santi sta discutendo se l’uccisione di don Puglisi possa essere interpretato come un “martirio” in odium fidei (in odio alla fede). Per la Congregazione vaticana, infatti, si può affermare che si è davanti a un martirio cristiano solo il delitto sia avvenuto in odium fidei.
Ma è davvero così che devono andare le cose?

Martire
Il termine “martire” (testimone), nella terminologia teologica del II e III secolo d.C. designava una persona che dona testimonianza per Cristo e la sua dottrina. In quel contesto l’uomo o la donna cristiani subivano degli interrogatori dettagliati e si era posti davanti alla scelta esplicita di professare la dottrina della fede o di morire.
Era un’occasione specifica di testimoniare il Vangelo, perché c’era un atteggiamento di ostilità verso il cristianesimo in quanto tale. Perciò allora, all’interno di quel paradigma storico-ecclesiale antico, si poteva parlare di martirio in odium fidei da parte di colui che uccideva un cristiano o una cristiana.
Poi la fede cattolica divenne religione di Stato e le cose, come è noto, cambiarono di molto, fino a invertirsi: fino a uccidere eretici, streghe o ebrei in odio alla loro diversità, ma questa volta da parte dei cattolici.
Ora, il contesto attuale è del tutto diverso. Non c’è nessun interrogatorio da parte di alcuno a motivo dell’odio contro la fede. Oggi coloro che uccidono e i mandanti dell’omicidio di un sacerdote (Diana, Puglisi, Ellecuria o Romero), di un politico (Mattarella) o di un magistrato (Livatino) cristiano sono essi stessi credenti cattolici.
Sono personaggi che partecipano a processioni, battezzano i figli, si sposano in Chiesa, tengono la Bibbia sul comodino nella latitanza. Finanziano le attività assistenziali cattoliche. Difendono l’integrità della famiglia cattolica. Sono contro gli omosessuali e le unioni di fatto. Può accadere che siano ricevuti da monsignori con tutti gli onori. Vi sono stati dei preti, gente “intelligente” direbbe Andrea Camilleri, che ha addirittura celebrato messa nel covo dei mafiosi per “convertirli”.
Certo, si può anche obiettare che la religiosità dei mafiosi non sia quella autentica. Si può parlare di una loro religiosità rituale svuotata di senso cristiano autentico. Ma in questo caso, però, bisogna riconoscere che ciò non vale solo per i mafiosi ma per mezza cristianità: una cristianità di massa, sacramentalizzata ma spesso senza sostanza, politici clericali di turno compresi.
In ogni caso pretendere che i mafiosi quando uccidono un cristiano lo facciano in odium fidei nel nostro contesto non regge. Chi uccide, sia essa la mafia o la camorra o gli squadroni della morte, uccidono perché un determinato prete, vescovo o catechista si mette di traverso rispetto ai suoi affari e al suo dominio sul territorio. Così è avvenuto in San Salvador, come anche a Palermo e a Casal di Principe. No, Puglisi non è stato ucciso in odium fidei.
Se la Congregazione per le Cause dei Santi insisterà ancora nel cercare la motivazione dell’odium fidei come causa dell’omicidio di un cristiano e, dunque, del martirio di don Puglisi deve sapere che non la troverà. I mafiosi non odiano la Chiesa, se la fanno amica, se possono. Non odiano la fede, se ne servono per farsi belli davanti alla gente semplice.

Fedele al Vangelo
Se si vuole portare avanti il processo di beatificazione di don Puglisi, dunque, non è l’odium fidei che bisogna indicare come elemento fondamentale per riconoscerne il martirio. Bisogna cambiare direzione e cercare nella sua vita pienamente e fedelmente evangelica fino alla morte.
Non l’odio alla dottrina della fede, dunque, ma il disprezzo per il Vangelo vissuto, il disprezzo per l’umanità che cammina a testa alta, l’odio per la determinazione di una vita, ha causato la morte di don Puglisi.
Non l’odio per la dottrina della fede, ma l’odio per una vita semplicemente coerente spinge la mafia a uccidere chi ne ostacola, suo malgrado, il cammino.
Insistere sul motivo dell’odio contro la fede vuol dire stare fuori dalla storia contemporanea. Fuori dalla sensibilità contemporanea, specialmente dei giovani.
Significa guardare al passato senza farsi interrogare dal presente dove la testimonianza cristiana si vive all’interno di un nuovo paradigma storico e culturale, che apprezza la veracità, l’onestà, la coerenza, la donazione di sé.
In più, chiedere che ci sia ancora l’odio contro la fede per portare a compimento un processo di beatificazione di un martire significa rimanere all’interno del paradigma pre-conciliare. Significa rimanere all’interno di una visione della missione della Chiesa pre-moderna: di una Chiesa al centro del mondo in difesa di una “verità” intesa più come dottrina che come vita vissuta. Significa rimanere anche dentro una concezione di Chiesa poco ecumenica la quale ritiene di avere qualcosa in più (la “verità” della dottrina) rispetto ad altri uomini e donne che pure donano la vita per amore di altri uomini e donne, in fedeltà a una giusta causa: martiri laici, come Falcone e Borsellino, ai quali va tutto il nostro affetto e la nostra memoria riconoscente.

Cosa fare?
Una Chiesa che si aggiorna, che non mette tra parentesi come un infortunio lo Spirito del Concilio Vaticano II, deve comprendere che c’è bisogno anche di una riforma dell’iter burocratico per i processi di beatificazione.
E ciò può avvenire su due piani: aggiornando i motivi e i criteri che rendono un cristiano “martire” o santo un cristiano, nel senso che abbiamo spiegato; ma anche aggiornando i luoghi dove si decide della beatificazione di un cristiano o di una cristiana.
Su quest’ultimo punto bisogna dire che oggi tutto ciò viene deciso a “Roma” in modo centralistico. Dovrebbero essere le Chiese locali, le Chiese nazionali (conferenze episcopali) a decidere sulle beatificazioni, magari all’interno di un quadro generale di riferimento unitario, per evitare arbitrii.
Ogni chiesa locale potrebbe stabilire, dopo un serio discernimento e una seria ricerca aperta e pubblica, chi proclamare beato, per seguirne l’esempio.
Perché la Chiesa di Palermo, provocatoriamente, non proclama beato don Giuseppe Puglisi con una grande manifestazione di popolo, invitando le altre Chiese sorelle, compreso il vescovo di Roma? Per riconoscere la santità di una vita non c’è bisogno dell’odio contro la fede o la conferma dei miracoli.
Per l’uomo e la donna contemporanei tali richieste appaiono delle bizzarrie. Che c’entrano i miracoli o l’odio per la fede per “vedere” la testimonianza di una persona buona o di un martire? Non c’entrano nulla.
Forse don Puglisi non sarà riconosciuto ufficialmente martire, quanto meno a breve tempo. Non sarà questo a farcene allontanare. Per noi Pino Puglisi è stato davvero un santo, un martire cristiano. Come lo sono stati tanti altri sconosciuti.
Tutti e tutte ci precedono nel regno di Dio: un regno di giustizia, di pace, di fiducia, di fraternità, di libertà, di amore. La loro vita cristiana autentica ci inquieta, ci toglie il sonno, perché spesso non siamo alla loro altezza.
Dobbiamo fare di più per seguirne le orme, per essere loro compagni di via. Per questo occorre che la nostra memoria di loro sia costosa: non un rituale, ma il costo del cambiamento pur dentro i conflitti che la storia ci costringe a vivere. Questo è ciò che importa. Tutto il resto è pula che il vento porterà via.
Chiesa di Sicilia, Chiesa di Italia: siamo davvero pronti e vigilanti su questo cammino?

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