PAROLA A RISCHIO

Tra mille cieli chiusi

Dietro il cielo plumbeo d’inverno, si cela la paura e la negazione, il rifiuto e il rigetto.
Don Angelo Casati

Ho vissuto per giorni l’oppressione dei cieli chiusi. In tutti i sensi. Mi andavo chiedendo per quale segreta ragione un cielo livido, plumbeo ci contagiasse a tal punto da lasciare nei volti quasi un’ombra inquieta di paura. E parallelamente mi succede di chiedermi per quale altra ragione in altri giorni un cielo aperto, con brividi di azzurro, quasi con immediatezza si specchi nella gioia dei volti che vado incrociando. Sarà forse perché un cielo chiuso sembra raccontare un respingimento. Di preghiere. Di comunicazione. Di accoglienza. Quasi una sordità impenetrabile. Simile a quella delle nostre coste chiuse, precluse all’azzardo dei barconi, dimore malferme di legno per gli impoveriti della terra.

C’è dunque una paura dei cieli, declinata come  paura di Dio. Come se il cielo chiuso perpetuasse il racconto di un Dio che avrebbe chiuso. Chiuso con gli umani. Come se lo spazio al di là della volta cupa fosse abitato dagli occhi irati di Dio. Un Dio di cui avere paura. 

Mi sembra di ricordare che la parola “paura” fa il suo ingresso nella Bibbia come paura di Dio. La paura s’infiltrò già in quell’“in principio” dei giorni: “udirono” è scritto “il rumore dei passi del Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno, e l’uomo con sua moglie si nascose dalla presenza del Signore, in mezzo agli alberi del giardino. Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: ‘Dove sei?’. Rispose: ‘Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto’” (Gn 3, 8-10). Paura nel cuore del terrestre e della sua donna. Paura per nudità, per rumori di passi.  I passi attesi, di un Dio che passeggia alla brezza del giorno, mutati in passi di paura.

Siamo rimasti al pensiero che, se Dio ti cerca dopo il tuo smarrimento, è per incenerirti, o per svelare agli occhi di tutti la tua nudità. Siamo rimasti a un’immagine di paura. Anni fa, sfogliando un libro regalo, ripercorrevo pagina dopo pagina le opere emozionanti di Michelangelo. Chissà perché, gli occhi mi corsero a una cacciata dal paradiso terrestre. La spada fiammeggiante dell’angelo puntava incutendo terrore alla nuca di Adamo, mentre la donna si ritraeva impaurita e curva. Volti dolenti, spalle ricurve per eccesso di vergogna. Mi ricordo che gli occhi mi corsero allora a un particolare: il terrestre e la donna erano ritratti nudi. Se la memoria della Bibbia non mi tradiva, Michelangelo, ma non solo lui, era in errore. Dio al terrestre e alla donna aveva cucito teneramente tuniche di pelle. E perché l’insistenza, non solo dei pittori, sulla spada fiammeggiante e non sulle tuniche che Dio aveva loro cucito? Sono innamorato di un Dio che cuce tuniche di pelle. Non mi fa più paura. È un Dio che apre i cieli non a scarica di fulmini, ma a ricerca di chi si è smarrito. 

Eppure fatica a morire la paura quando si aprono i cieli. A ricordarcelo è stata da poco la memoria della nascita di Gesù. Il Vangelo di Luca ci ha raccontato del cielo che si apre con un volo di angelo sui fuochi dei pastori, al loro bivacco di notte. Fu come se su quel campo, mescola di fuoco, di vesti ruvide e di odori, si intenerisse anche la notte. È scritto: “una luce li avvolse”. I primi a meravigliarsi furono i pastori, loro a temere che quel balenare di luce dal cielo fosse un avvertimento funesto. Non glielo avevano sempre predicato che gente come loro non si meritava se non fulmini dal cielo, loro che appartenevano alla categoria dei guardati male, razza sospetta cui venivano addebitati i furti e quant’altro, loro cui era precluso l’accesso al tempio, come a dire scomunicati, irregolari? 

La religione era stata loro insegnata come la religione di un Dio corrucciato. “Essi” annota il testo “furono presi da grande timore”. E invece, cosa da stropicciarsi gli occhi, l’annuncio era di gioia: “Non temete, ecco vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo. Oggi è nato per voi nella città di Davide un salvatore che è il Cristo Signore”. 

È nato per voi. E i pastori nella notte, si guardavano in volto, i volti della fatica, della dura veglia nella notte, volti di irregolari. Eppure l’angelo diceva: È nato per voi, per voi che non contate per nessuno. I pastori guardavano i vestiti delle loro fatiche, le pecore accucciate nella notte, il telo steso a raccogliere le poche gocce di rugiada, tutto così povero e disadorno. E l’angelo diceva: “È nato per voi”. Ora sentivano la paura sciogliersi come la neve a un tepore leggero di sole. Anche per via di quel segno stupefacente che era stato dato: “Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce adagiato in una mangiatoia”. Lo videro! Lo videro adagiato nella ruvida paglia di una mangiatoia. Segno di una grande benevolenza. Inimmaginabile per loro che il Messia stesse nella ruvida paglia, nella mangiatoia, come quando nasceva uno dei loro bambini. Né più né meno come loro. Si sentivano guardati dal basso e si scioglieva la paura. Perché la paura è sentirsi guardati dall’alto in basso, con occhi che ti inceneriscono. Da allora le fasce, la mangiatoia, la paglia raccontano a noi la benevolenza di Dio, che ci guarda dal basso. 

Ma se Dio non si fa temere e ha il volto della benevolenza, anche tu non farti temere, mostra il volto della benevolenza. Anche tu combatti ogni sguardo che dall’alto in basso incute terrore e paura, ogni sguardo che soffoca creatività e fiducia. Questo sguardo dal basso sposta l’idea del mondo, l’idea di una società costruita sulle gerarchie, sul terrore, sulla paura. 

Quando i rapporti tra umani e umani, tra popoli e popoli vedono uno sotto e uno sopra, non mettere mai il nome di Dio: Dio si è portato in basso perché ogni forma dii superiorità e di soggezione, ogni forma di paura si sciogliesse come la neve al sole. Mi ritorna alla mente un midrash della letteratura rabbinica. Racconta: Quando ero un ragazzino il signor Maestro stava insegnandomi a leggere. Una volta mi mostrò nel libro di preghiere due minuscole lettere, simili a due puntini quadrati. E mi disse: “Vedi, Uri, queste due lettere, una accanto all’altra? È il monogramma del nome di Dio; e, ovunque, nelle preghiere, scorgi insieme questi due puntini, devi pronunciare il nome di Dio, anche se non è scritto per intero”. Continuammo a leggere con il Maestro, finché non trovammo, alle fine di una frase, i due punti. Erano egualmente due puntini quadrati solo non uno accanto all’altro, ma uno sotto l’altro. Pensai che si trattasse del monogramma di Dio, perciò pronunciai il suo nome. Il Maestro disse però; “No, no, Uri. Quel segno non indica il nome di Dio. Solo là dove i puntini sono a fianco l’uno dell’altro, dove uno vede nell’altro un compagno a lui uguale, solo là c’è il nome di Dio. Ma dove i puntini sono uno sotto e l’altro sopra, là non c’è il nome di Dio”. 

Dio non è là dove c’è dominio dell’uno sull’altro, là c’è solo paura. Dio è dove uno vede nell’altro un compagno a lui uguale e lo scioglie da ogni paura.

 

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