Viva o morta
Ci sono voluti 32 lunghi giorni di sciopero della fame, ma alla fine una giovane madre sahrawi ha sconfitto il re del Marocco, Mohammed VI. Aminatou Haidar, voleva ritornare nel proprio Paese, ancorché occupato militarmente, e la sua determinazione ha piegato una monarchia assoluta e due governi occidentali, spagnolo e francese, che pensavano che questa donna, dall’aspetto apparentemente fragile avrebbe “ragionevolmente” ceduto.
Una lunga storia
Aminatou Haidar era rientrata nella sua città natale, El Aiun, occupata dalle truppe marocchine come i due terzi della Repubblica Araba Democratica Sahrawi (RASD), dopo aver ricevuto un nuovo riconoscimento negli Stati Uniti per la sua battaglia in difesa dei diritti umani.
Al momento dell’ingresso il suo rifiuto di dichiararsi marocchina le è valso dapprima un lungo interrogatorio durato tutta la notte e poi, il 14 novembre, l’espulsione verso l’aeroporto di Lanzarote (Canarie). Privata del passaporto, Aminatou è stata accettata sul suolo spagnolo grazie alla complicità del governo di Madrid. Dopo aver tentato inutilmente di fare subito ritorno, ha deciso, dalla mezzanotte del giorno successivo, di iniziare uno sciopero della fame a oltranza fino al ritorno.
“Viva o morta” ha chiarito a un certo punto, manifestando così la sua determinazione.
Il governo Zapatero le ha offerto la possibilità di prendere la nazionalità spagnola o ottenere l’asilo politico. Entrambe le offerte sono state respinte, anche perché hanno rivelato il totale accordo di Madrid nel consentire a Mohammed VI di togliersi dai piedi quella che è da anni la più fiera oppositrice dell’occupazione marocchina.
Aminatou non è in effetti una donna qualsiasi. All’età di vent’anni aveva subito una durissima prova che ha determinato la svolta non solo della sua vita ma anche del suo impegno.
In coincidenza con la visita di una missione dell’Onu, partecipa, nel novembre 1987, all’organizzazione di una manifestazione pacifica, che le autorità impediscono arrestando centinaia di persone, e facendone sparire una settantina. Tra queste, insieme ad altre 16 donne, c’è Aminatou.
Sottoposta a violenze e torture, è costretta a vivere sempre bendata in un centro di detenzione segreta, all’insaputa della famiglia che ne ignora la sorte.
Viene liberata dopo quasi quattro anni, nel giugno 1991, naturalmente senza alcun processo.
Dalla violenza subita all’impegno
Da allora Aminatou non smetterà di battersi per il rispetto dei diritti umani, animando diversi comitati. Quando nel maggio 2005 scoppia, in modo nonviolento, la rivolta nei territori occupati della RASD, è in prima fila per reclamare la fine della repressione che intanto si abbatte.
Viene nuovamente arrestata e nell’estate 2005 è protagonista, insieme a un gruppo di detenuti, di uno sciopero della fame durato 51 giorni. Processata, viene condannata a 7 mesi di prigione.
Nella primavera 2006 un primo riconoscimento internazionale costringe il governo di Rabat a concederle il passaporto e il permesso di uscire. È l’inizio della sua notorietà internazionale, coronata da numerosi riconoscimenti tra i quali il Premio Robert Kennedy per i diritti umani 2008, e la cittadinanza onoraria del comune di Napoli.
Ininterrottamente bersaglio di intimidazioni, insieme ai due figli, Hayat e Mohamed, Aminatou continua la sua denuncia, tanto più che gode della stima della popolazione marocchina, anche quella che vive nei territori occupati.
La decisione di espellerla è venuta dopo che Mohammed VI, in occasione del decennale della sua ascesa al trono (agosto) aveva preso posizione contro ogni dissenso. I primi a farne le spese sono i giornalisti marocchini che hanno osato informare anziché parlare in termini ossequiosi del re e della famiglia reale, come è d’obbligo nel regime. Subito dopo è la volta dei Sahrawi.
Il caso più emblematico è l’arresto di sette noti attivisti sahrawi, rei di essersi recati nei campi profughi in Algeria a visitare i loro parenti che non vedevano dal tempo dell’invasione marocchina e dell’esodo di buona parte della popolazione (1975). Al loro rientro a Casablanca, all’inizio di ottobre, sono stati arrestati e incarcerati con l’accusa di alto tradimento e rischiano la pena di morte.
Si noti che le visite familiari sono uno dei pochi programmi dell’Onu sottoscritto anche dal Marocco, e che prevede l’assistenza dell’Alto Commissariato ai rifugiati. Di fronte alle resistenza di Rabat di incrementare questo programma, i sette avevano organizzato la visita privatamente.
L’urgenza sahrawi
L’espulsione di Aminatou nasce dunque in questo clima. Il re ha pensato che fosse ora di fermare questa donna: troppi riconoscimenti all’estero, troppa presa sulla popolazione, per giunta anche su quella marocchina. Si è trattato, invece, del più grave errore politico della breve carriera di Mohammed VI. Malgrado i numerosi premi internazionali, quella di Aminatou è stata finora una battaglia silenziosa, forse perché rigorosamente nonviolenta. Le condizioni dell’espulsione, la determinazione dimostrata fin dall’inizio nel rifiutare qualsiasi compromesso hanno portato alla ribalta internazionale la vicenda di Aminatou e dei Sahrawi. Ne hanno parlato i media e le associazioni per la difesa dei diritti umani di tutto il mondo.
Da questione dimenticata, quella del Sahara Occidentale è diventata di attualità. Fatto ancor più straordinario non lo è stata a causa dei rumori di guerra, di un attentato, di un’esplosione di violenza, come la cronaca ci ha purtroppo abituati, ma solo grazie al coraggio di una donna.
Aminatou è rientrata senza condizioni, non ha voluto cedere infatti a nessuna compromesso, come quello di chiedere “perdono” al re. Mohammed VI ha perso completamente la faccia, ma insieme a lui Zapatero e Sarkozy.
Il governo di Madrid, dopo aver acconsentito all’espulsione, ha cercato in tutti i modi di far desistere Aminatou dallo sciopero. Quando finalmente ha capito che non ci sarebbe riuscito, si è deciso a far pressione sul re, ma solo perché Aminatou aveva ormai messo in luce la sua pusillanimità. Così al momento del ritorno di Aminatou, l’ineffabile ministro degli Esteri spagnolo ha dichiarato che “la legge marocchina si applica anche al Sahara Occidentale”. Di fronte alla levata di scudi della classe politica spagnola, è stato costretto a precisare che le sue parole si riferivano solo a un dato di fatto e non al riconoscimento della “sovranità marocchina” sul Sahara Occidentale. Non è stato certo il modo migliore di annunciare la posizione, che dovrebbe essere unitaria, da parte del Paese che si accingeva a prendere la presidenza di turno dell’Unione europea.
Tanto più che a farle da eco è venuta la dichiarazione del presidente francese Sarkozy, che ha lodato la proposta marocchina di “autonomia” per il Sahara Occidentale. La Francia è da sempre la migliore alleata del Marocco, e anche nell’aprile scorso ha scandalosamente minacciato il veto nel caso in cui il Consiglio di Sicurezza dell’Onu avesse approvato una risoluzione che estendeva il mandato del caschi blu alla protezione dei diritti umani dei Sahrawi. L’attuale missione dei caschi blu nel Sahara Occidentale (MINURSO) è, infatti, tra quelle dell’Onu, l’unica a non contemplare questa clausola.
I due governi occidentali hanno voluto indorare la pillola amara che hanno costretto a far ingoiare a Mohammed VI. Ormai la questione del Sahara Occidentale è di nuovo sul tavolo delle questioni importanti da risolvere. Il prossimo passo è la ripresa dei colloqui diretti tra Marocco e Fronte Polisario, che finora non hanno portato ad alcun risultato. Il 2010 dovrebbe segnare la concessione al Marocco di uno statuto privilegiato nei rapporti con l’UE; i diritti umani non contano più niente per l’Europa?
Il coraggio di una madre ha vinto l’ottusità di un re e il silenzio di troppe coscienze.
I Sahrawi sono tornati a sperare, ma sanno di doversi conquistare in prima persona i propri diritti, come Aminatou.