I moltiplicatori di ricchezza
Si fa presto a dire paradiso fiscale. In primis, non sono tutti “uguali”, poi nella loro classificazione c’è una certa diversità di vedute tra le istituzioni ufficiali, come l’OCSE, e un numero crescente di organizzazioni della società civile internazionale che seguono da vicino la tematica. Facciamo però subito un po’ di chiarezza. Molte giurisdizioni si specializzano in alcune operazioni, solitamente di natura finanziaria, attirando così i capitali e le imprese che possono trarre vantaggio da specifiche lacune nella legislazione e nelle normative internazionali. Una sorta di nicchia di mercato per moltissime realtà che hanno tratto profitto dalla liberalizzazione selvaggia dei mercati, di quelli finanziari in particolare, e dalla corrispondente mancanza di leggi e di istituzioni che potessero coprire i vuoti normativi e le “zone grigie” tra le diverse giurisdizioni.
È così che diversi studi considerano di volta in volta tra i paradisi fiscali l’Olanda per le sue società nominali, la City di Londra per le sue operazioni finanziarie, la Svizzera per il segreto bancario, le Isole Cayman, per gli hedge fund (oltre l’80 per cento del totale mondiale), e così via.
Questa diversificazione e specializzazione può in parte spiegare la difficoltà, se non il vero e proprio fallimento, della comunità internazionale nella lotta contro i paradisi fiscali. Di fronte ad agguerritissime – e strapagate – pattuglie di consulenti e studi legali costantemente alla ricerca di nuovi metodi per evadere il fisco e le leggi, le mosse eseguite dalle istituzioni sono apparse come il tentativo di fermare una valanga a mani nude.
Storicamente, è stata l’OCSE la prima organizzazione a muovere contro i territori offshore, con la pubblicazione della sua “lista nera” di giurisdizioni non cooperative in materia fiscale. Una lista attualmente vuota, a fronte degli oltre 70 Paesi che la rete internazionale della società civile Tax Justice Network ha inserito nella propria. Il metodo impiegato per arrivare agli elenchi ufficiali è quanto meno discutibile. L’OCSE ha preso in esame in primo luogo la firma e il rispetto degli accordi sullo scambio di informazioni in materia fiscale (Tax Information Exchange Agreements – TIEAs).
Questi accordi destano più di una perplessità. Lo scambio di informazioni non è automatico, ma su richiesta delle autorità di un Paese e può richiedere settimane, mentre i capitali possono sparire con pochi click di un computer. Si tratta poi di accordi bilaterali, che possono essere aggirati da operazioni di triangolazione, ovvero tramite diversi passaggi con Paesi non firmatari. Inoltre, giudicare se un Paese è un paradiso fiscale sul numero di accordi firmati è assolutamente fuorviante – tanto che, come visto, ora la black list è del tutto sguarnita. Tanto per citare alcuni esempi, Jersey e Guernsey hanno concluso accordi con la Groenlandia e le Far Oer. Accordi che permettono alle isole britanniche di “fare numero”, ma che non sembrano di fondamentale rilevanza per contrastare i flussi illeciti di capitali.
PARADISI EUROPEI
Per combattere i paradisi fiscali è necessario un trattato multilaterale, e non una serie di trattati bilaterali, che preveda uno scambio automatico di informazioni, e non su richiesta. Ancora, bisogna introdurre una rendicontazione Paese per Paese (Country by Country reporting) dei dati contabili e fiscali delle imprese multinazionali, che oggi devono riportare nei propri bilanci unicamente dati aggregati per macro-regioni. Una misura di buon senso che consentirebbe un decisivo salto di qualità nella lotta contro l’evasione fiscale, la corruzione, il riciclaggio e la criminalità organizzata.
Enti quali i trust, che garantiscono un completo anonimato e un’assoluta segretezza, devono essere dichiarati illegali. A cosa servono, se non a coprire attività criminose, riciclaggio o evasione?
Le maggiori potenze economiche devono accordarsi su sanzioni verso le giurisdizioni che non collaborano, fino al blocco di ogni operazione commerciale, economica e finanziaria. Questo coordinamento e questa volontà politica nelle Nazioni del Nord fino a oggi sono mancati, permettendo a piccoli Paesi che contano poco o nulla nello scacchiere internazionale di proliferare e diventare paradisi fiscali.
Ancora prima di introdurre nuove normative internazionali, perché non iniziamo a guardarci in casa? Quanti sono i paradisi fiscali all’interno della virtuosa Unione Europea o sotto il controllo più o meno diretto di nazioni europee? Quante imprese nostrane hanno filiali, sussidiarie e controllate in qualche paradiso fiscale?
Queste semplici domande tracciano la strada per due linee di lavoro: da una parte intensificare gli sforzi sul piano internazionale per eliminare i paradisi fiscali, dall’altra svuotarli delle loro prerogative. Nella sua breve carriera di senatore, l’attuale presidente Usa Barack Obama ha avanzato la proposta di proibire ogni finanziamento pubblico alle imprese che hanno filiali nei paradisi fiscali. Perché non promuovere immediatamente tale normativa anche in Italia e in Europa? In un momento di massicci ricorsi all’aiuto pubblico, si tratterebbe di un segnale forte per evitare che le imprese con una mano nascondano al fisco quanto dovuto, mentre con l’altra raccolgono risorse dallo stesso fisco, ovvero dai cittadini.
E ancora, perché governi e banche centrali non impediscono alle nostre banche di aprire filiali offshore? Perché alle imprese non si proibisce di realizzare operazioni finanziarie in questi territori?
In maniera ancora più elementare, è possibile pensare che imprese a partecipazione pubblica, e magari nelle quali lo Stato è l’azionista di riferimento, possano anch’esse avere una complessa rete di filiali negli stessi paradisi fiscali? Il colmo sarebbe se proprio il ministero dell’Economia e delle Finanze, il cui ruolo dovrebbe essere quello di contrastare l’elusione e l’evasione fiscale, fosse azionista di maggioranza di tali imprese, magari proprio qui in Italia, magari nel settore energetico...
I paradisi fiscali sono interamente funzionali a un consolidato sistema di potere finanziario, economico e politico concentrato nelle nazioni del Nord. È ipocrita e falso addossare a poche isole e altre piccole giurisdizioni la responsabilità degli attuali enormi problemi legati all’esistenza di tali territori. Il problema è molto più complesso ed esteso, e per questo c’è l’assoluta urgenza di interventi radicali e su base multilaterale.