Pace o pece?
“Auguro a voi tanta pece”: così concluse il neovescovo ausiliare nel saluto al termine della Messa celebrata sotto un tendone a L’Aquila alla fine della tradizionale Marcia della Pace del 31 dicembre, organizzata da Pax Christi, Caritas e commissione ‘Giustizia e Pace’ della CEI.
Il lapsus freudiano mi ha interrogato.
“Pece: massa nera di varia consistenza e di aspetto bituminoso…/pece nera: residuo della distillazione del catrame vegetale per calafatare navi e per impermeabilizzare tessuti e tele/ Camicia di pece: spalmata di pece, che un tempo si faceva indossare ai condannati al rogo/ Essere macchiati della stessa pece: avere tutti gli stessi difetti” (dal vocabolario della lingua italiana Zingarelli).
Uno stesso termine può, dunque, essere usato per significare realtà o azioni diverse: vi è un uso appropriato e sommamente utile della pece come quello per garantire lunga vita a una barca o a un tetto; vi è un uso improprio e non commendevole come quello di significare la morte; vi è, infine, un uso metaforico del termine che si presta a una sua applicazione generalizzata e ideologica.
Anche la pace (a pensarci bene, anche da uno sbaglio terminologico si può trarre una lezione) può essere usata in questi tre modi. E di fatto in quella notte d’attesa del Nuovo Anno se ne è avuto un luminoso esempio.
Tra le ferite aperte
Tante/i giovani, molte/i volontari, insieme a qualche famiglia, a diverse suore e presbiteri hanno marciato, partendo da piazza Duomo e muovendosi con le fiaccole accese nelle vie disabitate de L’Aquila, per manifestare solidarietà alla popolazione abruzzese così duramente provata dal terremoto e per augurare sinceramente la pace autentica alla Chiesa e alla città.
È stata – come sempre – una manifestazione semplice di fede genuina di popolo che si esprimeva con brevi toccanti testimonianze nel silenzio lancinante, intercalato solo da pochi canti quasi sussurrati per non interrompere la triste, sofferta, dolente meditazione su un pace con la natura e con gli uomini venuta tragicamente meno.
Una marcia che desiderava esprimere un abbraccio di pace come per fasciare, se non per guarire, ferite ancora aperte, rese manifeste dalle lacerazioni delle case sventrate, tra le quali si passava attoniti, tra preghiere spesso mozzate dal vento e dalla pioggia battente, che bagnava visi ormai senza più lacrime. Il desiderio di resurrezione, pur vivo e agognato, era sopraffatto dal silenzio tombale della morte che quasi si toccava con mano. Era veramente notte. Eppure, nelle file di quella fiaccolata che scendeva mesta verso il piano della tendopoli, trasaliva la speranza di un giorno nuovo.
La pace, usata come la pece, per impermeabilizzare quella barca – la città? la Chiesa? – nella quale tutti siamo e che naviga su un mare spesso in tempesta, ma con la speranza di giungere in un porto sicuro, ma ancora lontano.
Inoltre la pace spesso deve passare attraverso la morte: come la pece, a volte essa la indica. Ma la morte è stata indicata, richiamata, affrontata dalla marcia? Purtroppo no! Certo è stata evocata: e come poteva essere altrimenti? Ma è stata richiamata come un male imperscrutabile, come una fatalità. Non è stata veramente – come invece si doveva e poteva – respinta e condannata.
Non sono state richiamate le responsabilità. Non c’è pace senza giustizia: ma tra quelle case diroccate è prevalso un appello a una pace disincarnata; si è persa nel vento, come inghiottita nella polvere delle macerie, la richiesta di una giustizia, pur dovuta alle vittime innocenti di quel disastro.
Eppure il messaggio del Papa “Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato” avrebbe dovuto interrogare gli organizzatori, al di là di generici, scontati rinvii. In esso si trova, infatti, scritto che quando un evento della natura, “il cui uso comporta una comune responsabilità verso l’umanità intera, in special modo verso i poveri e le generazioni future”, viene considerato semplicemente frutto del caso, “rischia di attenuarsi nelle coscienze la consapevolezza delle responsabilità”.
Un pacifismo a basso prezzo
Come non approfondire queste chiare indicazioni, di fronte per esempio alla casa dello studente, dove si sono spente otto giovani vite per un crollo che poteva benissimo essere evitato se si fosse costruito rispettando le regole di una prudente ingegneria architettonica? Come, inoltre, non denunciare la responsabilità dei pubblici poteri, colpevolmente ignoranti e improvvidi, che hanno concesso i permessi a costruire su terreni resi altamente insicuri dalla faglia sottostante? Come non richiamare alla vigilanza per una ricostruzione che rispetti le regole del buon governo e della giustizia, e che chiami tutti alla partecipazione di soluzioni condivise? Non c’è pace senza la giustizia di responsabilità comuni, decise in modo democratico.
Ma su ciò non si sono ascoltate parole significative. Su ciò vi è stato un silenzio assordante, che ha reso più cupo il buio di quella notte.
Infine l’uso ideologico della pace-pece, evidente purtroppo anche nella celebrazione della Messa. È stata certo inappuntabile, cadenzata da vigili e scrupolosi cerimonieri: sembrava quasi di stare sotto le volte della basilica vaticana, e non sotto un tendone scosso dal vento e con i piedi su un terreno intriso d’acqua, nonostante la ghiaia profusa da solerti volontari. Gli stessi canti preparati da giovani volonterosi e sempre entusiasti, che accompagnavano la celebrazione, non riuscivano a scalfire la freddezza glaciale di parole che si perdevano nell’insignificanza di una ritualità prestabilita e preconfezionata.
La memoria sovversiva del corpo e sangue di Cristo nostra pace, veniva come contraddetta dalle parole banali e inconcludenti di un pacifismo a basso prezzo, mellifluo e velleitario, che precedevano e seguivano la consacrazione, ma soprattutto dai silenzi inammissibili sulla mancanza di pace nel nostro Paese, nel mondo e nella nostra stessa Chiesa.
Nulla sul degrado religioso, culturale, morale, prima ancora che politico ed economico dell’Italia; nulla sull’ingiustizia, l’illegalità e la corruzione che la divide in parti contrapposte; nulla sulla mancanza di accoglienza agli immigrati; nulla sulla grave crisi della finanza internazionale; nulla sul terrorismo e sulle guerre ancora in atto; nulla sui crimini commessi da Israele a Gaza, giusto un anno fa; nulla sul premio Nobel a un Presidente che riabilita la teoria della guerra giusta, nulla sulla violenza a intere popolazioni e sulle donne; nulla neppure sui martiri cristiani, ben trentasette di cui trenta sacerdoti solo in quest’anno che si stava appena concludendo.
Quello che è più grave è che non sono state permesse ai fedeli laici neppure preghiere libere, che avrebbero potuto esprimere tali sentimenti e riflessioni. Così la parola è rimasta incatenata.
Sedevano vicino a me tre Piccole Sorelle di Charles de Foucauld: ho letto nei loro sguardi smarriti tutta la delusione per una parola che non aveva assunto la carne e il sangue della storia.
Mi son chiesto allora se questa Marcia della Pace a L’Aquila non fosse stata un’occasione mancata.
Quale nostalgia per la Marcia e la Messa a Sarajevo, fermissimamente voluta e coraggiosamente fatta da quel profetico pastore che era don Tonino Bello!
Quella è stata significativa di una ‘Chiesa col grembiule’; il senso di quest’ultima si è perso, come foglia morta volata per una folata di vento.
Sulla strada del ritorno non avevamo più le fiaccole che illuminavano i nostri passi nella fredda notte, buia come la pece, che tutti ci avvolgeva.
E mi sovvenne il ricordo del grido del profeta Geremia: “I pastori sono divenuti insensati…tutto il loro gregge è stato disperso” (Ger. 10,21); e di quell’invettiva terribile dell’Apocalisse pronunciata dall’angelo contro la Chiesa di Laodicea: Fossi tu fredda o calda! Così, poiché sei tiepida, cioè né calda né fredda, sto per vomitarti dalla mia bocca” (Apoc. 3,15-16).