Una presidenza a caro prezzo
Le esortazioni più rilevanti del presidente Obama si possono elencare così: dire sempre la verità, non nascondere le differenze, riconoscere apertamente i conflitti, non restare prigionieri del passato, mettere in discussione gli stereotipi, percepire le sofferenze delle persone vulnerabili, valorizzare ciò che unisce, invocare la comune umanità, saper ascoltare e imparare dall’altro, avere fiducia nella possibilità di cambiare, coniugare la fede cristiana con laicità politica, coltivare la coscienza del limite, unire gradualità pragmatica e radicalità ideale. Teoricamente, siamo nel campo della cultura nonviolenta. Lo conferma la sua riflessione di alto profilo all’Università del Cairo (4 giugno 2009) centrata su nove questioni chiave: le relazioni tra l’Islam e l’Occidente, la pace tra israeliani e palestinesi, il disarmo nucleare, la lotta per la democrazia, la difesa dei diritti delle donne, la libertà religiosa, il dialogo interreligioso, l’importanza dell’educazione, l’aiuto allo sviluppo. Ma Obama ripete spesso di essere il comandante in capo degli Stati Uniti e di ereditare anni di tragedie in un mondo sempre più complesso, sconvolto da una gigantesca crisi economica legata anche a quella pesante eredità.
Quando arriva la notizia del premio Nobel “sulla fiducia”, il 9dicembre 2009 viene recapitata a Oslo la Lettera aperta al Comitato Norvegese per il Nobel, redatta da numerose associazioni statunitensi . «Il 10 dicembre, assegnerete il Premio Nobel per la Pace al Presidente Barack Obama, premiando “i suoi sforzi straordinari per rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli”. I sottoscritti sono preoccupati del fatto che il Presidente Obama, in prossimità del riconoscimento di questa onorificenza, abbia optato per inasprire il conflitto statunitense in Afghanistan con il dispiegamento di ulteriori 30.000 unità militari. Ci dispiace che egli non sia guidato dall’esempio di un predecessore, insignito del Nobel per la Pace, il Rev. Martin Luther King, che identificò il premio come “la profonda consapevolezza che la nonviolenza sia la risposta alle questioni cruciali politiche e morali del nostro tempo, la necessità che l’uomo superi l’oppressione e la violenza senza ricorrere alla violenza e all’oppressione”. Il Presidente Obama ha dichiarato che l’invio ulteriori di truppe è la risposta necessaria alla pericolosa instabilità di Afghanistan e Pakistan, ma noi rifiutiamo l’idea che l’azione militare possa migliorare la stabilità dei territori o la nostra sicurezza nazionale […]. Ci impegniamo a mobilitare le nostre associazioni nello spirito e sull’esempio non violento di King. Le sua parole profetiche ci guideranno nella sede del Congresso, negli uffici locali dei rappresentanti eletti, e nelle strade delle nostre cittadine e metropoli, per protestare contro qualsiasi proposta che seguiti a promuovere la guerra. Noi ci opporremo pubblicamente e attivamente ai finanziamenti militari che il Presidente Obama chiederà al Congresso, impegnandoci in una strenua opposizione all’attività di guerra degli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan […]. Faremo tutto il possibile per assicurare che il Presidente riceva pressioni popolari verso la piena accettazione delle responsabilità che questo premio comporta, e che ancor più il suo mandato elettorale ad essere una figura del cambiamento, gli impone. Deve porre fine alle politiche catastrofiche di occupazione e di guerra che hanno causato così grande distruzione, così tanti morti e un così grave oltraggio alle nostre stesse tradizioni democratiche. Questo premio non è una onorificenza senza senso. Noi ci impegniamo, in linea con l’obiettivo di un’azione nonviolenta, ad aiutare il nostro Presidente a diventarne degno».
Dave Robinson, direttore esecutivo di Pax Christi USA e uno dei firmatari della lettera aperta, già consulente di Obama durante la campagna elettorale, riconosce le luci del presidente (superamento della guerra preventiva, no all’idea degli “stati canaglia”, visione multilaterale, disarmo nucleare) ma al Convegno romano sul disarmo del 30 dicembre, promosso da Pax Christi, Caritas e Cei, ha espresso grande delusione per le molte ombre presenti in politica estera (la riproposizione della teoria della “guerra giusta”, la logica di proiezione militare, la ricerca del dominio strategico, il coinvolgimento della Nato e dell’Italia nelle operazioni militari in Afghanistan, la diffusione di grandi aziende private in ambito militare senza controlli politici).
Delusioni e sfide
In Italia la lettera statunitense incrocia l’azione di molte associazioni per le quali il rilancio della “guerra giusta” sembra riproporre l’avventura senza ritorno da Giovanni Paolo II agli inizi degli anni ’90. Aumentare le presenze superarmate vuol dire entrare in una spirale devastante di sofferenze che può produrre effetti distruttivi incontrollabili. Obama dichiara di non confidare solo sulla forza delle armi e pone un limite temporale all’escalation militare (luglio 2011), ma il rilancio armato sta suscitando dissensi profondi nel popolo della pace per la separazione evidente tra il fine e i mezzi, tra le intenzioni e la realtà drammatica della guerra. Le proposte innovative riguardanti il disarmo nucleare militare, nuovi trattati con la Russia, la lotta all’inquinamento, il rapporto tra culture non bastano a nascondere la delusione di molti amici politici. Obama vive la contraddizione tra la visione originaria e la carica presidenziale innestata in una pesante eredità. Ne è consapevole. E’ lui stesso ad affermare che deve unire «due verità apparentemente inconciliabili»: la necessità della guerra in alcuni casi e la realtà della guerra che «promette tragedie umane» e che non è «mai gloriosa». Obama, del resto, come capo di stato, non ha mai lasciato immaginare una politica estera “pacifista”, cosciente che in questo campo gli Stati Uniti sono tradizionalmente agitati da almeno tre inconciliabili aspettative: interventismo armato, neutralismo separato, multilateralismo. Il sofferto e contraddittorio intervento di Obama a Oslo il 10 dicembre 2009 (leggibile in «il Regno-Documenti» 1, 2010) esprime tutta la complessità della situazione contemporanea. Per il movimento della pace il confronto con la politica obamiana diventa una sfida necessaria, quasi una verifica della propria capacità di convincere e di mobilitare. La lettera citata lascia aperta l’interlocuzione. Se una persona della sua qualità riesce oggi a proclamare “giusta” la guerra afghana, il movimento per la pace deve fare i conti con la propria credibilità e dimostrare l’efficacia della nonviolenza come forza politica.
I poteri forti
Del resto, l’opposizione più forte non viene dagli amici delusi. Un anno dopo la vittoria, il vento sembra cambiare. In pochi mesi, il presidente deve registrare la sconfitta in tre verifiche elettorali (Virginia, New Jersey e Massachusetts). Sulla naturale separazione tra sogni e realtà si è lanciata la destra più intransigente con furia contagiosamente melodrammatica. Alcuni lo invitano a essere più lento e mediatore per non spaventare il corpo molle dell’elettorato moderato. Altri lo spingono a diventare più rapido e duro per non perdere la sua base radicale (così pensano, ad esempio, Paul Krugman e Joseph Stiglitz). Molti rilevano il fatto naturale che una politica innovatrice incontra necessariamente tante resistenze. E’ arduo varare una storica riforma sanitaria in un paese abituato a sospettare in ogni intervento pubblico un’invasione statalista. E’ difficile difendere gli investimenti nell’educazione se la disoccupazione aumenta. E’impensabile superare una crisi economica così grande in modo indolore. Nel gennaio 2010, nel discorso sullo stato dell’Unione, il presidente attacca l’«irresponsabilità» dei potenti, l’«avidità criminale» del mondo finanziario e la quantità di denaro sporco inquinante la politica. A tale riguardo una sentenza della Corte suprema, che ha regalato totale libertà ai finanziamenti privati al mondo politico (e militare), viene definita un «semaforo verde per un’ invasione dei poteri forti del denaro, il trionfo dei petrolieri, di Wall Street, delle assicurazioni sanitarie private che soffocheranno la voce dei cittadini americani». Contro Obama dall’estate 2009 si è scatenata una campagna mediatica carica di offese politiche e di insulti razzisti. Dai movimenti antitasse al Ku Klux Klan, dai repubblicani reazionari (come Joe Wilson o Sarah Palin) alle televisioni e radio guidate da propagandisti isterici ed editorialisti fanatici (Bill O’ Reilly, Rush Limbaugh, Gleen Beck, Charles Krauthammer o Bill Kristol), sta salendo una marea di odio che sta allarmando le forze di sicurezza.
Un sogno a caro prezzo
Obama sembra patire il classico conflitto tra profezia e politica. Il suo duro apprendistato è un monito per tutti i riformatori. Ogni cambiamento reale costa. Ogni innovazione seria si scontra con mille resistenze e viene pagata «a caro prezzo». Personalmente spero e prego non sia un prezzo di sangue e di morte. Dipende anche dall’Europa. Dipende dal convergere, in varie parti del mondo, di politiche e di pratiche di dialogo. dalla nostra intelligente e operativa speranza. Questo emergeva dall’ appassionato intervento egiziano, che ora sembra il manifesto di un idealista tormentato, forse impaurito, ma verace. Lo slancio utopico (e teologico) della sua visione incrocia il sogno drammatico di molti credenti nella pace chiamati ancora una volta a gestire in modo costruttivo conflitti, interni ed esterni, grandi ed estesi.
«Tutti noi condividiamo questo mondo solamente per un brevissimo istante di tempo […]. E’ più facile dare inizio a una guerra che porle fine. E’più facile accusare gli altri invece che guardarsi dentro. E’ più facile tener conto delle differenze di ciascuno di noi che delle cose che abbiamo in comune. Nostro dovere è scegliere il cammino giusto, non quello più facile. Al cuore di ogni religione c’è un’unica vera regola, quella che dice che dovremmo trattare gli altri come vorremmo essere trattati da loro. Questa verità trascende le Nazioni e i popoli, è una convinzione che non è nuova, né bianca, né nera, né marrone; non è cristiana, musulmana o ebrea. E’ una convinzione, però, che vive nella culla delle civiltà e che pulsa ancora nei cuori di miliardi di persone. E’ la fiducia nel prossimo, è la fiducia negli altri ed è ciò che mi ha condotto qui oggi. Abbiamo il potere di plasmare il mondo che cerchiamo, ma solamente se avremo il coraggio di dare il via a un nuovo inizio, ricordandoci di quel che è stato scritto. Il sacro Corano ci dice: “Oh, umanità! Vi abbiamo creati uomini e donne e vi abbiamo diviso in Nazioni e tribù affinché poteste conoscervi”. Il Talmud ci dice: “L’intera Torah ha lo scopo di promuovere la pace”. La santa Bibbia ci dice: “Siano beati i portatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio”. I popoli del mondo possono vivere insieme in pace. Sappiamo che quella è la visione di Dio. Questo deve ora essere il nostro impegno sulla Terra. Grazie e che la pace di Dio sia con voi»