BIOTERRORISMO E IMPERO BIOTECH

Armi biologiche e guerra (infinita) al pianeta

15 luglio 2010 - Ernesto Burgio

Quella delle guerre biologiche moderne e del bioterrorismo è una storia paradossale e contraddittoria. Prima di tutto perché tratta di guerre minacciate più che combattute: anche perché se le si combattesse, le loro conseguenze sarebbero ugualmente catastrofiche per tutti, aggressori e aggrediti. Il che ci deve tranquillizzare solo in parte: il vero pericolo è, infatti, che una guerra biologica globale deflagri senza che si riesca a impedirla, piuttosto che per la deliberata volontà di qualcuno. Poi perché si tratta di una storia misteriosa, piena di coincidenze significative, come accade per molte storie che valga realmente la pena di raccontare. Il punto nodale della storia è rappresentato da un importante Trattato internazionale, che avrebbe dovuto fermare la corsa alla creazione di arsenali di armi biologiche e che, fortemente voluto da un presidente americano che non credeva alla catastrofica potenza di questo tipo di armamenti, è stato demolito da due suoi successori, che erano stati costretti a riconoscerla. La prima coincidenza significativa riguarda il momento in cui il primo presidente prese la decisione di smantellare il programma americano per le guerre biologiche: proprio nei giorni in cui, nei laboratori del suo paese, venivano messe a punto le tecnologie che lo avrebbero messo in grado di produrre virus e altri microrganismi micidiali in quantità praticamente illimitata. Un’altra misteriosa coincidenza concerne un ponderoso libro-inchiesta sul bioterrorismo, che comparve nelle vetrine delle librerie newyorchesi proprio nel giorno del più tremendo attacco terroristico di tutti i tempi e che divenne un bestseller, mentre in tutta l’America si diffondeva il terrore per le lettere all’antrace. L’ultima coincidenza significativa è quella di una nuova pandemia potenziale da virus mutante, che si espande attraverso i continenti negli stessi drammatici giorni in cui gli Stati Uniti decidono di dare inizio alla guerra preventiva contro uno stato sospettato di essere la principale centrale del bioterrorismo mondiale. Ovviamente è molto difficile dire se si è trattato solo di coincidenze...

“All’alba dell’11 settembre 2001 a Washington e a New York si preannunciava una fresca giornata autunnale… alle otto e quarantotto del mattino quel mondo e le sue rosee certezze sparirono in un inferno di fuoco… entro mezzogiorno le due torri errano crollate, trasformandosi in una massa di macerie fumanti. Migliaia di persone erano morte nel più devastante attacco terroristico che il mondo avesse mai visto.” Sono le prime righe della prefazione all’edizione italiana di un best-seller uscito nelle librerie americane proprio in quel fatidico 11 settembre con un titolo profetico: Germs. Nel giro di poche ore il libro balzò in testa alle classifiche di vendita, a causa dell’incredibile coincidenza tra la sua uscita, l’attacco alle due torri e al Pentagono e il successivo bio-attacco all’antrace, che colpì o minacciò diecine di cittadini americani uccidendone cinque e terrorizzando l’intera nazione.
A oltre due anni di distanza il mistero su quei drammatici giorni è sempre più fitto: intorno al ruolo dell’intelligence e di importanti settori istituzionali USA; all’identità degli attentatori e dei misteriosi studenti israeliani o spie del Mossad che li pedinavano; alle speculazioni di borsa ai danni delle compagnie aeree americane nei giorni precedenti; all’identità dei bio-untori all’antrace; alle vere finalità perseguite dalle entità, certamente potenti e determinate, che hanno organizzato tutto questo. Da allora si parla sempre di più di “stati canaglia” in possesso di armi di distruzione di massa, di bioterrorismo, di armi chimiche, per legittimare campagne militari e massacri (come quello, archiviato in fretta, del teatro di Mosca). Si parla e riparla di antrace, di tossina botulinica, di vaiolo. E mentre su Baghdad piovono bombe, da Hong Kong a Montreal scoppia un nuovo bio-allarme planetario, la SARS. Ma sono davvero in pochi ad accorgersi dell’epidemia di suicidi e morti misteriose che colpisce la comunità internazionale di esperti del settore. Sarebbe eccessivo parlare di strategia della tensione globale?
È tempo di cercare qualche risposta alle molte domande che si agitano nelle nostre coscienze. Che significato dobbiamo dare agli eventi drammatici che hanno connotato fin qui in modo terrifico gli inizi di questo III millennio dell’era cristiana? C’è un nesso che li lega e un fondamento in questi allarmi? C’è una regia dietro a tutto questo? Dobbiamo credere a chi indica nel bioterrorismo il possibile fattore scatenante di un incubo senza fine? Le armi biologiche sono davvero così pericolose, o sono semplici spettri che qualcuno agita per avvantaggiarsi in vario modo del terrore indotto, per legittimare la propria strategia di dominio, o anche soltanto per garantirsi finanziamenti sempre più cospicui nel campo della difesa o della ricerca?

Il modo forse più semplice per rispondere all’ultima domanda consiste nel fornire alcune cifre, che ci permettano di capire di cosa stiamo parlando. Secondo stime un po’ semplicistiche, ma attendibili, la potenzialità bio-distruttiva di un grammo di spore di antrace è pari a quella di 700 grammi di plutonio da fissione, di 70 kilogrammi di gas nervino, di 3 tonnellate di bombe al cluster. Se si accettano queste cifre, è evidente che chiunque – presidente di paese imperialista e/o canaglia o Dottor Stranamore – affetto da delirio di onnipotenza, e quindi dotato di scarsi freni inibitori e scrupoli di ordine morale, decidesse di realizzare le proprie mire egemoniche, non potrebbe non tener conto di questi dati, che ci dicono come, per ogni essere umano ucciso da un bombardamento più o meno intelligente con bombe convenzionali, qualora si decidesse di utilizzare spore di antrace (le più facili da costruire e le meno costose tra tutte le armi di distruzione di massa), potrebbero morirne milioni (il rapporto in termini puramente aritmetici sarebbe di 1:3.000.000).
La domanda che sorge spontanea é a questo punto la seguente: ma se le armi biologiche sono talmente potenti, come mai sono state usate, così di rado?

Una prima risposta è d’obbligo. Le armi biologiche sono praticamente incontrollabili e quindi estremamente pericolose; anche per chi le usa. Inoltre, a differenza di ogni altro tipo di arma, possono propagarsi nello spazio e nel tempo teoricamente all’infinito. La più potente bomba nucleare, l’agente chimico più tossico e pervasivo hanno comunque un loro raggio d’azione e una loro potenzialità inquinante, valutabili in anni o decenni e in chilometri. Le armi biologiche no. Le grandi epidemie di peste nera, di influenza, di aids illustrano perfettamente il problema: ogni volta che un microrganismo patogeno comincia a circolare all’interno della biosfera, la durata della sua permanenza in essa e il suo percorso sono assolutamente imprevedibili. Qualsiasi altro essere vivente – uomo, ratto, insetto o microrganismo – può trasformarsi in vettore e condurlo ovunque (al limite persino su altri pianeti, grazie al nostro intervento). Non ci soffermeremo per il momento su questo punto, che pure si rivelerà fondamentale: per il momento ci è sufficiente sottolineare che questa potenziale onnipervasività non contraddistingue i microrganismi utilizzati a fini bellici, ma li accomuna a tutti gli esseri viventi, collegandosi alla loro (e nostra) esigenza/tendenza a competere per sopravvivere. Il che rischia di complicare maledettamente il problema.
La seconda risposta è che qualche tentativo di usare queste armi è stato fatto, anche in tempi recenti. Durante la seconda guerra mondiale, ad esempio, i giapponesi si dimostrarono particolarmente efficienti in questo campo; e pare che anche i tedeschi abbiano avuto un certo interesse per questo gioco al massacro e che a farne le spese sia stato un discreto numero di cavie umane. Affermare che i campi di concentramento giapponesi e germanici siano stati soprattutto immondi laboratori di ricerca sarebbe eccessivo. In compenso ci sono pochi dubbi circa il fatto che tra le decine di migliaia di criminali nazisti e nipponici prelevati da abili talent-scout quali Henry Kissinger e Allen Dulles e condotti nei laboratori USA piuttosto che di fronte ai tribunali militari pronti a giudicarli, ci fosse un discreto numero di scienziati ed esperti in sterminio (come non ci sono dubbi –sia detto per inciso- circa il nesso esistente tra le benemerenze acquisite dai succitati personaggi, e dai loro omologhi in Italia, nello svolgimento di questo delicato compito e la loro successiva fortuna in campo politico in senso lato). Il risultato di questa “contaminazione” fu il perfezionamento della strategia americana in settori nevralgici: in primis nel campo delle armi di distruzione di massa (nucleari, chimiche, biologiche), ma anche in quello dell’intelligence (e che tra gli strateghi di molti episodi inquietanti della guerra fredda e della strategia della tensione nel nostro paese fossero implicati i nazi-fascisti legati o vicini ai servizi segreti americani non è più un mistero).
In effetti Washington si era resa conto, nel corso della II guerra mondiale, del proprio ritardo in questo campo e anche per questo motivo il presidente Roosevelt aveva denunciato pubblicamente come “terribili e disumane le armi non convenzionali dei nemici dell’America”. Ma tanto giusto sdegno non durò molto e il programma americano per la guerra biologica, partito con un certo ritardo nel 1942, fu in grado di recuperare il tempo perduto, nell’immediato dopoguerra, anche grazie alla preziosa collaborazione degli scienziati giapponesi della famigerata Unità 731, che avevano disseminato la Cina di pulci portatrici del bacillo della peste. Come già nel corso del Progetto Manhattan non mancarono le voci critiche. Theodor Rosebury, un microbiologo veterano del programma per le armi biologiche, ne denunciò l’assoluta incontrollabilità in un libro che fece scalpore. Ma gli sviluppi della guerra fredda e lo scoppio della guerra di Corea fecero – secondo la famosa definizione di Oppenheimer, lo scienziato simbolo del travaglio americano di quegli anni di fronte ai pericoli di una tecnologia sempre più sofisticata applicata in campo militare – il gioco del diavolo: intere città americane furono trasformate in giganteschi laboratori dove venivano liberati germi ritenuti non patogeni, che puntualmente si rivelavano tutt’altro che innocui; migliaia di coreani e cinesi, di campesinos colombiani e boliviani, di eskimesi e cubani furono sterminati dai bacilli della peste e del colera e dal virus della dengue.
Per una ventina di anni di Guerra Fredda entrambi gli schieramenti seguitarono nel loro pericoloso gioco: gli esperimenti in vitro e in vivo, su nemici e ignari cittadini, continuarono e furono messi a punto batteri, virus e tossine sempre più micidiali. Di tanto in tanto qualche notizia arrivava sui media e cominciarono a circolare romanzi e film di fantascienza in cui congreghe di scienziati e generali paranoici riuscivano a impadronirsi di virus letali per impossessarsi del governo del mondo.
Poi accadde qualcosa, che avrebbe cambiato il corso della storia. Presso i vertici politico-militari delle grandi potenze si fece strada l’idea che la cosa più importante era mantenere costosa la guerra. Le armi biologiche erano infatti sempre più pericolose e, tutto sommato, economiche. Se si fosse permesso a tutti i paesi sottosviluppati del mondo di averle nei propri arsenali, gli equilibri planetari sarebbero mutati.
Ma per meglio capire quel che veramente accadde, è utile ricordare come e perché americani e inglesi giunsero a quella che potrebbero essere costretti, un giorno, a riconoscere come la più sciagurata delle scelte strategiche.

LA BIOLOGICAL WEAPONS CONVENTION: BREVE STORIA DI UNA STRATEGIA IMPERFETTA
La decisione praticamente unilaterale da parte degli Stati Uniti di smantellare, nel 1969, i propri programmi di guerra batteriologica, è ancora oggi interpretata come uno dei non molti meriti indiscussi della prima amministrazione Nixon. Tanto più che, mentre nel 1972 Gran Bretagna e Stati Uniti furono i principali sponsor della Convenzione sull’interdizione delle armi biologiche, nel luglio del 2002, nell’ambito della generale operazione di smantellamento dell’architettura internazionale di sicurezza avviata da G.W.Bush, il sottosegretario USA incaricato della lotta contro la proliferazione respinse in blocco le proposte migliorative del trattato, avanzate dalla Francia e da altri stati occidentali, affermando che queste andavano contro gli interessi commerciali e di sicurezza americani, senza peraltro garantire un rallentamento nella proliferazione delle armi biologiche.
Solo un breve resoconto di quanto veramente accadde può aiutarci a capire come anche in questo caso il giudizio morale e politico intorno a queste due opzioni strategiche in apparenza radicalmente opposte non dovrebbe essere formulato con troppa leggerezza.
Erano gli anni della crisi americana in Vietnam. Sotto la crescente pressione dell’opinione pubblica interna, seguita all’offensiva del TET che aveva portato i Vietcong fin dentro l’ambasciata americana di Saigon, Nixon aveva dovuto accettare il dialogo con Hanoi. Il movimento pacifista era in crescita tanto negli Usa (Allen Ginsberg, Bob Dylan, Joan Baez) che nella vecchia Inghilterra (Bertrand Russel) e rischiava di avere un impatto culturale e politico destabilizzante. Le armi di distruzione di massa erano ovviamente il principale oggetto del contendere. A quel punto gli anglo-americani fecero un ragionamento machiavellico che si sarebbe rivelato del tutto errato: per indebolire i paesi che, non essendo in grado di produrre armi nucleari, per le quali è necessaria una tecnologia sofisticata e costosa, avrebbero dovuto accontentarsi delle armi biologiche (già allora definite il “nucleare dei poveri”) sarebbe stato utile proporre una Convenzione internazionale per la messa al bando delle stesse. A lanciare l’idea fu il premier inglese Harold Wilson, su suggerimento dei suoi consiglieri ed esperti militari, convinti della scarsa affidabilità delle armi biologiche e al contempo incapaci di riconoscerne le potenzialità. Nel novembre del ’69 anche Nixon seguì la linea di Londra e decise lo smantellamento dell’intero programma americano per le guerre biologiche. I suoi sostenitori cercarono di dimostrare che quella del presidente era stata una scelta morale, almeno in parte legata alla campagna portata avanti sul Washington Post e presso vari comitati etici dal premio Nobel Joshua Lederberg, il quale chiedeva da anni l’immediata sospensione di ogni sperimentazione nel campo degli agenti patogeni, che avrebbe condotto rapidamente l’umanità al genocidio. La verità è ben diversa: con ogni probabilità le parole dello scienziato sarebbero cadute ancora una volta nel vuoto se Nixon non avesse condiviso le analisi degli esperti anglo-americani circa lo scarso valore militare di quelle armi e l’enorme superiorità, come deterrente, delle armi atomiche. Come ampiamente dimostrato da Susan Wright, che a sostegno della sua tesi ricordava lo sprezzante commento del presidente al suo portavoce, William Safire: If someone uses germs on us, we’ll nuke them”.
La scelta di Londra e Washington di promuovere la famosa Biological Weapons Convention del 1972 ebbe insomma un solo scopo: il perseguimento di una “asimmetria strategica” tra i pochi stati ricchi e potenti (nella lista bisogna includere Israele, la cui capacità nucleare era stata da poco confermata dalla CIA) in grado di proteggersi grazie al deterrente nucleare e i molti stati poveri e im-potenti, privati anche del “nucleare dei poveri”.
A posteriori possiamo affermare che si trattò di un errore colossale. Le armi biologiche sono indubbiamente poco controllabili; ma, come detto, la loro potenza è spaventosa, superiore a quella di qualsiasi altra arma. E mentre gli Stati Uniti abbandonarono, almeno in parte, questo settore, la Convenzione del 1972 non ebbe gli effetti sperati, perché molti altri paesi, anche tra i firmatari, decisero di agire in modo opposto. I russi, in particolare, aumentarono i loro investimenti nel settore, organizzando negli anni settanta e ottanta almeno cinque grandi impianti di produzione e impiegando nell’ambito del progetto segreto Biopreparat diecine di migliaia di scienziati e di tecnici.
Le conseguenze drammatiche di questa situazione si manifestarono con la crisi dell’URSS. Se sul piano economico e politico circa l’implosione dell’Impero sovietico (fine di un equilibrio bipolare; via libera alla globalizzazione neo-liberista ecc.) sono possibili valutazioni diverse, in riferimento al problema che stiamo trattando è fuor di dubbio che il crollo dell’URSS ebbe conseguenze catastrofiche.
La prima fu la diaspora di centinaia di scienziati e tecnici sovietici che, impegnati per anni in Biopreparat, si trovarono improvvisamente nelle condizioni di offrire la propria esperienza e competenza tecnica su un mercato nel quale tali discutibili virtù erano molto richieste e apprezzate. La seconda fu la conseguente diffusione di armi biologiche sofisticate e pericolose in una delle aree geografiche più instabili del pianeta (comprendente in particolare alcuni paesi islamici e le repubbliche ex-sovietiche) e in un territorio totalmente disastrato: l’esempio più emblematico di questa catastrofe è oggi rappresentato dall’ex base segreta russa nell’isola di Vorzozdenie, ormai praticamente congiunta alla costa di quello che una volta era il Lago d’Aral e ridotta a una sorta di sarcofago pieno di spore di antrace e forse di bacilli di morva, tularemia e peste e di virus del vaiolo e di altre malattie emorragiche che rettili e ratti potrebbero disseminare sulla terra ferma. Anche la tanto pubblicizzata pericolosità dell’Irak in questo campo ebbe, almeno in parte, le stesse origini.
Ma con la fine della guerra fredda e il crollo dell’Impero sovietico la strategia americana cambiò radicalmente e in modo apparentemente paradossale. Iniziarono gli anatemi e le liste di proscrizione degli “stati canaglia” sospettati, spesso a ragione, di detenere armi di sterminio di massa; poi si passò alle ritorsioni economiche e alle minacce militari; infine alla guerra preventiva. Un fatto è certo: gli esperti americani e anglosassoni dovettero riconoscere i propri errori di valutazione e correre ai ripari. Eppure le amministrazioni Clinton e Bush non fecero nulla per rafforzare la Convenzione per l’abolizione delle armi biologiche, anzi fecero di tutto per boicottarla, impedendo, a chiunque cercasse di migliorala e di rendere efficaci i controlli, di ottenere risultati tangibili. Come mai?
Qualche giorno prima del fatidico 11 settembre Judith Miller e gli altri autori del già citato Germs avanzarono sul New York Times, una tesi interessante e, almeno in parte, accettabile: gli Stati Uniti stavano cercando di recuperare il tempo perduto e avevano in cantiere una nuova bomba vettore per materiale biologico, un ceppo di antrace geneticamente modificato in modo da resistere a qualsiasi farmaco noto e altre chicche dello stesso genere. La decisione di Bush di affossare in modo definitivo non solo la Convenzione voluta da Nixon (dichiarandola inutile e pericolosa per la sicurezza degli States) ma l’intera strategia preventiva nei confronti delle guerre biologiche, poteva essere spiegata con il timore che la nuova strategia americana venisse scoperta. L’articolo della Miller fece scalpore e contribuì al lancio del libro. Tanto più che nei giorni seguenti a Manhattan scoppiò l’inferno e qualcuno si premurò di dimostrare all’America e al mondo la potenza devastante nascosta in pochi nanogrammi di spore di antrace. Microbiologi insigni negarono qualsiasi valore difensivo alle sperimentazioni genetiche sull’antrace e molti accusarono Washington di voler utilizzare in modo strumentale le minacce bio-terroristiche (del resto con ogni probabilità made in USA) per giustificare i propri pericolosi progetti in nome di una strategia di difesa biologica del tutto irrealizzabile. Eppure la tesi della Miller spiega solo in parte la nuova strategia di Washington. Tanto più dopo che l’11 settembre ha cambiato ulteriormente il quadro generale della situazione, costringendo non solo gli Stati Uniti, ma l’intera società civile mondiale a scoprire la propria drammatica fragilità.

Dal giorno in cui la massima potenza del pianeta ha dovuto riconoscere la propria vulnerabilità di fronte alla disperata e lucida follia di un gruppo di kamikaze; in cui il mondo intero è stato costretto ad ammettere che persino il più mastodontico arsenale bellico della storia si rivelerebbe inutile, qualora un pugno di terroristi ben organizzati decidesse di colpire al cuore le città americane, disseminando nelle affollate subways delle ore di punta qualche manciata di polverina carica di spore; in cui la stessa rappresentazione collettiva degli equilibri planetari e dell’intera storia dell’uomo è cambiata… non sarebbe stato logico attendersi che Bush tornasse sui suoi passi, riconoscendo che la salvezza del pianeta passa necessariamente per una Convenzione, sottoscritta da tutti i paesi e dotata di controlli rigorosi e capillari da parte di ispettori internazionali? Ma Washington, ancora una volta, segue una linea totalmente diversa. La Convenzione e i protocolli non vengono più neppure citati nei documenti ufficiali e qualsiasi trattativa diplomatica, qualsiasi regime fondato su controlli internazionali vengono accantonati e sostituiti da una strategia politico-militare durissima, fatta di minacce, di ritorsioni, di bombe. Come mai? Quella di Washington è soltanto la logica orgogliosa della superpotenza convinta di avere diritto al dominio del mondo e decisa a non rinunciare a un tenore di vita insostenibile e fondato su strategie economico-politiche non più accettate dal resto del mondo? E ancora: è mai possibile che Bush e i falchi del Pentagono intendano puntare su una sorta di “worlwide biological arms race”, di sfida all’ultimo virus che potrebbe distruggere l’intero pianeta, come sembra sostenere la Miller?
Per rispondere a queste domande può essere utile rileggere quella che è a tutt’oggi forse l’analisi più lucida delle “origini geopolitiche” e delle successive vicissitudini della Convenzione del 1972: quella di Susan Wright. La sua ricostruzione dei continui cambiamenti di strategia, da parte di Washington, è infatti estremamente rigorosa e va dritta al cuore del problema: partendo dall’intuizione che è necessario tornare a quei fatali anni ’69-72, la Wright capisce infatti che c’è qualcosa che non funziona, che non può funzionare nella stessa Convenzione e che questo qualcosa ha a che vedere con la difficoltà di distinguere tra usi difensivi e offensivi delle ricerche sui microrganismi e, almeno a partire dagli anni ’80, con gli enormi interessi economici collegati al nuovo settore delle biotecnologie genetiche. La Convenzione, infatti, autorizzava lo sviluppo, la produzione e lo stoccaggio di agenti biologici patogeni “se utilizzati per la produzione di mezzi difesa quali vaccini, terapie speciali, tute preventive.” Inoltre, non erano previste procedure e strumenti di controllo. Quando poi, nel 1995, i firmatari della Convenzione decisero di negoziare un protocollo di verifica e controllo, si scontrarono con ostacoli insuperabili, messi in atto dall’amministrazione Clinton, che aveva dovuto cedere alle pressioni delle industrie biotecnologiche e farmaceutiche. Infine la nuova amministrazione Bush, il 25 luglio 2001, respinse in toto il protocollo, definendolo “non solo inefficace, ma pericoloso per la sicurezza nazionale americana”.
Ma chi volesse realmente capire cosa sia cambiato nei 30 anni che separano la Convention, così fortemente voluta da Nixon, dal suo definitivo sabotaggio da parte di Clinton e Bush dovrebbe tornare a quei fatidici anni per un’altra ragione. Proprio in quegli anni infatti, nel silenzio dei laboratori della nazione più potente del mondo, si ponevano le basi di una rivoluzione tecnologica che avrebbe inciso in modo drammatico sulla nostra storia.

UNA RIVOLUZIONE GRAVIDA DI CONSEGUENZE
Abbiamo cercato di dimostrare che il programma politico di Wilson e Nixon era basato su una valutazione del tutto errata delle potenzialità delle armi biologiche ed ebbe conseguenze catastrofiche. A parziale giustificazione dei due uomini politici bisogna però ammettere che il giudizio circa la scarsa affidabilità ed efficacia di queste armi terribili era in quegli anni piuttosto diffuso, persino tra i maggiori esperti mondiali, anche perché le tecniche di sperimentazione erano ancora rudimentali. Quello che i poco lungimiranti ideatori dell’asimmetria strategica nel campo degli armamenti non potevano sapere, è che proprio in quegli stessi anni e proprio nei laboratori americani, si stava realizzando la rivoluzione tecnologica che avrebbe sconvolto il mondo della genetica e fornito agli scienziati gli strumenti necessari a trasformare innocui microrganismi in microscopiche bombe intelligenti, più potenti di qualsiasi altra arma mai costruita. Proprio nel 1969 fu scoperta la DNA polimerasi RNA dipendente, che di lì a qualche anno sarebbe diventata famosa, quale principale arma del virus dell’Aids, col nome di trascrittasi inversa: l’enzima che consente al genoma di un RNA-virus di riprodursi a partire dal DNA, con un meccanismo speculare a quello, descritto da Watson e Crick, e considerato fino ad allora l’irrefutabile dogma centrale della moderna genetica. Appena un anno dopo, nel 1970, furono isolati il primo enzima di restrizione, una sorta di forbice biologica prodotta dai batteri per tagliare le molecole di DNA riconosciute come estranee, e la DNA ligasi, un enzima in grado di formare legami covalenti tra due frammenti di DNA. I biotecnologi di tutto il mondo si trovarono così d’un sol colpo a loro disposizione i principali strumenti di lavoro per quel vero e proprio taglia-incolla che è l’ingegneria genetica.
Da quel momento migliaia di scienziati seri e di apprendisti stregoni poterono manipolare e modificare con una certa precisione il codice stesso della vita. Nacquero così i cosiddetti OGM: virus, batteri e organismi superiori “artificiali”, cioè non prodotti da un processo antico di miliardi di anni e regolato da naturalissimi meccanismi di feed-back, ma privi di qualsiasi interazione regolatrice con gli altri esseri viventi, impegnati in un complesso processo di co-evoluzione, cooperazione e competizione per la vita. Ma quando, di lì a poco, Stanley Cohen e Charles Boyer produssero in vitro la prima molecola chimerica di DNA, non furono in molti a capire l’enorme portata e la pericolosità dell’evento.
Non è facile dimostrare quale peso abbia avuto, anche in questo senso, l’errata valutazione delle potenzialità delle armi biologiche da parte dei vertici politico-militari anglo-americani. Difficile sarebbe, per contro, sopravvalutare il peso dei fattori economici.
Se é vero, infatti, che alcuni scienziati, memori di quanto avvenuto 30 anni prima col progetto Manhattan, proposero uno stop deciso alle sperimentazioni, col fine dichiarato di indagare più a fondo circa la possibile pericolosità delle nuove tecniche di manipolazione genetica, è altrettanto innegabile che la loro consapevole prudenza fu ben presto soppiantata dalla curiosità scientifica, e dalla prospettiva di enormi profitti. Nulla illustra meglio questo rapido cambio di rotta della vicenda personale del premio Nobel Paul Berg, il quale fu tra i primi a proporre una moratoria sulla ricerca genetica, organizzò il famoso convegno di Asilomar (1975), nel corso del quale un nutrito gruppo di scienziati cercò di stabilire un rigido protocollo di sicurezza per le ricerche biotecnologiche e finì con il dar vita alla Genientech (1976), la prima azienda biotech di successo. Da quel momento la legge del profitto condizionò pesantemente le strategie di ricerca e le scelte normative in una materia in cui a decidere avrebbero dovuto essere soltanto la coscienza e la responsabilità verso l’altro, l’ambiente, le generazioni future. Quando arrivarono i primi brevetti concernenti gli esseri viventi (1980), fu chiaro che fermare la sperimentazione bio-genetica sarebbe stata un’impresa disperata. Gli scienziati più coscienziosi continuarono a invocare trattati e convenzioni in grado di impedire quantomeno lo splicing di geni finalizzato alla produzione di nuove armi batteriologiche; ma fu evidente a tutti che si trattava di un’impresa donchisciottesca. In primis per i due motivi segnalati dalla Wright: la difficoltà di distinguere tra usi offensivi e difensivi della ricerca biotecnologica e l’enorme business derivante dalla rivoluzione biotech. Ma anche e soprattutto per la quasi impossibilità di porre un confine netto tra la ricerca biotech finalizzata alla messa a punto di vaccini e di altri importanti presidi terapeutici e le sue applicazioni in campo militare.
A questo punto le cose si complicavano maledettamente: fu infatti evidente che la Convenzione del 1972, o meglio qualsiasi trattato che avesse voluto impedire le guerre biologiche, per essere realmente efficace, avrebbe dovuto imporre limiti, regole e controlli all’intera ricerca nel campo dell’ingegneria genetica. E questo rischiava di interferire con gli enormi interessi economici che le multinazionali avevano nel settore; con i programmi di ricerca più avanzati in campo bio-medico; con le esigenze di segretezza propri degli establishment politico-militari.
E’ solo a questo punto che comincia a chiarirsi l’apparentemente paradossale capovolgimento di strategia avvenuto ai vertici politico militari della massima potenza planetaria.
Rispetto a Nixon, a Wilson e agli esperti militari di allora, i successivi inquilini della Casa Bianca e del Pentagono furono costretti a riconoscere il notevole ritardo degli States in questo campo e a correre ai ripari. La tesi della Miller a proposito delle nuove ricerche su microrganismi geneticamente modificati e strumenti sofisticati per il loro utilizzo bellico o terroristico si inserisce bene in questo quadro, anche se andrebbe riferita a una fase precedente.
Ma soprattutto Clinton, Bush e i loro consiglieri avevano ormai capito perfettamente che nessuna Convenzione avrebbe impedito a “stati canaglia” e terroristi, di puntare sulle uniche armi in grado di destabilizzare l’Impero; che i controlli in questo campo sarebbero non solo inaccettabili per migliaia di laboratori di ricerca e per le multinazionali che hanno investito miliardi di dollari in questo settore, ma praticamente impossibili, visto che la produzione del “nucleare dei poveri” non richiede particolari strutture (un bioreattore per la costruzione di germi micidiali ha dimensioni estremamente ridotte, al punto che potrebbe essere trasportato in un furgone); che persino un singolo terrorista solitario o un folle potrebbero mettere in ginocchio gli States, vista la facilità con cui è oggi possibile acquistare (per corrispondenza!) microrganismi patogeni e indurre in essi micidiali modifiche.
La dottrina Bush della guerra preventiva, così mirabilmente esposta nell’ormai famoso The National Security Strategy of the United States of America del settembre 2002 e persino l’attuale III guerra del Golfo potrebbero essere valutate in modo più corretto, alla luce di questi dati: oltre che come l’arrogante diktat politico-militare dell’Impero colpito al cuore, come una quasi necessità strategica. E’ come se Bush si fosse trovato nelle condizioni di dover ripetere -e non soltanto ai cosiddetti stati canaglia e ai possibili terroristi o pazzi che potrebbero colpire l’America con l’arma più subdola e potente, ma a tutto il mondo- la minaccia espressa 33 anni prima da Nixon: “if you’ll use germs against us, we’ll nuke you”. Ma tra la ruvida minaccia verbale di Nixon e quella, ancora più violenta, perché accompagnata dalle bombe, di G.W. Bush esiste una differenza fondamentale: se la prima esprimeva la posizione di un potente, convinto di avere il coltello dalla parte del manico e di poterlo utilizzare per intimidire i nemici dell’America, quelle di Bush rischiano di rivelarsi minacce del tutto prive di senso, verso un Nemico infinitamente più potente, elusivo, pervasivo e refrattario a qualsiasi tipo di potere politico o militare.
Siamo così giunti all’ultimo mistero.

BIO-TERRORE E SARS
Settembre 2001: il terrore piomba su New York mentre una mano assassina confeziona e spedisce missive di morte all’antrace. Difficile pensare a una semplice coincidenza. Ma a tutt’oggi nessuno ha offerto una ricostruzione accettabile dei fatti.
Marzo 2003: americani e inglesi bombardano e invadono l’Iraq, mentre un misterioso virus killer dilaga in estremo oriente, raggiunge il Nord America, minaccia l’intero pianeta. Apparentemente in questo secondo caso è ancora più difficile trovare un nesso tra i due eventi. Ma è proprio così? Nei giorni in cui il misterioso virus mutante che è causa della SARS sembrava destinato a estendersi a tutto il pianeta, esperti e uomini politici di tutto il mondo si prodigarono a gettare acqua sul fuoco e, soprattutto, a negare recisamente qualsiasi accostamento tra Aids e SARS. Come mai? E’ evidente che se il fine primo fosse stato davvero quello di impedire il dilagare dell’epidemia, sarebbe stato meglio diffondere l’allarme e consolidare il “cordone sanitario” intorno ai mega-focolai di partenza. Se questo non è accaduto è soltanto per un motivo: The show should go on. O piuttosto: The global business should go on. Abbiamo già sottolineato il probabile ruolo svolto dalla Big Pharma e dalle imprese biotech nel cambiamento di strategia che avrebbe indotto gli USA a boicottare la Convention del 1972. Nel caso della SARS (e dell’Aids) il problema è analogo: se le guerre biologiche non possono essere fermate perché comandano la Big Pharma e la Monsanto, le epidemie rischiano di dilagare perché comandano le Corporations in genere.
Ma politici ed esperti, nel negare tanto recisamente il parallelismo posto da molti “profani” tra Aids e SARS, hanno torto anche sul piano scientifico. E non soltanto perché, se l’Aids è stata la prima pandemia della storia e uno dei simboli-chiave della patologia della globalizzazione (o piuttosto la metafora di una globalizzazione in sé patologica), la SARS rischia di diventare la seconda. Ma anche perché in entrambi i casi all’origine del dramma potrebbe esserci stato un incidente analogo: la fuoriuscita accidentale di virus ricombinanti o comunque ingegnerizzati da qualche laboratorio.
Torniamo ai primi anni ’80: alle origini, tuttora misteriose, dell’AIDS. Come si ricorderà già allora i sovietici accusarono gli Stati Uniti di essere i veri responsabili dell’epidemia. L’accusa fu poi smentita e ritrattata. Con ogni probabilità si trattava di un’accusa infondata, ma non peregrina. Probabilmente l’Hiv non è il disgraziato prodotto di esperimenti finalizzati alla messa a punto di una tremenda arma biologica; all’origine dell’epidemia potrebbe esserci la slatentizzazione (magari occorsa durante le sperimentazioni per la produzione di un vaccino) di un virus rimasto nascosto per millenni nel genoma di una scimmia. Tanto più che non si tratta dell’unico retrovirus-killer comparso sulla scena in quegli stessi anni (si pensi al Marburg e all’ Ebola) che avrebbe appunto come serbatoio naturale le scimmie.
Già allora illustri scienziati sottolinearono il possibile nesso tra le biotecnologie genetiche e la comparsa di nuovi virus patogeni. Era soltanto un caso che questi virus fossero comparsi (o ameno fossero divenuti patogeni per l’uomo), negli stessi anni in cui venivano messe a punto gli strumenti e le tecniche adatte a riconoscerli e a costruirli? Ed è soltanto un caso, se da quando gli esperimenti su virus e altri vettori genetici sono di routine nei laboratori di tutto il mondo, le malattie da “nuovi virus” sono diventate un problema drammatico ed enormemente sottovalutato?
A pochi giorni dallo scoppio della SARS, la grande “biotecnologa pentita” Mae Wan Ho, citando uno studio, recentemente pubblicato sul Journal of Virology e concernente la creazione di nuovi ceppi ricombinanti di coronavirus, ha sottolineato con forza la pericolosità di simili manipolazioni, oggi di routine in migliaia di laboratori, in grado di creare in pochi minuti milioni di particelle virali mai esistite nei quattro miliardi di anni di evoluzione che ci hanno preceduto e in grado di “saltare” da un ospite all’altro. Ma le critiche di Mae Wan Ho a questo tipo di esperimenti vanno bene al di là del problema contingente dell’origine della SARS: sotto accusa è ingegneria genetica in quanto “tecnologia finalizzata a trasferire orizzontalmente i geni tra specie non destinate a incrociarsi tra loro”. Come a dire che i pericoli per l’intera biosfera, non derivano da un cattivo uso del biotech, e cioè dal bioterrorismo e dalle guerre biologiche, ma da una tecnologia che infrange deliberatamente le barriere specie-specifiche che la Natura ha costruito a difesa delle singole specie viventi.
La SARS esemplifica perfettamente questo genere di pericoli. In special modo se si crede alla “storiella cinese” del ricercatore-veterinario che, cercando di metter a punto un vaccino contro una infezione aviaria (dei polli) si sarebbe infettato con un virus ricombinante a RNA (quindi fortemente instabile) della famiglia dei coronavirus, divenuto patogeno per l’uomo e lo avrebbe trasmesso al cognato, al personale di un albergo, alle infermiere di un ospedale e così via.
Ma se sul piano etico e politico il fatto che tanto all’origine della SARS che dell’Aids ci sarebbe un incidente, piuttosto che un attacco bio-terroristico o un esperimento di guerra biologica, può essere rassicurante, sul piano igienico-sanitario il discorso è esattamente opposto. Se le prime pandemie da virus mutanti fossero frutto di un programma strategico mostruoso, sarebbe terribile; ma se tutto questo è, come sembra, il risultato di una tecnologia diffusa in tutto il pianeta e ingovernabile, la situazione è assai più grave.
Se a questo punto cercassimo di tratteggiare due possibili modelli epidemiologici per Aids e SARS, ci troveremmo a dover sottolineare alcune somiglianze e differenze significative: a favorire la lenta diffusione pandemica dell’Aids, ad esempio, sono state la bassa contagiosità, il lungo periodo di incubazione e di asintomaticità dei portatori, la lenta e inesorabile progressione distruttiva del virus nei confronti dei sistemi difensivi dell’organismo umano. Per quanto concerne la SARS il discorso sarebbe almeno in parte diverso, trattandosi di un virus più contagioso, probabilmente più aggressivo, ma in fin dei conti meno devastante: almeno in base ai dati clinici fin qui registrati, dai quali si potrebbe indurre una mortalità oscillante tra il 4 e il 10%. Bisogna però sottolineare che trattandosi di un virus ricombinante è possibile che la sua tendenza a mutare determini l’emergere di mutanti più aggressivi che potrebbero dar vita a quadri clinici più gravi e peggiorare il quadro epidemiologico già preoccupante.
Ma il paragone tra Aids e SARS dovrebbe soprattutto esser visto in relazione al futuro: alla possibilità di impedire alla SARS di divenire la seconda pandemia/endemia globale. In questo senso bisognerebbe chiedersi prima di tutto: cosa non ha funzionato nella prevenzione dell’Aids (non si dimentichi che in pochi anni l’Hiv ha infettato almeno 60 milioni di persone e che l’epidemia procede alla velocità di un contagio ogni 5”). La risposta sarebbe abbastanza facile: non si è riusciti a controllare il rapido processo di degrado sociale e morale che ha colpito le metropoli del III mondo e le periferie urbane del Nord del pianeta, alimentato dai circuiti criminali legati al grande business delle armi, del narcotraffico, della prostituzione. E anche su questo piano è evidente come rifiutarsi di riconoscere i punti di contatto tra le due situazioni non abbia senso, se è vero che in entrambi i casi il problema rischia di diventare drammatico e irrimediabile perché il Business globale nelle sue due componenti, sempre più interconnesse, legale e criminale, deve andare avanti.

LA BIO-GUERRA BIOLOGICA GLOBALE
Ma per avere un quadro sufficientemente completo della situazione, dobbiamo fare un ulteriore passo avanti e prendere in esame un aspetto se possibile ancora più inquietante: quello che potremmo definire la guerra (biologica) globale al pianeta.
Nel suo famoso The Biotech Century Jeremy Rifkin sottolinea come la caratteristica fondamentale che distingue le armi biologiche – formate da virus, batteri, funghi e protozoi - da tutte le altre sia la loro tendenza, connessa alla loro stessa natura di esseri viventi, a diffondere nella biosfera, occupando nicchie vitali e a colonizzare altri esseri viventi utilizzandoli come propri vettori.
Il discorso di Rifkin è quasi perfetto. Ma contiene una inesattezza, minima ma significativa. Tra gli agenti patogeni più importanti utilizzati o messi a punto per le guerre biologiche ci sono, come visto, i virus. Il fatto è che i virus non sono esseri viventi a tutti gli effetti, ma frammenti incapsulati di codice genetico: mine genetiche vaganti dall’origine incerta e alla perenne ricerca di esseri viventi da colonizzare. La caratteristica invasività e la tendenza a parassitare la vita, propria delle armi biologiche, non è quindi legata soltanto al fatto di essere costituite da esseri viventi, ma al fatto di essere veicoli di un codice genetico!
Comunque Rifkin ha ben chiari i rischi di tutto ciò, quando parla di un inquinamento genetico planetario che potrebbe produrre pandemie mortali in grado di distruggere su vasta scala le piante, gli animali e la stessa vita umana; e di un futuro scenario nel quale stati e potentati economici e/o criminali/terroristici si fronteggino e competano per il controllo del pianeta, utilizzando virus e altri microrganismi geneticamente modificati per colpire le risorse alimentari o le stesse popolazioni. Tutto questo potrebbe apparire eccessivo. Il fatto è che non si tratta di uno scenario fantascientifico, ma attuale. E questo non soltanto perché, come visto, diecine di “nuovi” virus e di altri microrganismi divenuti patogeni per l’uomo a causa di manipolazioni genetiche accidentali o volontarie circolano già per le nostre città e mietono milioni di vittime; non soltanto perché negli ultimi decenni gli attacchi bio-agro-terroristici finalizzati a colpire le economie e a indebolire le popolazioni rivali o nemiche non sono stati infrequenti; ma per un dato di fatto ancora più semplice e innegabile: se ciò che rende più invasive e pericolose di tutte le altre le armi biologiche, e in particolare i virus g.m. é il loro essere semplici frammenti di codice genetico circolanti e, quindi, la loro capacità di parassitare gli esseri viventi, di competere con essi e, in taluni casi, di inserirsi nel loro genoma modificandolo, è evidente che l’inquinamento genetico del pianeta, da parte di centinaia di varietà di organismi geneticamente modificati (Ogm) è già in atto da anni e rappresenta una vera guerra non dichiarata all’intera biosfera. Un pericolo immenso, forse il maggiore pericolo mai corso dall’umanità e del tutto non prevedibile, almeno in tempi brevi, che fa di noi –per citare una definizione particolarmente icastica, cara a Gianni Tamino- “le cavie inconsapevoli di un esperimento senza ritorno”

IMPERO BIOTECH o WORLWIDE BIOLOGICAL ARMS RACE ?
L’intero discorso fatto fin qui può essere riassunto in questi termini: nessuno può oggi affermare con sicurezza che gli effetti e i prodotti delle biotecnologie con finalità sulla carta “buone” non si rivelino, specie nel medio-lungo periodo, altrettanto pericolose di quelle con finalità “cattive”. E questo sia per quanto concerne le cosiddette “biotecnologie rosse”, destinate ad applicazioni in campo medico e farmacologico in genere (produzione di farmaci, vaccini, vettori genetici, animali geneticamente modificati per xenotrapianti), che per quanto concerne le ”biotecnologie verdi”, finalizzate a ottenere miglioramenti in campo agro-alimentare.
E questo non solo per la facilità con cui si possono verificare incidenti di percorso più o meno imprevedibili (vedi Aids, SARS e, più in generale, creazione di virus ricombinanti o slatentizzazione di (retro)virus patogeni negli ultimi decenni), ma anche per l’intrinseca pericolosità di queste tecnologie (specialmente per ciò che concerne i vettori, gli xenotrapianti e la diffusione nell’ambiente di OGM in genere).
Tra i tanti scenari catastrofici che sono stati immaginati negli ultimi anni da parte dei numerosi critici della globalizzazione neoliberista, intesa come modello sistema di sviluppo economico, politico, tecnologico e culturale in senso lato imposto dal Nord del mondo al resto del pianeta più o meno recalcitrante, ce ne sono – per quanto concerne il tema delle guerre biologiche in senso lato - almeno tre che andrebbero tenuti in debita considerazione.
Il primo scenario è quello, descritto dalla Miller, della “worldwide biological arms race”: di un pianeta caratterizzato da una geopolitica stravolta, incentrata su una folle corsa alle armi di sterminio di massa più sofisticate e terribili e sul sogno demoniaco del definitivo possesso dell’arma biologica più letale e del suo antidoto; da strategie mediatiche finalizzate a indurre nelle coscienze dei cittadini una condizione di terrore subliminale e costante; da un’economia drogata e distorta dai giganteschi costi dei programmi di difesa biologica e di controllo militare e sanitario capillare del territorio. La grande quantità e varietà di micidiali agenti patogeni geneticamente modificati, presenti nei laboratori di diecine di paesi (molti dei quali facenti parte della famosa lista degli stati canaglia, accusati di ospitare, proteggere, addestrare e utilizzare terroristi), rende questo scenario ormai poco probabile: la strada quasi obbligata non è quella della messa a punto di armi biologiche più o meno potenti, ma piuttosto quella di trovare un accordo che permetta il controllo di una situazione esplosiva.
Il secondo scenario è quello definito da Mae Wan Ho “Impero Biotech”: un mondo orwelliano in cui “multinazionali senza volto controllano ogni aspetto della (nostra) vita, dal cibo che mangiamo ai bambini che mettiamo al mondo” e fondato sulla promessa del perfezionamento continuo della specie e dei singoli individui mediante micro-interventi di terapia genica mirata o di sostituzione di tessuti e organi danneggiati (o semplicemente invecchiati) con pezzi di ricambio ottenuti da colture di cellule staminali provenienti dal sangue del cordone ombelicale o da cellule fetali, prelevate alla nascita o durante la gestazione di ogni futuro individuo e conservate in apposite banche. Ma anche sull’uso sempre più diffuso di animali transgenici: ratti, conigli, scimpanzé e mucche trasformati in veri e propri laboratori chimici viventi per la produzione di farmaci e di altre molecole utili, e soprattutto maiali, migliaia, possibilmente milioni di maiali, trasformati in donatori di tessuti e organi “umanizzati” per quello che è il sogno di ogni trapiantologo che si rispetti: lo xenotrapianto, ove non si riesca, superati alcuni residui scrupoli di ordine morale, a far divenire routine la clonazione parziale o produzione di replicanti per ogni singolo neonato (previo blocco dell’organogenesi cerebrale, onde impedire l’eventuale formazione o discesa dell’anima, nell’ipotesi che una simile entità metafisica esista e necessiti di una sua sede corporea) da utilizzare in futuro come fonte di organi e tessuti perfettamente identici e compatibili. Il tutto nell’ambito di una “Nuova Creazione”, una sorta di neo-biosfera sempre più artificiale, popolata di organismi creati in laboratorio, selezionati per fini di profitto e brevettati: una realtà povera (sul piano biologico) e quindi fragile, squilibrata e priva di quei fondamentali meccanismi di autoregolazione e feed-back che ne hanno garantito per miliardi di anni l’esistenza e l’evoluzione.
Jeremy Rifkin dichiarò una ventina di anni fa che se si fosse permesso a poche diecine di multinazionali impegnate nel Biotech di acquisire con i brevetti il controllo del patrimonio genetico delle specie viventi, l’intera geopolitica del XXI secolo sarebbe cambiata. Pochi capirono allora le parole di Rifkin. Oggi possiamo affermare che se si permetterà ad alcune migliaia di individui - speculatori valutari, grandi azionisti e managers delle cosiddette Life Science Industries (termine Orwelliano, utilizzato dalle corporations genetico-industriali per definire se stesse) - di acquisire in tal modo il controllo della biosfera, vivremo in una sorta di Stato Globale totalitario-tecnocratico nel quale le nostre coscienze e il nostro inconscio saranno perfettamente controllati da chi gestisce i grandi canali dell’in-formazione mediatica e i nostri corpi gestiti da chi avrà su di noi potere di vita e di morte.
Ma esiste anche un terzo scenario, che è tutto sommato quello più probabile, anzi in buona misura già concretamente realizzato e includente gli altri due.
La globalizzazione neoliberista è essenzialmente imposizione a tutto il pianeta di un modello-sistema di vita, quello occidentale, fondato sul profitto e sullo sfruttamento intensivo delle risorse energetiche, ambientali in senso lato, alimentari. Si può parlare di imposizione perché chi non accetta il Sistema dominante rimane escluso dal circuito e muore. Generalmente si sottolineano gli aspetti economici, politici, etici della globalizzazione e si sottovalutano quelli relativi all'impatto ambientale e sanitario che sono potenzialmente catastrofici. Abbiamo già visto che in questo senso globalizzazione significa diffusione rapida e potenzialmente planetaria (pandemica) di virus e di altri patogeni, ma anche di organismi geneticamente modificati che inesorabilmente e sempre più rapidamente trasformano l’intero ecosistema e rischiano di interferire pesantemente con lo stesso processo di evoluzione delle specie. Ma esiste un altro aspetto della globalizzazione più “fisiologico” e misconosciuto: quello della “bioinvasione globale". La globalizzazione dei commerci e dei traffici implica infatti il trasporto quotidiano di migliaia di specie di insetti, pesci, mammiferi e microrganismi attraverso i continenti, senza nessun rispetto per un equilibrio di un ecosistema formatosi in miliardi di anni e, in particolare, per quelle barriere naturali costituite da montagne, fiumi, correnti marine che hanno permesso il graduale formarsi di ecosistemi che venendo a contatto tra loro con lenta progressività hanno formato quello che chiamiamo biosfera, un insieme di migliaia di specie in fragile, miracoloso equilibrio. Nel giro di pochi decenni abbiamo travolto queste barriere. Basti pensare alle acque di zavorra delle navi scaricate nei porti di tutto il mondo che portano con sé migliaia di specie ittiche diverse e alloctone, che invadono territori nuovi travolgendo ogni equilibrio e mettendo a repentaglio la stessa biodiversità. Gli Ogm (e tra questi i virus ricombinanti prodotti in laboratorio) sono dunque la punta dell'iceberg, ma rappresentano l'aspetto più pericoloso del gioco: perché per produrli il demiurgo-biotecnologo va nel cuore delle cellule e lo modifica, forzando le stesse barriere genetiche specie-specifiche, accelerando in modo esponenziale il processo appena descritto.
Le Life Science Industries, la Big Pharma e le grandi corporations in genere hanno investito miliardi di dollari nel biotech, nella convinzione che gli scienziati abbiano ormai le conoscenze, gli strumenti e i mezzi necessari a trasformare la biosfera e la società mondiale a propria immagine e somiglianza. Il programma era ed è quello di mettere le mani sul codice stesso della vita, per correggerne i “difetti” e giungere ad una nuova creazione “perfetta”, cioè adattata alle nostre o meglio alle loro esigenze: un progetto demiurgico o piuttosto luciferino, che ha il suo strumento chiave, dotato di chiare valenze simboliche nel Progetto Genoma. Tutto questo potrebbe essere descritto come un vero e proprio “delirio di onnipotenza”. Ma è importante sottolineare che non si tratta “soltanto” di un problema etico o, se si preferisce, metafisico, ma anche di un enorme flop scientifico. Proprio il Progetto Genoma sta infatti rivelando la vanità di questi sogni. Perché il codice della vita si sta rivelando estremamente più complesso e comunque diverso dal modello che esattamente cinquanta anni fa, il 25 aprile del 1953, misero a punto Watson e Crick, e che ci si ostina a insegnare tale e quale nelle scuole e nelle università di tutto il mondo e ad usare come base teorica dei pericolosi esperimenti degli ingegneri della vita e di troppi apprendisti stregoni.
Il risultato di tutto questo è che, da progetto di bio-dominio globale, il progetto dei biotech-scientists e delle corporations (sempre più strettamente collegati tra loro, visto che sono sempre più numerosi gli uomini di scienza che siedono nei consigli di amministrazione delle Life Science Industries) rischia di trasformarsi in una global-bio-war combattuta, come dicevamo, da un nemico infinitamente più sfuggente, elusivo, pervasivo di quello contro il quale G.W. Bush e i falchi del Pentagono hanno deciso di muovere le loro pesanti armate: un esercito di organismi geneticamente modificati che, messo punto in migliaia di laboratori, distribuito in ospedali, farmacie, supermercati e mercati dei sei continenti sta colonizzando il pianeta. Bioterroristi e Masters of (Bio)Wars sono certamente ancora in grado di giocare un ruolo importante nel Grand (Bio)-Guignol che rischia di mettere fine alla storia. Ma potrebbero anche rivelarsi superflui.

Post Scriptum
Per evitare che simili, apocalittici scenari lascino nel lettore l’impressione di un’analisi troppo fantascientifica, è forse il caso di tornare alla cronaca, nerissima di questi ultimi giorni. Al misterioso “suicidio” di David Kelly: uno tra i massimi esperti mondiali in materia di bioterrorismo; consulente anziano dell’Unscom dal 1994 al 1999; testimone chiave di uno dei più importanti scandali spionistici dei nostri giorni; notoriamente critico nei confronti del Governo e dei Servizi di Sua Maestà in relazione al tema controverso delle armi di sterminio irakene. Ciò che più colpisce di fronte a questo ennesimo mistero è il silenzio dei media riguardo al dato più incontrovertibile e inquietante: Kelly è solo l’ultimo di una lunga serie di esperti in bio-wars morti nei quasi 2 anni che ci separano dall’11 settembre e dai giorni dell’antrace. Il primo della lista è un biologo cellulare americano ucciso il 12 novembre 2001 da quattro uomini, a colpi di mazza da baseball. Il secondo un immunologo -forse il più noto della lista, perché la sua equipe aveva annunciato, pochi giorni prima dello scoppio del caso antrace, la scoperta di un gene che rende i topi resistenti al bacillo- scomparso appena 4 giorni dopo e ritrovato cadavere in circostanze misteriose (20 12 01). Il terzo (21 11 01) un microbiologo russo, già coinvolto per Biopreparat in esperimenti su antrace, peste bubbonica, tularemia, vaiolo. Il quarto (10 12 01) un biologo americano accoltellato in Virginia da un gruppo di satanisti. Il quinto (14 12 01) un biologo australiano. E così via per un totale di una quindicina (c’è chi ne conta 12, chi addirittura 18) di esperti in guerre biologiche misteriosamente scomparsi in questo breve lasso di tempo.
Si tratta di un mistero ancora poco indagato e compreso. E’ indubbio che la prima e più semplice ipotesi che viene formulata in simili casi è che questi signori sapessero o avessero capito troppo e non fossero sufficientemente controllabili da parte dei loro governi.
Ma questo significa che tornano a galla alcune tra le ipotesi più inquietanti: quella milleriana di una “international microbial race” alla ricerca dell’agente patogeno più micidiale e specifico (geneticamente selezionato e dotato di antidoto); quella delle nuove pandemie virali e della SARS in particolare come esperimenti propedeutici a una I Guerra Biologica mondiale…

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