Augurio d’Avvento
Cari amici,
“Avvento di che?”, vien da pensare e da dire.
Che cosa ci aspettiamo, oramai, quando ci sembra che tutto stia crollando? Non solo gli argini dei fiumi, ma anche tante altre realtà, personali e sociali.
Si parla, per quanto ci riguarda più strettamente, di “tramonto della civiltà occidentale”, mentre l'economia capitalistica e neocapitalistica ha mostrato, in questi ultimi anni, non solo la sua pericolosità (per le altre parti del mondo) ma anche la sua intrinseca debolezza, ed infine, la Chiesa (cattolica) sembra... fare acqua da tutte le parti.
Scriveva, qualche anno fa, un filosofo italiano: “Si incomincia a prestare attenzione all'abissale impotenza della civiltà della potenza. L'Occidente è una nave che affonda, dove tutti ignorano la falla e lavorano assiduamente per rendere sempre più comoda la navigazione, e dove, quindi, non si vuole discutere che di problemi immediati, e si riconosce un senso ai problemi solo se già si intravedono le specifiche tecniche risolutorie. Ma la vera salute non sopraggiunge forse perché si è capaci di scoprire la vera malattia?” (Emanuele Severino).
Perciò il futuro è incerto, e sicura l'impressione della sconfitta dei tanti sogni (soprattutto i “nostri”, quelli di una società e di un mondo più giusti e più pacifici).
Diversamente, Maria Zambrano, ne I beati, parlava di una speranza che è: “(...) speranza creatrice, quella che trae la sua stessa forza dal vuoto, dall'avversità, dall'opposizione, senza per questo opporsi a nulla, senza lanciarsi in alcun tipo di guerra. È la speranza che crea restando sospesa, senza ignorarla, al di sopra della realtà, quella che fa emergere la realtà ancora inedita, la parola non detta: la speranza rivelatrice... che nasce dal sacrificio”.
È proprio questo, io credo, il significato umano del Tempo liturgico che è prossimo.
Esso non è solo un “tempo” particolare per i credenti (con il significato che essi conoscono), ma, direi, un atteggiamento che ci riguarda in quanto uomini tutti.
È, infatti, in mezzo alle sconfitte e alle delusioni, nel pieno delle giornate grigie e dei tempi bui, che siamo chiamati a testimoniare chi siamo (al di là dei nostri limiti e difetti) e ciò che possiamo diventare (l'inedito di noi).
Leggevo, poco tempo fa, una straordinaria testimonianza di dignità, di forza e di coraggio di un gruppo di donne vissute, in anni recentissimi, nei gulag sovietici.
Una di esse ha scritto: “Esistono persone senza difetti? Eccome se esistono! (...) Ma io rimango della mia opinione: quando qualcuno diffonde intorno a sé così tanta luce, le ombre dentro di lui si dissolvono completamente”.
(Irina Ratusinskaja, Grigio è il colore della speranza, Rizzoli, 1989)
Eh, sì, questa è l'unica cosa che conta, e che incide (ossia che resta): diffondere luce. Con ciò che abbiamo dentro di noi e attraverso ciò che facciamo ogni giorno. Con costanza e fermezza.
Ed è questo, io credo, il modo per essere “uomini d'Avvento”, come li chiamava don Primo Mazzolari.
Così scriveva, di fronte ad una cristianità “inutile” perché gretta oppure compromessa con il potere, Dietrich Bonhoeffer: “Un Avvento vissuto in modo vero produce qualcos'altro da quella cristianità paurosa, gretta, tormentata, debole che percepiamo ogni volta e che ogni volta ci vuole rendere disprezzabile il cristianesimo. (...) L'Avvento crea uomini, uomini nuovi”.
Che cosa, dunque, ci aspettiamo? A che cosa tendiamo? Più precisamente: che cosa stiamo facendo di noi stessi?
Io personalmente sono in attesa (per me anzitutto) dell'avvento di un tempo del non-disprezzo, di un tempo nel quale - come dico spesso – riuscire ad “essere in comunione con tutto e con tutti”.
Ed è questo il senso dei testi - soprattutto quello centrale, di Mario Luzi (tratto da una sua opera del 1978) - che vi ho proposto all'inizio di questa lettera come riflessione.
In modo che non mi capiti quello che scriveva Elias Canetti: “Poniti pure come vuoi, mite e clemente. Al centro di te rimane il disprezzo, e hai davvero da dire qualcosa solo allorché qualcosa disprezzi. Ecco ciò su cui si basa l'ortodossia di qualsiasi religione. È forse questo a mantenere in vita le religioni?” (Elias Canetti, Un regno di matite. Appunti 1992-1993, Adelphi, 2003, p. 17
Ricordiamo, a tal proposito, le parole - sempre lucidissime e profondissime - di Simone Weil: “Suprema giustizia è l'accettazione della coesistenza con noi di tutti gli esseri e di tutte le cose che di fatto esistono”.
E dunque: accogliere (ed 'accettare') tutto e tutti. Non disprezzare nulla e nessuno: di ciò che non conosciamo, a partire da noi stessi, e di chi ci è ignoto: mettersi in ascolto, piuttosto.
Solo allora saremo “alti”, e saremo “luce”.
Come dice un altro autore (sempre molto stimolante): “Per essere grande. Sii intero: niente di te esaspera o escludi. Sii completo sempre. Metti quel che sei in tutto ciò che fai, così la luna intera in ogni lago splende, perché alta vive” (Fernando Pessoa, Le poesie di Riccardo Reis, Passigli, 2005, p. 205).
Ecco alcuni pensieri e ricerche di un cammino, d'avvento, che mi fa piacere condividere con voi.
Buon Avvento 2010!
il vostro, Maurizio Mazzetto (Vicenza)