La disperazione degli oppressi
Un amico prete mi diceva l’altro giorno che sarebbe ora di finirla di pensare che il bene e il male finisca con il separarci, quando moriremo, fra buoni o cattivi. Che sia arrivato il momento di demitizzare l’aldilà, perché oggi sappiamo che siamo noi a portare sulla terra l’inferno, cioè la disumanità, o il paradiso, cioè la solidarietà umana e la condivisione delle responsabilità. Sono convinto anch’io che dovremmo farlo: perché non è mai detto, nelle scritture, che sarà Dio a garantire la vittoria del bene sul male, nel tempo in cui noi viviamo... e perché Dio non ha altre mani che le nostre, per agire nella storia, come diceva Georges Bernanos.
La liturgia della prossima domenica (29.ma del tempo ordinario, anno C) lo conferma.
La prima lettura (Es 17,8-13) ci presenta, infatti, lo scenario di una guerra che potremmo vincere solo se saremo disposti a non abbassare le mani. A tenerle sempre alzate, ferme, fino al tramonto del sole. E’ il segno che dovremmo saperci assumere le nostre responsabilità fino alla fine della vita. Che fino al tramonto della storia dovremmo tener accesa la speranza di poter cambiare le cose. Distinguendo in ogni momento, i segni dei tempi. Risolvendo le inquietudini entro le quali viviamo. Per rimediare al male che, laici e preti, stiamo facendo alla comunità umana, alimentando le incomprensioni, le violenze, i fondamentalismi. Lasciando cader le mani nell’indifferenza, nel privato umano o religioso, convinti di salvar l’anima pensando solo ai fatti nostri, o rimanendo quieti dentro i recinti dei nostri devozionismi.
Dovremmo, quindi, scendere dal monte dove curiamo le nostre illusioni per l’anima. Scendere verso la valle di lacrime, fra gli uomini e le donne che lottano e soffrono per la propria dignità, o per la fame. Dovremmo ribellarci a chi crede di risolvere la violenza con la forza delle armi, e affrontare la via del dialogo. Non possiamo più limitarci a ringraziare Dio di avere ogni giorno un piatto sulla tavola..., fin tanto che milioni di persone non hanno nessun pane, ma godere del nostro particolare solo dopo averlo misurato con le speranze umane, con il grido che sale verso Dio giorno e notte, perché solo allora potremmo dire di aver pregato (Lc 18, 1-8) . La nostra fede, infatti, non stà nel credere o meno nell’esistenza di Dio e la nostra preghiera non può essere quella del ringraziamento per i privilegi di cui godiamo a scapito di altri, ma è un impegno a dare un senso alla nostra vita, secondo la prospettiva di Dio. “Ci sarà questa fede alla fine del nostro tempo?”, ci chiede Gesù nel vangelo di Luca. Ma la fede di cui parla Gesù non si misura con la dottrina, i catechismi o le liturgie che celebriamo, ma con la capacità di reagire alle ipocrisie della storia; con il gesto miracoloso dell’assunzione della responsabilità per cambiare il corso delle cose (come diceva padre Balducci...). Anche nella chiesa. Un alzare le mani, quindi, che significa, non resa alle abitudini consolanti di un passato che non regge più, ma compito di cambiare il modo di pregare, celebrare, agire, parlare alla gente. Un alzare le mani, ad esempio, che impedisca ad un governo di rispondere alla morte di quattro giovani soldati con la legittimazione dell’uso delle bombe (come se le bombe sui caccia che abbiamo in Afganistan non ci fossero già...), di cacciare i Rom dalle nostre terre, di respingere i migranti in un mare fatto di disperazione e di morte, ma di tentare la via dell’ascolto delle ragioni degli altri, della solidarietà e della responsabilità umana nel risolvere i conflitti.. Un tenere le mani alzate fino al tramonto, per dire basta alla violenza, alla miseria, alla fame, ai fondamentalismi religiosi. Perché è la vita che potrà vincere.
Non lo porta certamente fare la morte.
Dovremmo partire dal pensare meno alle vicende personali, per gridare la disperazione degli oppressi e dei lontani. Dal curarci non delle due pecore rimaste nell’ovile, ma di quelle che si sono perse per strada, che vivono nell’ombra, affinché, anche loro, possano vivere secondo il progetto di Dio. Il progetto che non troveranno mai in un sacerdote ligio al suo mandato curiale, se sta rinchiuso con le sue pecore nell’ovile.
Dobbiamo dare ai giovani la voglia di combattere, affinché non accettino di essere solo consumatori rassegnati alla moda e al profitto del dio mammona. E noi adulti, dovremmo combattere con loro, tenendo le mani alzate, stando sul monte solo per questo, ma scendendo subito dopo a valle proprio perchè finalmente le cose cambino a favore dei poveri e dei lontani e non dei pii devoti e dei potenti. Perchè finalmente avvenga il cambiamento, proposto alla chiesa dal Concilio giovanneo, che porti a vedere nel bene comune l’unica via d’uscita. A contrapporre le vie della pace e l’ascolto del grido degli oppressi e dei lontani, all’arroganza del potere e delle gerarchie, laiche e religiose, e ai privilegi di casta o di benessere.
Non possiamo più stare con le braccia ripiegate verso noi stessi, ma dobbiamo far valere le ragioni di un nuovo corso che significhi ritorno alla terra dove batte il sole.
Gualtiero
ottobre 2010