Lettera aperta a Raimon Panikkar
Carissimo Raimon,
sono passati appena due mesi dalla tua scomparsa, ma la tua presenza è più viva che mai nel mio spirito. Ti vedo ancora lì nel tuo studio tappezzato di libri, seduto su quella poltrona che negli ultimi tempi chiamavi scherzosamente “il trono”, quasi per alleggerire di fronte ai tuoi ospiti il peso della malattia. Vorrei continuare con te una conversazione sulla pace iniziata un quarto di secolo fa a Città di Castello. Ci invitavi allora a “disarmare la cultura” sostenendo che la nostra è una cultura armata non tanto perché possiede la bomba atomica, ma perché adopera la ragione come un arma per vincere o per convincere. E spingevi la tua tesi fino ad affermare che c’è una continuità fra una ragione che deve controllare e inseguire la certezza e la deterrenza nucleare: devo possedere l’arma più sicura di quella del mio avversario. Rimproveravi all’Occidente di vivere in una cultura di sfiducia e di guerra. Quelle tue affermazioni, che allora ci sembravano un po’ esagerate, oggi si rivelano invece profetiche. Dopo le due guerre del Golfo, la Bosnia, il Rwanda e l’Afghanistan, il militarismo è ritornato in forze e ha colonizzato la cultura. L’avversario va sconfitto e distrutto per raggiungere la sicurezza e la pace, ci dicono tutti i maîtres à penser e gli imbonitori televisivi. Sulla scia di questa convinzione in Italia abbiamo fatto di meglio: il Ministero della pubblica istruzione, d’accordo con quello della Difesa, ha autorizzato alcune scuole a insegnare ai giovani l’uso delle armi. “Progetto sicurezza” l’hanno battezzato. Tu saresti rimasto sbalordito di fronte a un provvedimento simile e avresti esclamato «non mi dire!», come facevi tutte le volte che ti descrivevo la situazione italiana.
L’ossessione della sicurezza, figlia della ragione armata, ha partorito un movimento localista e xenofobo come la Lega, che proclama la lotta agli immigrati rei di averci rubato il lavoro, portato le malattie, distrutto la nostra identità. Ti saresti stupito che un fenomeno che avrebbe potuto portare a una fecondazione reciproca tra le culture fosse interpretato in una forma così negativa e anticristiana. L’altro fa parte di noi, ci avevi ripetuto nel Convegno del 2006, è l’altra parte che non abbiamo ancora sviluppato o che forse non conosciamo. L’incontro con lui è esperienza di rivelazione, perché ci rivela la nostra incompletezza e la nostra complementarità.
Per questo lo “scontro di civiltà” teorizzato da Samuel Huntington ti appariva assurdo e pericoloso. Come la risposta di Bush all’attentato dell’11 Settembre. «C’è qualcosa di peggio del terrorismo: l’antiterrorismo», eri solito commentare, citando l’espressione di un alto magistrato indiano. L’antiterrorismo non fa che alimentare la catena del male senza spezzarla, perché la vittoria, come ripetevi spesso, non porta mai alla pace. Solo la riconciliazione e il perdono possono compiere questo miracolo.
Fa tristezza sentir ripetere, perfino dall’altare, che i nostri soldati vanno per il mondo a difendere la pace con le armi. La pace, come tu ci hai insegnato, è lo sforzo di trasformare le tensioni distruttive in polarità creatrici e non si costruisce certo con gli eserciti e le bombe. Bisognerebbe disonorarla la guerra e spiegare ai giovani che dietro la retorica del coraggio, dell’eroismo, della difesa dei valori c’è solo distruzione e morte. Ed è sorprendente che, in un periodo di crisi economica in cui non ci sono risorse per i giovani disoccupati e per la scuola, i fondi per le spese militari si trovino sempre.
La ragione armata ha prodotto un’economia altrettanto armata, fondata sulla sfiducia e la sopraffazione. È la continuazione della guerra con altri mezzi. Come potremmo chiamare le regole del commercio internazionali, il meccanismo del debito estero, la speculazione finanziaria, la devastazione della natura? Che altro è la competizione proclamata da tutti i pulpiti se non il volto pulito della guerra? Sembra incredibile che l’economia internazionale debba essere la guerra di tutti contro tutti che impoverisce la quasi totalità dell’umanità, eccetto un esiguo numero di famiglie che fanno le regole e la cultura. “La specie di Davos” l’ha chiamata Susan George, gentile e istruita sul piano personale, ma spietata su quello economico. Il mondo attuale non è organizzato per tutti, ma per la sopravvivenza di una minoranza. È quella che tu chiamavi l’etica della scialuppa, ricordando il costume della marineria antica di tagliare le mani di coloro che, in caso di naufragio, si aggrappavano alla scialuppa già carica. Il sistema che le élites hanno costruito funziona per il 20% dell’umanità. A tutti gli altri occorre tagliare le mani, in qualsiasi modo, per impedire che la barca dei privilegiati affondi.
C’è una malizia profonda nel porre l’accento sulla competizione, dimenticando che la vita umana è basata sulla cooperazione e che non tutte le culture fondano la loro esistenza sul culto dell’avarizia come la nostra. Ce lo ricordavi col simpatico apologo dei bambini africani che, invece di competere per conquistare il premio, corrono tutti insieme verso la meta tenendosi per mano.
L’alternativa alla catastrofe di proporzioni cosmiche a cui stiamo andando incontro è “un radicale cambiamento della mente e del cuore”, come hai scritto nel tuo ultimo libro Il ritmo dell’Essere. Tu l’hai prospettata come una più profonda intuizione sulla natura della realtà, che ci aiuti a leggere con sguardo nuovo il Divino, l’uomo e il cosmico. Per un compito così creativo tu suggerisci che l’uomo non debba puntare tanto sulla volontà, ma sulla capacità di ricevere. Disarmo culturale, ancora una volta. Atteggiamento fondamentale per l’uomo della civiltà tecnocratica, come facevi notare con ironia, ricordando che quando una formica trascina un elefante, non è l’elefante che va verso la formica ma la formica verso l’elefante. E l’Occidente è un elefante.
Questa ricettività accogliente è l’unico atteggiamento in grado di promuovere la pace. Allora essa appare per quello che veramente è: un dono che si riceve, che ci trasforma, che ci spinge a lottare per la riconciliazione e non per la vittoria. Ne eri così consapevole che l’hai voluto ricordare anche nell’esergo del tuo ultimo libro: «Possano le mie parole essere in Armonia con l’intero Universo, contribuire alla sua Giustizia, accrescere la sua Bellezza, ed essere pronunciate in Libertà così che la Pace possa diventare più vicina al nostro Mondo. Amen».
È significativo che il tuo ultimo messaggio abbia coniugato insieme armonia, giustizia, bellezza, libertà e pace: le grandi tensioni che hanno reso luminosa la tua vita. Grazie, Raimon, per avercelo ricordato ancora una volta.
Roma, 10 novembre
Don Achille e i partecipanti all’incontro