Tra no profit e borsa

12 gennaio 2011 - Davide Pelanda

C’è una rivista ed un gruppo editoriale del mondo del no profit italiano che vedremo presto fare la sua entrata in Borsa. Si tratta di Editoriale VITA, fondato sedici anni fa dal giornalista Rai Riccardo Bonacina di cui ora è Presidente del Gruppo stesso e direttore editoriale. In passato, dal 1994 al 2001 invece è stato direttore del settimanale VITA, giornale del Gruppo.
Per questa occasione prestigiosa abbiamo ripercorso con il direttore editoriale le varie tappe della nascita del settimanale e dell’attualità situazione del volontariato nel nostro Paese.
Bonacina come nasce l’idea di questa rivista no profit e come si è evoluta?
«Eravamo un gruppo di giornalisti, facevamo una trasmissione quotidiana su Raidue. Si chiamava “Il coraggio di vivere” ed è andato in onda dal ‘91 al ‘94. Credo sia stata la prima esperienza di programma sociale ed è anche rimasta l’unica.
Si lavorava molto in collaborazione con le associazioni, con un rapporto vero. Ci trovavamo intorno a un tavolo ad affrontare insieme i temi, capire che esperienze e che servizi il non profit era in grado di mettere in campo rispetto ai bisogni dell’uomo e ai problemi sociali. È nei corridoi però che nasce l’idea vera e propria di un giornale. Con le associazioni ci dicevamo sempre che mancava, perché la tv ci portava due milioni di telespettatori a puntata, ma è fatta per evocare risposte emotive, non crea cultura. Può influenzare comportamenti nell’immediato, ma non incide sul pensiero profondo. Ci serviva un giornale, qualcosa come un Espresso-Panorama per far emergere la cultura che porta con sé il terzo settore.
Nel ‘94 ci cambiano il direttore di rete, vogliono inglobarci in un contenitore pomeridiano sciogliendo la testata e la redazione che lavorava in maniera autonoma. Io ed un gruppo di giornalisti abbiamo deciso allora di lasciare la Rai e ci siamo imbarcati in quest’avventura tante volte caldeggiata. In quell’estate abbiamo scritto un progetto, convocato le associazioni che frequentavamo in trasmissione e condiviso con loro la possibilità concreta di tentare questa scommessa. Il 27ottobre 1994 siamo usciti col primo numero. Un parto molto veloce. E un’enorme scommessa in termini di sostenibilità di quello che andavamo a fare, di reddito personale e rischio d’impresa»
Lei da quale esperienza di volontariato personale arriva?
«Avevo una nonna e un prete all’oratorio (a Lecco) che mi hanno insegnato da piccolo che l’elemosina prima la si fa e poi, nel caso, ci si pente. Sono cresciuto educato alla dimensione degli altri e all’attenzione in particolare verso chi più ha bisogno. Crescendo questo seme, diciamo così, ha avuto la fortuna di svilupparsi. Negli anni dell’Università, per anni, ho fatto doposcuola nei quartieri degli immigrati a Lecco. E mantenere dei gesti non utilitaristici e gratuiti è una delle mie regole di vita, è l’unica cosa a cui obbligo anche i miei figli.
La gratuità è valore anche contenuto nella carta dei principi del nostro lavoro qui a Vita (provi a leggerla integralmente, http://www.vita.it/pages/principii ). C’è scritto: “Coscienti che la libertà è una conquista ed ha un prezzo: la capacità di gratuità come approccio primo del nostro impegno, senza altre condizioni”»
Voi siete un notevole punto di riferimento per il cosiddetto Terzo Settore italiano. Dal suo punto di vista alquanto privilegiato come vede oggi l’associazionismo e il volontariato? E’ in crisi, senza soldi, senza più personale?
«Non sta benissimo, ma se non ci fosse bisognerebbe inventarlo. Non sta benissimo perché ha perso capacità di attrattiva verso i più giovani forse smarrendo la sua vocazione anche educativa. L’essere stato schiacciato sui soli servizi esternalizzati dalla funzione pubblica, un po’ per scelta un po’ per obbligo, non ha fatto bene al Terzo settore in generale. Segni positivi comunque ne vedo, vedo tanta gente disponibile all’impegno anche se in forme nuove e meno tradizionali, anche il terzo settore dovrà fare i conti con la società dell’individualismo compiuto e seminare novità non a prescindere ma standoci in mezzo»
Quanto ci guadagna lo Stato ed i Governi tutti, passati e presenti, ad avere appunto il Terzo Settore attivo?
«È una domanda mal posta. Come se dicessi: cosa guadagna mia moglie se le do una mano? È’ ovvio che senza l’impeto di gratuità e la voglia di costruzione di ciascuno, singolo e organizzato le nostre città sarebbero un deserto e le emergenze insopportabili se non nella forma della guerra. Il Terzo settore nella sua accezione migliore è il pulviscolo di quelli che fanno e danno qualcosa in più oltre il loro dovere. Ma lei si immagina se lo Stato avesse il monopolio dei servizi dove la relazione fa parte della cura (dalla scuola alla cura domiciliare)? Lo Stato riconosca ciò che la società fa, regoli, dia il quadro normativo, incoraggi. Si occupi di noi quando saremo in galera»
Che peso ha la politica ed il governo attualmente in carica nella vostra vita di editori? Siete amati, odiati, censurati?
«In una parola, essenziale, siamo indipendenti, persino dai finanziamenti pubblici. Abbiamo un principio chiaro: crediamo che la libertà da un punto di vista proprietario sia un bene primo di chi fa informazione, perché se non sei libero, prima o poi, smetti di raccontare la verità. O almeno la tua.
Ci proteggiamo a monte. Dopo 14 anni di attività, posso permettermi di dire che VITA non deve nulla a nessuno se non al lavoro e al sacrificio di chi ci ha lavorato, perché certo, ai nostri giornalisti andare al Corriere della Sera offre guadagni maggiori e benefit indiscutibilmente più vantaggiosi.
Ma questo ci permette di non subire le pressioni e i vincoli del mondo politico ed economico, ci lascia spazio di manovra. La libertà è soprattutto poter dire dei no. È capitato di far uscire pubblicità che non erano in linea col nostro taglio editoriale, e di fronte alle proteste dei lettori siamo stati liberi di porre rimedio all’errore ed evitare di pubblicarle una seconda volta. Ma per poter dire dei no devi costruire qualcosa che sta in piedi da solo»
In poche parole siete considerati una rivista di nicchia (che cifre di tiratura avete e quanto vendete) che non date fastidio e non “disturbate il navigatore”?
«Siamo una rivista che sa chi è il suo pubblico che è un grande vantaggio e che sa come servirlo (ancora la invito a leggere i nostri principi). Diffondiamo 35mila copie la settimana, 7mila copie del mensile Communitas, abbiamo una platea di 25mila utenti unici al sito Vita.it. E le posso assicurare che diamo molto fastidio. Diciamo che non stiamo mai a guardare, abbiamo sempre il caschetto»
In che rapporti siete con realtà come Banca Etica o quelli di Sbilanciamoci? E con il mondo cattolico? E con la Fiat, visto che avete come consigliere indipendente Andrea Agnelli?
«Di Banca etica siamo anche azionisti ed è una delle banche con cui operiamo. Sbilanciamoci è una delle reti che ci dà notizie ghiotte e spunti di mobilitazione. Con la Fiat nessuno, non abbiamo neppure la sua pubblicità (purtroppo). Andrea Agnelli, si è coinvolto per una relazione personale e per la relazione di stima che conserva per il suo pro-zio Carlo Caracciolo che proprio su Vita fece l’ultimo investimento prima di morire»
L’ultima domanda che le riserbo è proprio quella della vostra entrata in Borsa. Come siete arrivati a questo grande passo?
«È una storia già lunga 15 anni, rischia di intiepidirsi se non trova l’energia per rimettersi in gioco, abbiamo pensato che potevamo fare di più, che dovevamo rimettere in gioco, anche imprenditorialmente tutto quello che avevamo conquistato, l’andamento in equilibrio, le certezze anche personali. Abbiamo pensato di rigiocare il tutto in una prospettiva di crescita che desse un po’ più di forza ai nostri mezzi e alla nostra progettualità, e quindi alle nostre battaglie e ai nostri racconti. Abbiamo disegnato un piano industriale 2010-2012 e quindi avevamo bisogno di reperire risorse. C’erano 2 strade, quella del debito e quella dell’aumento di capitale. Essendo la strada del debito da evitare per non indebolire la nostra indipendenza, abbiamo scelto quella dell’aumento di capitale, avendo già 44 soci nel capitale sociale abbiamo pensato che il mercato (l’Aim, segmento per piccole e medie imprese) fosse la strada più adeguata alla nostra natura di pubblic company, essenziale per un media che non vuole un padrone».

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