Venti di guerra in nord Africa
Nelle ultime ore si stanno susseguendo gli appelli di numerose associazioni per la tutela dei diritti umani rivolti ai governi, alla comunità internazionale, ai rappresentanti del mondo diplomatico e politico per fermare le violenze e le atrocità che si stanno compiendo in Libia.
Il 20 febbraio Human Right Watch aveva dato per prima la notizia di 62 morti, invitando alla denuncia delle violenze e all’adozione di concrete misure per fermare il bagno di sangue.
Il 22 febbraio Amnesty International ha chiesto al Consiglio di sicurezza dell’ONU e alla Lega Araba di inviare una missione in Libia, per indagare sulle violenze che hanno finora provocato la morte di oltre mille persone e di imporre alla Libia un embargo totale sulle armi, ricordando che secondo le dichiarazioni dell’Alto commissario per i diritti umani dell’ONU, Navi Pillar, le azioni condotte dalle autorità libiche e autorizzate dal governo possono essere considerate crimini contro l’umanità.
Lo stesso giorno, attraverso un comunicato stampa, l’International Crisis Group ha chiesto alla comunità internazionale di rispondere immediatamente a quanto sta succedendo in Libia e di far seguire alla condanna verbale, azioni concrete, tra le quali:
* imporre sanzioni contro Gheddafi, i membri della sua famiglia e tutti coloro che sono coinvolti nella repressione, incluso il congelamento di tutti gli aiuti internazionali;
* offrire aiuto e garantire la sicurezza di tutti i piloti aerei e il personale delle forze di sicurezza che si rifiutano di eseguire gli ordini di attaccare i civili che arrivano dalle autorità libiche;
* cancellare tutti i contratti in essere per la fornitura di armamenti e equipaggiamenti militari e l’addestramento del personale delle forze di sicurezza libiche;
* imporre un embargo su tutte le armi;
L’ICG, inoltre, chiede alle Nazioni Unite di:
* condannare la repressione condotta dalle autorità libiche;
* invitare i Paesi membri ad adottare le suddette misure;
* stabilire una commissione internazionale per indagare sui crimini contro l’umanità condotti in Libia dal 1 febbraio 2011, sull’operato del governo libico e di tutto l’apparato delle forze di sicurezza e sul coinvolgimento di forze mercenarie;
* prevedere l’organizzazione di una no fly zone nel caso in cui gli attacchi contro i civili continuino.
Ai Paesi confinanti l’ICG chiede esplicitamente l’apertura dei propri confini per garantire a coloro che stanno scappando dalle violenze sicurezza e adeguati aiuti umanitari.
Ma non c’è solo la condanna della violenta repressione autorizzata dal governo libico contro i manifestanti e l’urgenza di un intervento immediato della comunità internazionale e di tutti gli attori che hanno il potere di fare qualcosa.
Il 22 febbraio il gruppo EveryOne si è unito all’appello lanciato dall’agenzia Habeshia e si è rivolto alla comunità internazionale per fermare la carneficina dei profughi africani (prevalentemente eritrei, somali e sudanesi) presenti in Libia che vengono aggrediti per strada o nelle case, e accusati di essere mercenari di Gheddafi. Le testimonianze raccolte dagli attivisti di EveryOne parlano di esecuzioni sommarie e ferimenti a colpi di machete e coltelli contro i migranti, molti dei quali respinti dall’Italia e rispediti in Libia. EveryOne si rivolge anche alle rappresentanze diplomatiche dei Paesi democratici in Libia, compresa l’ambasciata italiana, e all’Unione Europea affinché sottraggano al massacro i profughi africani e predispongano piani di evacuazione umanitaria e di accoglienza nei propri Paesi.
A soffiare sul fuoco della caccia all’africano, alti funzionari del governo sudanese, che, almeno in due occasioni, hanno dichiarato che i mercenari di Gheddafi altri non sarebbero che i ribelli del JEM, il maggior movimento armato del Darfur, subito smentiti dal JEM stesso.
La denuncia della caccia all’uomo scatenatasi contro le migliaia di rifugiati e richiedenti asilo, ai quali era stato impedito di raggiungere l’Europa e che ora rischiano di diventare il capro espiatorio della crisi libica, è arrivata anche dall’Alto commissario per i rifugiati dell’ONU che, ieri, ha lanciato un appello a non respingere i migranti che stanno fuggendo dalla Libia. Prima degli scontri l’UNHCR aveva ufficialmente registrato circa 8000 rifugiati provenienti soprattutto da Sudan, Iraq, Eritrea, Somalia, Ciad e Territori Palestinesi e presenti in territorio libico. A questi se ne aggiungono altri 3000 in attesa di asilo e certamente molti altri di cui non ci sono a disposizione informazioni e dati.
Non solo Libia ora ed Egitto nei giorni scorsi: Amnesty International sta continuando a denunciare le violenze che si stanno compiendo contro civili che scendono in piazza pacificamente o invitano alla protesta attraverso il web in altri Paesi, tra i quali Bahrein, Azerbaigian, Emirati Arabi e Iran.
Dal Sudan le notizie arrivano a singhiozzo e da fonti informative non ufficiali. Il 30 gennaio si erano svolte manifestazioni contro il governo di El-Bashir che aveva reagito con la repressione; il bilancio, dopo il primo giorno di proteste. era stato di un morto e una settantina di arresti. Nei giorni successivi, le proteste si erano diffuse soprattutto via web e le autorità sudanesi avevano messo in campo rappresaglie contro la libertà di stampa e di informazione: arresti di giornalisti, censure e serrati controlli da parte degli agenti del NISS (i servizi segreti e le forze di sicurezza sudanesi) e sequestri di materiale informativo. Amnesty International e Human Right Watch avevano denunciato la violazione del diritto all’informazione, chiedendo l’immediato rilascio di tutti i detenuti arrestati in seguito alle manifestazioni e che rischiavano di subire torture nelle carceri.
L’ultima notizia, arriva dal Sudan Democracy First Group, organizzazione sudanese per i diritti umani, civili e politici, che il 20 febbraio ha pubblicato un documento di denuncia delle violenze sessuali, molestie fisiche e verbali e abusi che stanno subendo le donne e le ragazze di Khartoum, accusate di aver partecipato alle manifestazioni del 30 gennaio e di sostenere le proteste contro il governo. Nel documento sono riportati sei casi di violenze messi in atto dal NISS dal 30 gennaio al 16 febbraio, ma Sudan Democracy First Group ricorda che, in passato, queste tipologie di crimini (molestie, stupri, violenze e aggressioni sessuali) sono state già ampiamente perpetrati dal regime sudanese contro migliaia di uomini e donne che hanno osato ribellarsi o semplicemente manifestare il proprio dissenso.
L’accusa contro la comunità internazionale da parte di Sudan Democracy First Group è senza mezzi termini: la comunità internazionale non può chiudere gli occhi di fronte a questi crimini sostenendo la pace e la stabilità nel paese sotto gli auspici dell’NCP-il partito di El-Bashir- perché questo equivarrebbe a perpetrare le violenze sessuali contro le donne e le ragazze in Sudan.
Campagna Italiana per il Sudan sostiene gli appelli lanciati in questi giorni dalle organizzazioni per la difesa dei diritti umani e invita tutti a diffondere il più possibile le informazioni.
I testi dei documenti citati e ulteriori approfondimenti e aggiornamenti sulla situazione possono essere letti su:
www.campagnasudan.it
www.everyonegroup.com
www.hrw.org
www.amnesty.it
www.nigrizia.it
www.sudantribune.com