Tra dittatura e fondamentalismo scegliamo la democrazia
Uno sguardo panoramico sulla Storia del pensiero politico può aiutarci a capire meglio l’attimo presente. Il mondo islamico in particolare, e il mondo in generale, hanno vissuto tre epoche consecutive dopo la caduta delle società tradizionali, in diversi gradi e maniere, sotto i colpi della modernità:
(1) Il nazionalismo laico autoritario, come nei casi di Atatük in Turchia, Reza Shah in Iran, Bourghiba in Tunisia; inclusi anche i movimenti di liberazione, come il FLN in Algeria, spesso di sinistra laica.
(2) Dopo il fallimento dello Stato moderno post-coloniale, e delle stesse élites laiche, del tentativo di realizzare lo sviluppo e la piena indipendenza e liberazione, l’islamismo militante ha invaso la scena politica negli anni 70’ e 80’ come forza di opposizione radicale. L’apice di questa fase è stato la rivoluzione iraniana del 1979 che sembrava la realizzazione di un vecchio sogno di creare uno Stato islamico.
(3) Dopo le stragi del terrorismo in Algeria negli anni 90’ e il fallimento della Repubblica “islamica”, soprattutto dopo l’imbroglio elettorale del 2009, il discorso islamista ha cominciato a perdere spazio. L’apparizione di al-Qa‘ida nella scena politica internazionale è l’eccezione che conferma la regola, con essa l’islamismo radicale non è più una forza popolare ma piuttosto un “suicidio-omicidio” che non ha un progetto per l’avvenire. La terza fase, dunque, è segnata dalla crescita di una coscienza collettiva della necessità di democrazia, libertà e dritti umani. Le ideologie nazionalistiche o islamiste non garanticono niente senza i meccanismi di controllo politico e un pluralismo che permetta a tutti i cittadini e i componenti della società di esprimersi e partecipare alla gestione politica ed economica del paese.
Non si tratta qui di un augurio o di un sogno ma di un’osservazione dello sviluppo delle società islamiche. C’è una nuova generazione cresciuta sotto le dittature (di Ben Ali e di Moubarak per esempio), ben connessa con il mondo, capace di usare i moderni mezzi di comunicazione; giovani globalizzati nel senso positivo della parola, aperti ai cambiamenti mondiali; giovani colti e laureati, ma senza possibilità di integrazione nel mercato del lavoro né nello spazio politico.
È importante notare in questo contesto che sono le fasi ad indicare la corrente dominante e non la nascita della stessa corrente, ma le tre correnti coesistono insieme oggi. Si osserva come gli stessi nazionalisti laici e gli islamisti cerchino di adattarsi alle esigenze della democrazia. La salita dell’AKP in Turchia è significativa come concorrente al modello iraniano. L’islamismo turco, democratico e meno demagogico è diventato il modello della Nahdha tunisina e dei fratelli musulmani in Egitto.
Ho spiegato questi sviluppi storici per mostrare che la paura di ripetere, in Tunisia o in Egitto, l’esperienza iraniana quando Khomeini e il suo gruppo hanno rubato la rivoluzione del popolo, monopolizzando il potere ed escludendo in modo feroce tutte le altre forze politiche, è una paura esagerata. Dopo trent’anni i tempi sono cambiati e il legame tra le rivoluzioni in Tunisia e in Egitto è molto più forte con l’onda verde iraniana, che protesta contro la dittatura religiosa. Tutto ciò smentisce la propaganda di Khamenei e Ahmadinejad che pretendono che queste rivoluzioni siano “islamiche” e figlie del modello khomeinista. Il governo iraniano trema e teme che l’onda delle rivoluzioni lo raggiunga e che rinforzi l’onda verde, ma si tratta di un atteggiamento ipocrita e opportunista poco credibile. Rachid Ghannouchi, il leader fondatore del movimento tunisino Nahdha, che non si chiama ufficialmente “islamista”, ha rifiutato di paragonare il suo ritorno a Tunisi con il ritorno di Khomeni a Tehran, sostenendo invece di guardare con speranza al modello turco, dichiarando che non si candiderà per le presidenziali.
Gli islamisti tunisini e egiziani non hanno lanciato queste rivoluzioni, ne sono stati anche loro sorpresi come tutte le realtà politiche di questi paesi. Hanno voluto in un momento successivo accompagnare il movimento del popolo per garantire un posto nel futuro e nello spazio politico.
Le rivoluzioni arabe in atto nei loro slogan ed ideali vanno oltre le ideologie laiche o religiose per toccare i valori universali e i diritti naturali delle persone e dei popoli di una vita dignitosa. Anzi i simboli sono di natura sopra-religiosa. Quello che ha fatto scattare il movimento era un “suicidio” sacrificale e non omicida. Dopo che alcuni egiziani si sono dati fuoco imitando l’atto del tunisino Mohamed Bouazizi, al-Azhar, l’istituzione religiosa egiziana, ha emanato una fatwa di condanna di questi atti “illeciti”. La stessa istituzione governativa non poteva emanare nessuna fatwa di condanna della dittatura e dell’oppressione. I popoli, invece, non hanno mai chiamato queste persone come suicidi, anzi sono stati considerati come “martiri” morti per una causa giusta. Tutto il popolo si è identificato con la vittima sconosciuta, vedendo in essa il simbolo del dolore collettivo causato da lunghi anni di umiliazione e di marginalizzazione. Il giovane egiziano Khaled Said, ucciso sotto tortura dalla polizia ad Alessandria, è diventato il simbolo di una nazione vittima della dittatura. Sono rivoluzioni senza leadership, perché quello che conta veramente è l’idea che unisce, un’idea che parte da un’esperienza amara per abbracciare una speranza finalmente raggiungibile.
La rivoluzione egiziana è la vera risposta agli attacchi terroristici di Alessandria, nella notte del capodanno. Il terrorismo e l’estremismo religioso sono una pericolosa distrazione che serve solamente ai dittatori. Mubarak è il vero nemico dei copti quando non ha usato il suo potere per lunghi anni per evitare le discriminazioni o per impedire gli attacchi previsti. Solo la democrazia può essere il rimedio contro il fondamentalismo che pesca nel fallimento dello Stato poliziesco per reclutare vittime e usarle contro altre vittime del dispotismo. L’unità nazionale egiziana ha ritrovato il suo vero senso nella piazza della liberazione (Tahrir) al Cairo e in tutte le piazze dell’Egitto.
Oltre la democrazia, la giustizia e la libertà, ci sono altri valori umani universali: dignità, fiducia e speranza. Non è giusto ridurre queste rivoluzioni unicamente al fattore economico, non c’era una carestia; Bouazizi quando aveva fame ha portato il suo carrello per vendere frutta e verdura al mercato, ma quando è stato umiliato e ferito nella sua dignità si è dato fuoco, l’umiliazione brucia l’anima. Recuperare la dignità induce al recupero della fiducia perduta, in se stessi e negli altri, nei propri concittadini, non più considerati come potenziali spie ma come compagni di un cammino di liberazione, da cui rinasce la speranza in un domani migliore nel quale la polizia possa essere veramente al servizio del popolo e non del potere dispotico come arma di terrore e di tortura.
Il primo passo è stato fatto, il muro della paura è ormai caduto, ma niente è garantito, mancano ancora altri passi decisivi: ricucire la società civile che è la vera e l’unica garanzia contro le potenziali derive. Si impara camminando, bisogna educare i poliziotti, i politici, i mass-media ... alla democrazia e al rispetto della dignità umana, dobbiamo liberarci dalle brutte abitudini per ricostruire l’essere umano, restaurare il cittadino critico e attivo. In questo la religione potrebbe avere un contributo positivo, ma senza fondamentalismi. Comunque c’è tanto da fare ancora, e in questo momento abbiamo bisogno della solidarietà dei veri amici, in Italia, in Europa e in tutto il mondo.