La verità sui caccia F-35 non può venire dal Ministero della Difesa
Ancora una volta i fautori del programma JSF in Italia continuano a diffondere dati e considerazioni non corrispondenti alla realtà sulla situazione e i costi del programma. Le puntualizzazioni della campagna “Taglia le ali alle armi!” in seguito all’audizione odierna alla Camera del gen. DeBertolis.
Ancora una volta, dopo l’audizione odierna in Commissione Difesa del Gen. De Bertolis (Segretario Generale della Difesa e Direttore Nazionale degli Armamenti) la campagna “Taglia le ali alle armi” si dice sconcertata dall’opacità dei dati presentati a riguardo del programma Joint Strike Fighter dei caccia F-35. Un tipo di comunicazione (sia al Parlamento che all’opinione pubblica) inaugurato dal Ministro-Ammiraglio Di Paola con una continua opera di “informazione a senso unico” tramite televisioni e giornali.
Continuiamo a ritenere che il Ministero della Difesa e i fautori senza ripensamenti dell’F-35 (mentre tutti i partner e perfino gli USA ridimensionano le partecipazioni al JSF) non possano essere le fonti principali sui dati relativi a questo programma, come ha già dimostrato la questione delle “penali inesistenti” e tutta la storia passata di opacità sulla partecipazione italiana al programma.
Ancora più grave è che oggi, secondo quanto riferiscono le agenzie diffuse dopo l’audizione del Gen. De Bertolis, è caduta la seconda “foglia di fico” a supporto del JSF: il ritorno occupazionale. Come considerare altrimenti la dichiarazione che “le 10.000 unità impegnate per il programma Joint Strike Fighter degli F-35 andranno a rilevare le 11.000 unità per l’Eurofighter. Ma si parte da un minimo garantito, sperando che con la prosecuzione dell’attività si avrà un indotto superiore anziché inferiore”. Nel momento stesso in cui si certifica quanto la nostra campagna dice da anni, cioè che la conseguenza di questa scelta non porterà alcun posto di lavoro in più anzi li vedrà diminuire (con una spesa dello Stato di miliardi di euro!), si elevano solo “speranze” per un maggiore ritorno nell’indotto proprio perché il garantito occupazionale è minimo e tutto il resto non è sicuro per niente.
Per comprendere l’insensatezza di alcuni numeri occorre ricordare (fonti sindacali) che gli occupati totali nel settore aeronautico Finmeccanica a fine 2010 erano 12.604 unità e che pochi mesi fa un accordo aziende-sindacati ha previsto una riduzione di ulteriori 747 unità rispetto a fine 2010, portando l’intero organico del settore aeronautico a circa 11.900 persone (di cui solo 1200 stabilmente impegnate per l’Eurofighter). Riportare dati fuorvianti sulla situazione attuale e certificabile non fa che gettare cattiva luce su qualsiasi tipo di proiezione odierna, peraltro non supportata da alcuna documentazione. Va ricordato come oggi l’accordo maggiore è relativo alla partecipazione nella costruzione delle sole semi-ali per un totale di 790 aerei. Una cifra già ridotta rispetto agli iniziali 1.215 aerei ma che è ancora minore se consideriamo i contratti che sono stati effettivamente già firmati ufficialmente e che prevedono per Alenia Aeronautica la produzione di 200 ali. Il tutto perché il JSF non è un programma come l’Eurofighter che garantisce un ritorno in base agli investimenti; il continuo confronto con l’EFA (anche nelle dichiarazioni odierne del gen. De Bertolis) dimostra quantomeno una sterzata verso co-produzioni con l’industria statunitense e rinnova i alcuni scenari inquietanti derivanti dalle affermazioni recenti dell’ex-sottosegretario Crosetto (“Mi auguro solo che la sconfitta non sia stata guidata sacrificando una parte dell’industria della difesa italiana ad altre logiche e altri interessi”).
Secondo le notizie odierne l’Italia avrebbe già ordinato i primi tre aerei, appartenenti al VI lotto di produzione. In realtà secondo quanto risulta alla campagna (e per le procedure consolidate di acquisizione del programma) sia il contratto d’ordine che la relativa quotazione fatta da Lockheed Martin non dovrebbero ancora essere avvenuti e quindi confermare tale acquisto o dare dati di costo definitivi è quantomeno esagerato. Anche perché si tratterebbe di un acquisto fatto mentre infuria la polemica sull’intera partecipazione e mentre in Commissione Difesa si votano risoluzioni a favore di un ripensamento integrale della nostra struttura della Difesa e delle Forze armate: una scelta quantomeno prematura e dalla tempistica sospetta. Basare le stime di costo complessivo solo su questo lotto (per il quale possono esserci accordi particolari ed eventuali compensazioni negative per il futuro oppure nel quale mancano i costi dei propulsori) è poi un errore che continua a confermare una certa opacità ed un certo pressapochismo.
Come è possibile che si vada a spendere meno degli Stati Uniti? I costi – certificati e sicuri – dei primi lotti di produzione USA portavano a fatture di 130 milioni di euro per velivolo, non di 80 milioni come detto oggi. E ciò vale anche per i costi di acquisto a regime che il gen. De Bertolis fissa in 55 milioni di euro: addirittura inferiori a tutte le stime fatte inizialmente, che puntualmente sono cresciute moltissimo per tutti i partner senza smentita. Ricordiamo poi che per legge le aziende statunitensi produttrici di armamenti non possono vendere agli alleati ad un costo minore di quello previsto per il Pentagono.
Ci troviamo di fronte ancora una volta a numeri bizzarri e “creativi” che andrebbero confermati con documentazione ufficiale e non solo con comunicazioni orali. Nessuno dei numeri forniti dai vari rappresentanti del Ministero della Difesa è consistente con gli altri: la scorsa settimana, sempre in audizione alla Camera, il direttore degli armamenti aeronautici del Ministero della Difesa Generale Esposito aveva identificato (secondo le agenzie) in circa 14 miliardi di dollari (di cui 6 per la costruzione delle ali) i ritorni industriali del programma per l’Italia citando un costo ad aereo di circa 70 milioni di dollari. Probabilmente nelle accademie militari si insegna strategia e non a far di conto perché con questi dati l’Italia avrebbe davvero fatto un affarone con la partecipazione al programma: secondo i dati forniti i 131 aerei previsti ci costerebbero solo 9,17 miliardi di dollari a fronte di una ricaduta in Italia sul piano industriale di ben 14 miliardi di dollari! Un miracolo, quindi, che ci permetterebbe di “fatturare” come paese l’equivalente del costo complessivo di 200 cacciabombardieri (sempre secondo il listino prezzi del Gen. Esposito), realizzando solo l’assemblaggio degli F35 che acquistiamo (131, perché gli altri previsti sulla FACO di Cameri sarebbero quelli olandesi attualmente sospesi). Da ricordare poi che anche l’Australia, unico paese oltre al nostro a dover prendere una decisione nel 2012, ha rimandato la propria scelta a causa dei problemi del progetto e dei suoi alti costi.
Riteniamo un problema grave e reiterato quello di fornire al Parlamento (e di conseguenza all’opinione pubblica) dei dati non corretti e utili solo a magnificare testardamente un programma che negli ultimi due anni ha avuto una serie di problemi continua e pesante. Non ci troviamo nel campo delle opinioni e chi sta gestendo la partecipazione italiana al Joint Strike Fighter non può non conoscere (o peggio occultare ai parlamentari italiani) i dati e le informazioni utili ad una scelta consapevole da parte del nostro Parlamento. Dati che negli USA sono di assoluto dominio pubblico, così come in altri paesi partner (il PBO canadese prevede una spesa di 150 milioni di dollari a velivolo, per citare un esempio).
Tutto ciò configura una situazione che riteniamo non più tollerabile perché getta solo opacità e poca chiarezza su un programma che per le sue difficoltà e il suo enorme costo dovrebbe essere invece analizzato approfonditamente da politica e opinione pubblica. Per questo motivo la campagna “Taglia le ali alle armi!” rinnova la sua richiesta di essere ascoltata dalle competenti Commissioni parlamentari per riportare in tale sede una serie di dati alquanto diversa da quanto affermato dagli esponenti del Ministero della Difesa.