La nonviolenza: una questione antropologica

“La nonviolenza è antica quanto le montagne”
(Mohandas Karamchard Gandhi , settimanale Harijan 28-3-1936)
7 febbraio 2012 - Roberta Raggioli

Si narra che Alessandro Magno, giunto nella Valle dell’Indo, fece rastrellare i dodici uomini più saggi che vivevano nella regione, e chiese chi fra loro fosse il migliore per metterlo a morte. La storia è inflazionata di casi in cui il potere annienta coloro che potrebbero insinuare fra i propri simili il dubbio sulla propria legittimità. Il peggior prodotto di una tale involuzione umana sono dittature e guerre le quali, a loro volta, hanno contribuito non poco a distruggere quanto di più elevato la stessa civiltà produce, e pare davvero che l’uomo viva in uno stato di perenne conflitto con l’iintelligenza. Per questo la Storia non è che la storia dell’intelligenza che a fatica cerca di farsi strada nel mondo confrontandosi con la stolidità: lo stesso Erasmo ne parlò in questi termini sia nella “Quaerela Pacis” che negli “Adagia”, intitolando emblematicamente uno di questi ultimi come un proverbio mutuato da Pindaro e Orazio “Dulce Bellum Inexpertis”. Egli, infatti, pone la guerra “Fra le esperienze umane…che non si capisce quanti rischi e quanti danni comportino, finché non si sono fatte di persona…non c’è iniziativa più empia e dannosa, più largamente rovinosa, più persistente e tenace, più squallida e nell’insieme più indegna di un uomo, per non dire di un cristiano.” Il peggio è che a dare “esca al fuoco” sono proprio coloro che, guidando gli stati, dovrebbero agire con più avvedutezza mantenendo la pace tra i popoli. La concorrenza sfrenata fra gli esseri umani per l’accaparramento delle risorse del pianeta conduce dunque in un vicolo cieco non funzionale e potenzialmente autodistruttivo(ad oggi i conflitti in corso nel mondo sono 31). Giova dire che in natura alcuni animali uccidono i propri simili, ma molti altri si limitano, come dicono gli etologi a marcare il territorio o tutt’al più alla prova di forza e alla sottomissione del più debole ma senza ammazzarlo, comportamento comunque esecrabile per un uomo. Gli studi sull’aggressività umana, parlano di evoluzione troppo rapida delle condizioni esistenziali degli esseri umani la quale creerebbe i presupposti a forme di aggressività inedita e incontrollata. In altre parole nell’uomo sarebbe stato messo a tacere dalla violenza culturale l’istinto più profondo di autoconservazione della specie, per cui ad un filtro di norme biologiche, le quali sarebbero un deterrente esse sì alla violenza autodistruttiva, se ne sostituisce uno di tipo culturale che invece la impone per il mantenimento dello status quo. Si scatenerebbe così una vera e propria “guerra alla sopravvivenza della specie” ancor peggiore di quella teorizzata dal darwinismo sociale di Spencer per la sopravvivenza di essa, nella quale a farne le spese sono sempre i giovani e i più deboli. Ingenti capitali vengono dirottati dalla ricerca scientifica per scopi pacifici verso quella bellica a scopo di deterrenza o contro il nemico di turno, sperperando così enormi risorse economiche che vengono sottratte alle comunità cui appartengono di diritto, le quali vorrebbero certamente farne un miglior uso, magari realizzando progetti di formazione e crescita culturale dei cittadini, di sviluppo ecocompatibile dei territori e miglior utilizzo delle risorse in essi presenti. Per questo la questione Guerra e Pace si pone sempre più su un piano antropologico-culturale, e dovremmo semmai chiederci, questo sì, se abbiamo trasferito alle future generazioni un’etica della convivenza che le renda davvero consapevoli di ciò che si deve fare per preservare la vita e il pianeta. Dovremo mostrar loro, vivendo da non violenti, che la violenza non è uno stimolo primario che necessita di essere assecondato ma solo un mezzo artificioso per scopi lontani dall’attuazione dell’ autentica natura umana, la quale si esplicita solo nella ricerca del benessere e pace nei rapporti fra gli individui e fra i popoli. Bene si comprende come quella che a prima vista in Erasmo può apparire pura invettiva poggi invece già all’epoca su solide basi scientifiche, che gli derivano innanzitutto dal suo stesso metodo rigorosissimo di ricerca della storia e della cultura, la quale trova oggi conferma nelle scienze che studiano l’origine e l’evoluzione della vita sul nostro pianeta. Ritengo però che l’importanza di tale analisi vada oltre la constatazione del dato scientifico. Infatti accanto all’evoluzione biologica, corre parallela un’evoluzione culturale, come vedremo, che si attua in modo non uniforme nella società e che quasi sempre richiede tempi e cambiamenti epocali nel nostro modo di pensare l’esistenza e il nostro approccio alla realtà. A dirla tutta, il progredire del pensiero filosofico-scientifico umano e delle sue applicazioni pratiche dovrebbe essere supportato da una volontà saldamente radicata sui valori dell’humanitas. Dovremo mostrare ai nostri figli che la pace può realizzarsi se solo l’uomo modifica quelle norme culturali che giustificano la violenza e che la ritengono necessaria, perché la violenza genera violenza e non la pace: “Humanitas iustitiam nosquam renuit grandem malignitatem conoscendo”. La cultura umanistica infatti ha da sempre trovato le sue vie per sottolineare lo stato di alienazione e disumanizzazione in cui l’essere umano precipita in certe situazioni estreme, toccando il fondo dell’aberrazione e imbarbarimento quando si allontani da questa che è la “diritta via”. Da qui infatti presero le mosse gli antifascisti. A ciò si rifece Gramsci quando formulò il concetto di “Neutralità attiva ed operante” titolo del suo famoso articolo pubblicato sul Grido del Popolo il 31 ottobre 1914. Una presa di posizione nonviolenta in antitesi alla posizione di “Neutralità Assoluta” del Partito Socialista sulla guerra, e al governo italiano responsabile dello sfacelo libico, un metodo di lotta non armata che sarà alla base dell’antifascismo e della stessa Resistenza nelle fabbriche, nelle scuole, nei campi, nelle case etc. Solo quando le contingenze storiche presero il sopravvento sulla ragionevolezza umana con l’intervento armata manu da parte dello stato durante la Manifestazione Antimilitarista di Ancona e dei conseguenti scioperi della “Settimana Rossa” a Torino del 1914, nonché durante quella del 1915, e nonché più tardi nel 1920 con l’assalto delle squadre fasciste alle Camere del Lavoro, ai vari giornali di partito e alle associazioni quali quelle cattoliche, e non ultima la chiusura della stessa Massoneria, solo allora Gramsci dichiarò la necessità per gli operai di difendersi rispondendo alle violenze con la stessa moneta(articolo “La guerra è la guerra” pubblicato su L’Ordine Nuovo il 31 gennaio 1921), non contemplando, invece come nel ’14, la possibilità di resistere con azioni nonviolente e di protesta civile che portassero alla sollevazione delle masse come accadrà invece ben 20 anni più tardi. Jean-Marie Muller, nell’opera “Il Principio nonviolenza. Una filosofia della pace”, Edizioni Plus, Pisa University Press, 2004, parlerà infatti della centralità delle lotte operaie nella formazione di una coscienza nonviolenta nel mondo e come spinta propulsiva alla Resistenza, in quanto scelta volontaria dei popoli di opporsi al regime e alla guerra. Resistenza della quale l’altro intellettuale e politico sardo E. Lussu ebbe a dire: “…La rivoluzione partigiana…quella…che ci consente oggi di uscire a testa alta oltre la frontiera, è stata regionale ed autonomista…”(29 maggio 1947, discorso all’Assaemblea Costituente). E si sa quanto fosse importante per Lussu, in disaccordo con Gramsci su questo punto, che l’affermazione di una qualsiasi forma di democrazia compresa quella federale passasse attraverso l’autodeterminazione(conoscere per deliberare) e non dall’egemonizzazione politico-culturale di una sola classe sociale(carteggio Lussu-Gramsci, 1926). Ma nei Quaderni dal Carcere di Gramsci si trovano molte altre riflessioni che fanno pensare invece ad un’evoluzione del pensiero filosofico di Gramsci nella direzione auspicata da Lussu, e cioè verso un Socialismo dal volto umano, legato ad un discorso pedagogico-educativo laddove parla di […] lotta per una cultura… che non può non essere legata ad una nuova intuizione della vita, fino a che essa diventi un nuovo modo di sentire e di vedere la realtà[…], e di credere nella costruzione di una società più giusta, attraverso i mezzi nonviolenti dell’istruzione umanistica che sola può condurre l’essere umano alla autodeterminazione. Fra il ’40 e il ’41 poi saranno i due liberisti e libertari Ernesto Rossi e Altiero Spinelli a precisare i termini della centralità della questione federalista nel famoso “Manifesto di Ventotene”, poi pubblicato clandestinamente nel ‘44. L’idea centrale del Manifesto è che “la contraddizione essenziale, responsabile delle crisi, delle guerre, delle miserie e degli sfruttamenti che contraddistinguono le nostre società, è la presenza di stati sovrani, geograficamente, economicamente e militarmente individuati”, per cui il punto centrale della lotta non possono essere la conquista e le forme del potere politico nazionale, ma la creazione di un solido stato internazionale a cui avrebbero dovuto partecipare le forze popolari, che conquistato il potere nazionale si sarebbero indirizzate a realizzare l’unità internazionale attraverso un Movimento Federalista Europeo. Insieme a questi molti altri uomini politici e di lettere, nel periodo tra le due guerre, contribuirono ad esprimere un punto di vista alternativo del mondo e dell’esistenza rispetto a quello dominante, con un’opera di scavo interiore che portò alla luce le lacerazioni più intime vissute dal genere umano in quei terribili anni. Fra questi ricordo Romolo Murri, grande rinnovatore della prassi politica cattolico-cristiana sulla base della conciliazione fra socialismo e dottrina sociale della Chiesa. Nello stesso periodo a Pistoia, della quale Gianna Manzini parla come di una […]città, di bisbigli…[…]interrotti da qualche scossone di anarchici, (Prof. Giorgio Petracchi, Comunicazione “Il Timone e la Vela”: La prima settimana sociale e il suo impatto sulla Diocesi di Pistoia, 100 Anni, 1907-2007, Settimane Sociali Pistoia-Pisa, 18-21 ottobre 2007), il cattolico Alberto Chiappelli da inizio al passaggio dall’esercizio della carità come impegno cristiano alla questione sociale come impegno cristiano, affermando così il primato della scienze economiche e sociali sull’autorità papale. Pres. del Comitato diocesano il Chiappelli, aveva avuto come guida proprio uno degli uomini più aperti e preparati lo studioso di materie filosofiche e sociali il Canonico e Prof. Roberto Puccini fondatore tra il 1899 e il 1900 del Circolo di Studi Sociali, traduttore del Manuel social chrétien di Lèon Dehon nel quale si prospettava l’azione diretta nel sociale tanto del sacerdote quanto del credente, mettendo così alla pari l’operato fra laici e cattolici. Il che era in piena sintonia con il pensiero del Murri e in parte di Luigi Sturzo per il quale la costruzione della società civile passava attaverso l’affermazione dell’autonomia e del dialogo continuo volto alla realizzazione dei valori umanistici. Valori e obbiettivi questi evocati e perseguiti tutta la vita da molti dei più grandi letterati del periodo credenti e non credenti, come Giuseppe Ungaretti, che, in alcune delle sue liriche, come Sono una creatura, Veglia, Fratelli, testimonia sintetizzandoli con grande lucidità la lacerazione interiore e i tragici momenti di assoluta disperazione provati in prima persona, da soldato sul fronte del Carso(1915) e nella Champagne in Francia(1918), dinanzi alla visione di un’umanità distrutta nel corpo e nello spirito, la quale sopravvissuta alla catastrofe della I Guerra Mondiale(più di 8 milioni di morti e più di 7 milioni di dispersi), troverà comunque in sé la capacità d’essere e la forza di rinnovarsi e riemergere: […]Nell’aria spasimante/involontaria rivolta/dell’uomo presente alla sua/fragilità[…]. Altro grande poeta è l’andaluso Federico Garçia Lorca che in particolare nella raccolta poetica Poemas del Cante Jondo(1921) denuncia lo “stato di subalternità in cui è costretta l’antica civiltà andalusa dalla violenza della cultura egemone moderna. Così nel “Dialogo del tenente colonnello della guardia civile” o nel “Dialogo dell’Amargo”, e che si espliciterà ancor meglio durante il suo soggiorno in America, dove avrà modo di osservare la dura condizione di emarginazione vissuta dalle minoranze, soprattutto quella nera di Harlem. Egli comprese che a questo stato di soprafazione sociale ne sarebbe conseguito ben presto uno di vera e propria guerra sociale, il che si sarebbe realmente verificato non solo in America(la repressione delle minoranze e la lotta alla discriminazione razziale), ma di lì a poco in tutto il mondo si sarebbe assistito all’escalation del terrore dei regimi nazi-fascisti. Inoltre Lorca avrebbe assistito proprio nella sua Spagna allo scoppiare della Guerra Civile, e lui stesso, oppositore del regime che ne sarebbe scaturito, ne rimarrà vittima. Il pensiero e l’opera di Lorca si rispecchiano innegabilmente nell’assunto di Coventry Patmore poeta vittoriano il quale scrisse che “[...] Il fine dell’arte è la pace[...]”, consapevole che il linguaggio visivo e verbale libera la comunicazione da ogni forma di violenza, in quanto riesce ad esprimerne la profonda ed intima radice. L’arte come via alla nonviolenza dunque, quella che condusse anche l’altro andaluso P. Picasso a realizzare Guernica, in ricordo del devastante bombardamento della cittadina basca da parte dei tedeschi avvenuto il 26 aprile del 1937, in cui persero la vita circa 200 persone. Così come la sua seconda opera dedicata al tema della “Guerra e la Pace”(Cappella di Vallauris, 1951-1958), memore certo di ciò che Goya un secolo prima aveva saputo comunicare nei suoi “Capricios”(1799) e nei suoi “Los desastres de la guerra”(1810-1820) sulla guerra civile spagnola, all’epoca delle invasioni napoleoniche: la nuda verità, svelata dalla guerra, sulla depravazione e sulla morte, e il ricordo del contributo e del sacrificio degli uomini e delle donne spagnole nella lotta per la libertà. Per tutta la vita questi uomini lottarono contro i preconcetti, l’ignoranza, la superstizione e la disumanità, e con loro molti altri in tutto il mondo e in tutte le epoche, manifestando le stesse idee con la stessa convinzione e tenacia nel tempo, e dando spirito e corpo alla cultura e all’azione nonviolenta. Primo fra tutti Mohandas Karamchand Gandhi, che il poeta Rabindranath Tagore ribattezzò con l’appellativo di “Mahatma”(Grande Anima) che realizzò per primo l’azione politico-culturale nonviolenta del Satyagraha(vera forza) guidando l’India all’indipendenza. Il suo esempio verrà seguito in seguito dallo stesso leader nero americano Martin Luter King, e così da quello sudafricano Nelson Mandela, così come oggi dalla stessa Aung San Suu Kyi in Birmania, e per la seconda indipendenza indiana dal gandhiano Anna Hazare. Proseguendo fra gli uomini di cultura ricordo il poeta persiano del XIII secolo Rumi i cui pensieri superarono i limiti politici e religiosi, e al quale, così come all’altro grande persiano Hafez e al suo “ghazal”, si ispirò Goethe per la sua West-öslticher Divan(1819), raccolta di poesie che è l’incarnazione di un ideale pluralista, d’interrogazione e ricerca dell’umano e della natura cosmica, il luogo dell’abbraccio(in persiano wasl e in tedesco begegnung)modello di sintesi letteraria e religiosa del 18° e 19° secolo europei tra oriente e occidente. Ambedue compiono infatti un cammino evolutivo d’ordine psicologico proprio del sufismo: rispetto per tutte le religioni e ideologie, rispetto per l’essere umano e per la natura, amore per lo studio e corretta educazione del sé. Lo stesso percorso lo compirà anche l’altro poeta dell’800 libanese Kahlil Gibran, noto al movimento new age americano degli anni ’60 in particolare per il tema de “l’amore spirituale”, e ne sono un esempio questi versi: “Dio mi guardi dall’uomo/che si proclama fiaccola/che illumina il cammino dell’umanità./Ben venga l’uomo che cerca il suo cammino/alla luce degli altri”(Ghibran Kahlil Gibran, Massime Spirituali), e ancora “La forza che difende il cuore dalle ferite/è la stessa che gli impedisce/di dilatarsi alla sua massima grandezza”(A Treasury di Kahlil Gibran), e il poeta inglese J. Keats con il suo celeberrimo concetto del “soul making” che giungerà fino a noi, insieme ad anglosassoni come W. Whitman, Sir T. Stearn Eliot e W. Blake, attraverso i poeti e uomini di cultura della “Harlem Renaissance” e di seguito con la “beat generation” degli anni Cinquanta. A questi ultimi sulla stessa lunghezza d’onda si deve la diffusione delle culture orientali e in particolare la poesia dei maestri Giapponesi Haiku primo fra tutti Matzuho Bashð(1600), il quale cantò la natura alla ricerca dell’ascesi spirituale. I suoi renga(l’haikai derivante dall’antico “tanka” giapponese), sono inarcature-intensioni minimalisticamente perfette, capolavori d’ermetismo come si può ben arguire dalla lettura dei seguenti: “passero amico risparmialo il tafano che gioca tra i fiori”, e ancora: “prati d’estate,/ tutto quanto rimane/ dei sogni dei soldati.” D’altro tono e colore, ma dalle medesime intenzioni, la poesia del massimo rappresentante contemporaneo del rinascimento poetico irlandese Premio Nobel per la letteratura(1995) Seamus Heaney, che ebbe ad esprimere la propria scelta nonviolenta nella famosa dedica alla pietra di Delphi in Station Island, 1984, una delle sue “Touchstones ”: […] Che io possa sfuggire il miasma del sangue versato/governare la lingua temere l’hybris, temere il Dio/finché non parli nella mia bocca senza impacci[…]”. I suoi versi a loro volta riecheggiano quelli del poeta italiano Mario Luzi in “Padre dei padri”, il quale dedicò come Heaney la sua vita e la sua opera ad affermare i principi nonviolenti. E l’elenco sarebbe sterminato, alla faccia di chi pensa che siano stati in pochi a portarsi avanti sulla via della nonviolenza. Tutti loro hanno percorso le strade della cultura credendo profondamente nell’assunto gandhiano per il quale “esistono vittorie senza violenza”, come scrisse l’altro nonviolento italiano Aldo Capitini, in “La nonviolenza oggi”, Milano, Edizioni di Comunità, 1962), e che esiste una storia della nonviolenza, la quale è “la storia delle lotte contro la violenza degli uomini irragionevoli”, come scrive Jean-Marie Muller(opera citata pag. 2). Egli porta come esempi quelli della Resistenza francese, norvegese, danese, ai governi nazi-fascisti, quella della Cecoslovacchia del 1968 e quella dei monaci birmani e tibetani buddhisti, con quell’immagine ancora viva e presente del “Khorra” durante il quale i monaci birmani tengono la ciotola nera rovesciata in segno di rifiuto della “elemosina macchiata” dei soldati buddhisti al servizio del regime- E l’ultima, quella del 26 aprile 2011 per la libertà di culto del Monastero di Kirti Jeypa a Dharamnsala. Non a caso il capo spirituale e politico tibetano in esilio dal 1959 il Dalai Lama Tenzin Gyazo è stato insignito del Premio Nobel per la Pace nel 1989, essendosi dissociato pienamente da chi, come i commandos tibetani addestrati dagli USA per la Resistenza, voleva reagire all’occupazione cinese con la violenza delle armi, dando così adito a rappresaglie cinesi sui civili e sugli stessi monaci nei monasteri, che sono costate la morte a più di 1 milione di tibetani. Gyazo sa infatti che la Resistenza tibetana sarebbe possibile solo se le grandi potenze mondiali si schierassero contro il colosso cinese, il che è pressoché impossibile. L’unica via è la via alla nonviolenza: un’opinione pubblica mondiale che si schieri dalla parte dei tibetani, il che vale per tutti i popoli oppressi nel mondo, spingendo attraverso le iniziative nonviolente i governi del mondo democratico ad opporsi con misure restrittive commerciali e politiche ai regimi autoritari che non rispettano i diritti umani. Importante tenere bene a mente quanto scritto da Johan Galtung, uno dei padri della Peace Research, che mette in evidenza ad esempio il ruolo dirimente che hanno assunto le chiese cristiane e i nonviolenti nella questione ebreo-palestinese(“Palestina-Israele”. Una soluzione nonviolenta?”, Edizioni Sonda, Torino 1989). Così come il movimento di Solidarnosc(1980), che proclamava “Libertà, Fede e solidarietà” all’insegna della nonviolenza, e fu appoggiato per questo dallo stesso Papa Wojtyla, che influì non poco sulle sorti della Rivoluzione Pacifica dei lavoratori polacchi. Egli per questo non ha dimenticato la repressione dei cristiani in Cina arrestati in massa nell’aprile del 2011 a Shouwang. Nessun credo per coloro che ho ricordato dunque è stato più forte dell’amore per l’uomo, nutrito dall’humus umanistico culturale e artistico di là da ogni religione o colore politico. Ma passando dalla macrostoria alla microstoria, non molti sanno che anche Pistoia annovera uomini e donne che furono guidati in passato dal demone della nonviolenza, fra questi la poetessa irlandese, pistoiese d’adozione Louise Grace Bartolini, grande patriota che ospitò nel suo salotto al n° 52 di Via della Madonna fra gli altri risorgimentali Niccolò Puccini, Peretti e il Carducci. Quest’ultimo il 25 agosto 1861 compose una famosa Ode in suo onore, in cui invitava la poetessa a cantare l’eroismo delle donne di Suli, che durante l’assedio da parte dei turchi(1803) danzarono in circolo gettandosi, una ad una ad ogni giro, dalla Rupe di Zalongo, sacrificandosi in nome della libertà e della loro dignità, nonché di quelle polacche per la strage di Varsavia contro l’impero russo(1830). Grace inoltre fu la prima a tradurre e diffondere in italiano le opere del poeta americano Henry Wadsworth Longfellow, fra le quali il famoso “Salmo di vita” […] Non la gioia né il dolore sono nostro fine o destino/ma l’azione, perché ogni domani ci trovi sempre più oltre del giorno prima…||Nel gran campo di battaglia del mondo,/nel bivacco che è la vita/non essere passivo nella mandria/sii l’eroe nella lotta![…]. Tutta la sua poetica è un inno alla vita e alla lotta per il realizzarsi di un’ umanità libera che ricerca la propria felicità fondata sui valori della nonviolenza, il che si espliciterà soprattutto nel suo romanzo tradotto dalla Grace “Il canto di Hiawatha”(1865). Hiawatha fu un condottiero del popolo Seneca dei nativi americani, determinante nel persuadere le 6 Nazioni Irochesi(The People of the Flint) originari dei territori comprendenti Il Lahkota, Dakota e Nakota, ad unirsi in un’unica Confederazione la “Haudenosaunee(Irquois)Conferacy” cioè “La Lunga Casa degli Irochesi”(1310-1311), così come era nella sua visione e in quella del “Grande pacificatore” Molotha Deganawidah(o Tekanawita “The Peace Walker” secondo C.J. Taylor), capo spirituale del popolo Mohawk, con cui percorse un territorio di 500 km(dal fiume Mohawk fino alle cascate del Niagara, est-ovest canadese, detto, appunto per questo, “La Lunga Casa” simbolo anche matriale dell’unità tribale, per diffondere la “Gayanashagowa” la “Grande Legge di Pace”, su cui i cinquanta capi irochesi fondarono un governo democratico confederale, il cui simbolo è l’Abete Bianco detto appunto “Albero della Pace”, che tanta fortuna ha avuto presso i Peace Makers del mondo, e al quale si aggiunse sulla loro bandiera la catena delle cinque Nazioni giacché la sesta, quella dei Tuscarora fu annessa solo nel 1722. Pare che la stessa Costituzione americana si sia basata proprio sui principi della Gayanashagowa irochese. Ma tornando nella Pistoia questa volta del XXI sec., troviamo l’altro libertario Egisto Gori, Presidente dell’Unione Sindacale Italiana di Pistoia, antimilitarista e anti-interventista che nel 1914 fu arrestato con gli altri compagni libertari anarchici Tito e Mario Eschini, Virgilio Gozzoli, Dino, Fabio e Alfredo Gori per aver partecipato alle dimostrazioni contro le compagnie di disciplina e a sostegno di Augusto Masetti, episodi che culminarono nella già citata Settimana Rossa, oltre che alcuni episodi al fronte che lo videro protagonista di azioni volte a denunciare i soprusi e le violenze contro i propri commilitoni. Partecipa alla Resistenza nella Brigata libertario-anarchica del Fedi, insieme agli amici di sempre, meno il fratello Fabio morto nel 1922 in seguito ad un attentato che in verità era diretto a lui. Figura invece ancora tutta da indagare è quella di un altro pistoiese il giovane cattolico Marcello Paci, uomo di lettere, che fra il 1940 e il 1943 è una delle voci più originali della “terza pagina”, quella della Cultura, del “Ferruccio” Rivista pistoiese, che pur essendo l’organo ufficiale del partito fascista riesce, grazie a uomini come il direttore Braccio Agnoletti, ad essere comunque una tribuna libera. La “terza pagina”, dice infatti E. Salvi nella sua opera Le arti nel “Ferruccio”, 2004, Libreria dell’Orso-Pistoia,[…]è il prodotto unitario di una strategia redazionale dell’affermazione della giovane arte pistoiese[…], e perciò, appunto, fin dai suoi esordi denota la presenza della cultura artistico-letteraria a carattere volontario e gratuito di intellettuali di alto livello: primo fra tutti il letterato Piero Bigongiari, che insieme all’amico, Danilo Bartoletti, artista pistoiese, fra il 1933 e il 1935 scopre il valore dei letterati americani, russi e francesi, nonché gli ermetici italiani, innamoramenti questi che contageranno lo stesso direttore del “Ferruccio”, e con lui il Paci. Quest’ultimo ebbe come insegnanti G. Papini e Piero Bargellini, ma se ne staccò ben presto non aderendo mai pienamente al fascismo. Egli intese la letteratura come vita, la quale ha senso solo se sorretti dalla forza della ricerca della verità, che l’esperienza può rinsaldare ma della quale non può affermare il raggiungimento in assoluto, giacchè c’insegna la verità non è qualcosa che può essere acquisito per l’eternità, qui e ora. Come gli ermetici amati e recensiti da lui e da Bigngiari, e con loro anche Palazzeschi, Pea, Lisi, Zavattini, affermò la necessità dell’uomo di vivere nel mondo accogliendo la propria fragilità e incompiutezza, nessuna legge immutabile e fissa che ne possa regolare la vita. Da ciò ne scaturì la sua avversione per qualsiasi ideologia, nonostante la sua ferma fede cattolica. Ma ciò nonostante credeva che l’arte e la poesia per la loro forza d’illusione lirica si oppongono alla distruzione del sogno dell’utopia, donando una possibilità all’uomo del futuro, di là dal contingente. Per questo nella sua rubrica “Il Taccuino antibolscevico” egli non condivise gli slanci entusiastici verso “l’orgia idolatra”, verso il meccanismo dei “cubo-futuristi”, così ribattezzati da Majakovskij. Ma anche se è critico nei confronti del regime sovietico, che privando i cittadini della libertà avrebbe portato alla morte dell’arte e letteratura sovietica che apprezza profondamente, nel 1941 non arriva ancora a mettere in evidenza le analogie tra Mosca, Berlino e Roma. Contraddizione, questa, che si sarebbe risolta purtroppo nel 1943 con esiti nefasti per il Paci non del tutto allineato. Infatti anche grazie alla mediazione della sua fede cristiana, si rese finalmente conto che la sua elaborazione teorica poco aveva a che fare con la prassi del regime fascista e degli occupanti nazisti, alla quale doveva sottostare con i propri connazionali. Scelse così di collaborare con la Resistenza, aiutando tra l’altro molti ebrei a trovare una via di salvezza tramite il Vescovado di Pistoia. Ciò che è certo è che per tale motivo venne arrestato dalla sezione politica della questura di Pistoia, ma a proposito della data vi è ancora qualche discrepanza, dato che gli articoli del Ferruccio portano la sua firma almeno fino alla fine del 1943, mentre nell’articolo Dal “Ferruccio” a Mathausen. Le vicende di Marcello Paci, scritto a due mani da Silvana Paci e Marcello Paci, su “Farestoria”(A.5, n.1(1985). – p. 38, da me consultato presso la Biblioteca Forteguerriana di Pistoia, risulta che il giovane Paci fu tradotto al carcere di Pistoia fra il febbraio e il marzo del 1943, da qui a S. Caterina alle Ville Sbertoli, poi al carcere della Certosa di Parma, e processato e condannato a 30 anni di lavori forzati. Il Paci nella prima delle due lettere al Canonico Rodolfo Lelli, scritte prima di essere deportato a Mathausen, e di qui al “II sottocampo di Ghusen”, lascia una grande testimonianza della sua profonda umanità: “[…] avevo l’amore mi mancava il dolore per esser uomo[…]. Continuando con la storia della nonviolenza, giova ricordare che proprio Pistoia diede i natali ad una fra le prime donne “libertarie e nonviolente” d’Italia Leda Raffanelli, cresciuta ad Alessandria d’Egitto e formatasi negli ambienti anarchici della Baracca Rossa, dove conosce Giuseppe Ungaretti ed Enrico Pea. Anche lei, per gli stessi motivi umanistici-nonviolenti che avevano mosso i poeti persiani Hafez e Rumi , e lo stesso Göethe, si appassionerà allo studio delle culture mediorientali e in particolare al sufismo. Fondatrice nel 1910 di quella che sarà la più importante casa editrice libertaria italiana “La Società Editrice Sociale”, chiusa dal regime fascista nel 1922. La Rafanelli farà parte, insieme ad Armando Borghi, del Comitato in favore di Augusto Masetti e parteciperà alla Settimana Rossa. Per la Rafanelli pace, nonviolenza e spiritualità sono messaggi di speranza in un progresso sociale volto alla costruzione di un mondo libero fondato sui valori umanistici e sull’unità cosmopolita, ben oltre dunque il culto eroico nazionalistico o della retorica patriottica, anche se pensò sempre che fosse importante ricordare il Risorgimento e poi più in là la Resistenza quali momenti in cui il popolo si era emancipato dal sopruso e dall’imposizione. Il totalitarismo, a cui Leda si oppose con forza, e che come avrebbe scritto di lì a poco la pensatrice di origine ebrea Hannah Arendt, rappresentava la fine della modernità che da progetto di progresso e libertà diveniva il suo esatto contrario, producendo le aberrazioni e le violenze peggiori causate dal “delirio di onnipotenza”. Ciò si spiegherebbe secondo la Arendt col fatto che l’uomo vive sotto l’impulso del desiderio a sentirsi bene nel mondo, aspirando ad un progresso che lo porti a raggiungere uno stato di perfetta beatitudine. Tutto ciò condurrebbe al continuo avanzare della scienza e della tecnica e a mutamenti della vita molto più accelerati che in passato, determinando però spesso esiti incongrui e contraddittori. Le moltitudini non partecipano dei benefici del progresso, e con l’aumentare del divario economico e culturale creatosi tra elite e massa cresce anche il senso d’impotenza che crea spazi a reazioni sempre più violente e incontrollate. Dunque presupposto alla nonviolenza è l’affermazione dell’autodeterminazione umana: conoscere per deliberare, e conseguentemente la creazione di pari opportunità per tutti, attraverso il pensare e l’interagire politico, inteso nel senso etimologico del termine “πολιτεία: pluralità essere fra i molti” cioè la “πόλις”nel cui agone i diversi individui s’incontrano e stringono relazioni, la cui stabilità soltanto crea i presupposti per un condizionamento reciproco. Perché ciò avvenga bisogna però essere liberi dalle fatiche e necessità, in una società in cui le conoscenze siano condivise e non appannaggio di pochi. Solo così Socialismo e liberalismo potranno essere complementari. Infatti perché l’uomo sia veramente libero non deve sottostare all’interazione comando-obbedienza per cui si creano rapporti gerarchici fra gli uomini. Perciò eguaglianza fra gli esseri umani equivale a libertà e viceversa, presupposti dunque per una convivenza pacifica e nonviolenta. Le analisi della Arendt e della Rafanelli alla luce di queste riflessioni precorrono in toto i tempi e si possono certo ascrivere appieno fra quelle più avanzate in termini di peace research. Il che ci porta a una riflessione più specifica di carattere storico-politico-antropologico e scentifico: la vita, il pensiero e l’operato di molti uomini e donne nella storia del pensiero nonviolento, dimostrano concretamente, e una volta per tutte, che queste ultime in particolare, non essendo predisposte ai rapporti di forza, si abituano più facilmente all’uso della ragionevolezza. Il che è stato largamente affermato dalle stesse scienze comportamentali in sintonia con la neurobiologia e l’origine ontogenetica del comportamento, nonché con l’antropologia e l’origine culturale della violenza. È infatti noto che le migliori pratiche usate dalle donne nelle rivendicazioni politiche sono sempre state marce, sit-in, raccolte di firme, occupazione di tribune, picchetti, scioperi della fame, tutte tecniche nonviolente, tanto che lo stesso Gandhi riconosceva di aver molto imparato dalle suffragiste inglesi. E proprio una donna inglese, Miss Wallace Dunlop, fu la prima ad attuare lo sciopero della fame nel carcere di Holloway in Inghilterra nel 1909, dove si trovava in stato di detenzione per aver imbrattato i muri della House of Commons e infranto i vetri di alcune finestre al numero 10 di Downing Street, e per le quali cose chiedeva che le fosse riconosciuta l’accusa per reato politico. Il suo esempio fu seguito di li a poco dalle suffragette del Women’s Social and Political Union, la cui leader e fondatrice Emmeline Punkhurst attuò ben 10 volte lo sciopero della fame nel 1918 durante un periodo di 18 mesi, fino a che, in quello stesso anno, non ottenne insieme alle compagne del movimento da parte del Parlamento inglese il riconoscimento del diritto di voto, benché ancora limitato alle mogli dei capi famiglia sopra i 30 anni d’età. Solo nel 1928 fu esteso a tutte le donne, mentre in Italia nel 1919 la Camera dei Deputati approvava il suffragio alle donne ma non il Senato, perché le Camere furono sciolte prima, dopodiché con l’avvento del fascismo il sogno femminista svanì e si dovettero attendere le prime elezioni libere del 1946 appunto a suffragio universale. Si può perciò notare come la storia del movimento per i diritti delle donne vada di pari passo con quella per i diritti umani, e della nonviolenza, realizzando per prime nella storia quella connessione del personale al politico. Obbiettivo delle donne infatti[…]non è quello di distruggere gli avversari ma di lottare con loro”, scrisse Aldo Capitini, in Ragioni della nonviolenza-1977, […]perché ognuno abbia la massima possibilità, compatibile con quella di ogni altro, di realizzare la miglior vita di cui è capace” (G. Pontara, Il Satiyagraha, 1983). Concezione dell’esistenza questa che rispecchia quella della Arendt e della Rafanelli, e che precede ed è perciò alla base della famosa “Déclaration des Droits de l’Honmme et du Citoyen(1789). Infatti la prima riflessione organica compiuta da una donna sulla condizione femminile la troviamo nel trattato ”Ėgalité entre les Hommes”(1622) e in “Les fenmmes et Grief des Dames”(1626) della filosofa e letterata Marie Le Jars de Gournay, figlia acquisita di Michel de Montaigne, in cui si auspica un trattamento equo di tutti gli esseri umani e pari opportunità fra uomini e donne. Dunque, le donne hanno certo dato un enorme contributo all’affermazione della nonviolenza come filosofia di vita e come unica, vera via alla Pace Universale. Prima fra tutte la letterata sarda Grazia Deledda, che si emancipa dalla sua condizione di subalternità dovuta alla discriminante sessuale nella Nuoro del ‘900, attraverso i suoi romanzi arricchiti dalle sue ricerche etnografiche, la cui prosa echeggia spesso immagini paragonabili a quelle della poesia giapponese Haiku. Premio Nobel per la Letteratura nel 1926, la Deledda non solo per prima aprì la Sardegna e la sua ultra millenaria cultura facendola conoscere al mondo, ma fu anche un chiaro esempio di come la cultura può liberare l’essere umano dal proprio stato d’inferiorità affermando se stesso e procurando giovamento ai propri simili in modo pacifico. Proseguendo la Baronessa Berta Von Suttner(Premio Nobel per la Pace nel 1903) che parlò per prima di “Disarmo di tutte le nazioni” proponendo l’istituzione di una corte d’arbitrato che risolvesse iconflitti basandosi sul diritto internazionale e la nonviolenza, superando d’un balzo lo stesso Nobel ancora fautore di un pacifismo armato. Jane Addams che nel 1915 fonda la Lega Internazionale Femminile per la Pace e la Libertà, in seguito nel 1931 anche lei Premio Nobel per la Pace. Madre Teresa di Calcutta, religiosa cattolica di origine albanese. Premio nobel per la Pace nel 1979, che con le sue Missionarie della Carità lavorò attivamente a migliorare le condizioni di vita dei poveri ed emarginati a Calcutta. Joyce Lussu, il suo vero nome era Gioconda Salvadori, antifascista socialista e azionista, espatriò in Francia dove insieme al gruppo di Giustizia e Libertà e al suo secondo marito Emilio Lussu condivise la lotta clandestina, partecipando come staffetta alla Resistenza Romana dopo l’8 settembre. Nel dopoguerra promuove e fonda l’UDI con altre attiviste, fra le quali Nadia Gallico Spano, sarda e si occupa di diritti umani e dei popoli oppressi primo fra tutti quello dei curdi. A tale scopo tradurrà molti poeti stranieri come il turco Nazim Hikmet, rinchiuso nelle patrie galere e del quale organizzerà l’evasione, e poi l’angolano Agostinho Neto e Ho Ci-min, tanto per citarne qualcuno. Altra donna nonviolenta d’eccezione è Betty Williams, nord-irlandese che si discosta dal movimento di lotta armata clandestina l’IRA perché fermamente convinta dell’assunto cristiano e gandhiano che “la violenza genera solo violenza”. Nel 1976 con Mairead Corrigan da vita al Movimento Popolare per la Pace, portando in piazza a Belfast 35.000 persone, attirandosi la simpatia dell’opinione pubblica internazionale, di chi si adoperava per la risoluzione del conflitto tra Cattolici nord-irlandesi e Protestanti inglesi. In questo momento due donne rivestono un ruolo centrale nel panorama del pacifismo nonviolento mondiale: il leader del movimento nonviolento birmano Aung San Suu Kyi, in opposizione alla dittatura militare del suo paese, Premio Nobel per La Pace nel 1991. La seconda è la guatemalteca Rigoberta Menchú, che si è adoperata fin da giovane per la riconciliazione etno-culturale basata sul rispetto dei diritti dei popoli indigeni, Premio Nobel per la Pace nel 1992. E non dimentichiamo l’italiana Emma Bonino che da sempre rende merito alla lotta nonviolenta affermando nel nostro paese e nel mondo i diritti delle donne e degli uomini. È di questo 2011 inoltre la notizia del movimento formatosi attorno alla candidatura delle donne africane al Nobel per la Pace, storie di donne impegnate nella costruzione dei processi di pace nella quotidianità e nelle loro lotte contro la discriminazione e i diritti civili degli africani, di cui proprio la Bonino insieme a molte altre parlamentari italiane delle diverse forze politiche sono state fra le prime sostenitrici. Le donne da sempre sono in prima linea. La stessa Resistenza europea e italiana le videro protagoniste di atti di “Resistenza non armata”, benché questa sia stata una “guerra civile sui generis” giacchè si trattò anche di “guerra di liberazione” e “guerra di classe” all’interno di un più ampio conflitto mondiale. Da qui parte la ricerca di uno degli storici della Resistenza Italiana fra i più interessanti a mio avviso Claudio Pavone autore del libro “Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza”(Bollati Boringhieri, 1991). Due gli aspetti fondamentali dell’analisi degli antefatti e delle problematiche inerenti la Resistenza: la “scelta” e la “violenza”, assumendo una visione contraria alla “seduzione della violenza” nel nome della “dura necessità”, poiché “La morte arrecata ad altri aggredendolo è parte della cultura fascista, e la morte propria e di quelli della propria parte è un elemento integrante di questa mistica mortuaria”, mentre per i partigiani e l’esercito di liberazione l’essere uccisi era un pegno dinanzi alla propria coscienza dinanzi al diritto che si riconosce di uccidere per il riscatto, per l’Utopia: concedere all’uomo del futuro una possibilità. Insomma due posizioni e conseguenti scelte di campo contrapposte, che si erano sviluppate su un terreno politico privo dei presupposti essenziali per uno scontro nell’agone democratico. Il che ancora una volta dimostra le tesi della stessa Arendt sull’azione politico-culturale quale unico mezzo pacifico e nonviolento nella ricerca da parte del genere umano della “libertà pubblica”(affermazione della politeia, la pluralità) quale vera “felicità pubblica” presupposti questi sì di una vera “rivoluzione”, che perciò deve essere pacificamente attuata con i mezzi della libera crescita culturale, mentre la violenza materiale e psicologica può generare solo violenza. Anche Pavone concorda sul fatto che le donne rivestirono per lo più ruoli non militari nelle file partigiane per l’organizzazione della resistenza alle violenze fasciste e tedesche: dal sabotaggio della produzione nelle fabbriche, negli uffici, nelle scuole e nelle campagne , al rifiuto dei viveri agli ammassi, il che è confermato anche da altri studi presenti nella biblioteca dell’Istituto della Resistenza e presso la Biblioteca Forteguerriana di Pistoia. Nel territorio pistoiese il Gruppo di difesa delle donne nacque ufficialmente nel gennaio del 1944 in località “il Poeta” sulla via Pratese e all’inizio annoverava solo tre elementi: Niccolai Leda, Lulli Alina, Gruni Aladina, anche se pare che già nel novembre fosse operante quello della Società Metalmeccanica Italiana a Campotizzoro(S.M.I), come ho già detto centro importante della Resistenza fin dal ’43 insieme a Mammiano(ferriere) e la Lima(cartiere), le cui coordinatrici erano la Ferretti Pisaneschi e la Fantini Alberta. Non bisogna dimenticare che San Marcello Pistoiese, il centro più importante della Montagna, annoverava già dal 1891 una Società di Mutuo Soccorso la cui sezione Femminile fu inaugurata nel 1918, e a Popiglio erano ammesse fin dal 1896 anche se escluse dall’elettorato attivo e passivo. Inoltre è rilevante il fatto che le donne pistoiesi fin dal 1914 furono protagoniste di scioperi per i quali rischiano il licenziamento e la galera, contro le condizioni inaccettabili imposte ai lavoratori dalla “mobilitazione industriale” pro-guerra, scelta del blocco governativo-industriale che aveva portato ad una diminuzione del potere contrattuale dei lavoratori e l’abolizione de facto del diritto di sciopero. Alla S.M.I le donne più tardi parteciparono attivamente agli scioperi antimilitaristi e contro la riassunzione degli squadristi dell’11-12 agosto del 1943, preparando il terreno alla Resistenza. Furono arrestate e deferite al tribunale militare 6 giovani operaie: Adriana Bizzarri, 16 anni; Vera Castelli, 17 anni; Maria Evangelisti, 18 anni; Paolina Jacopi, 16 anni; Ernesta Lori, 15 anni; Viviana Magni 17 anni, altri 15 operai e 2 giovani, nonché i membri della Commissione Interna. Fu l’armistizio a salvarli. Il compito delle donne dei GdD inoltre era quello di ostacolare il transito dei mezzi tedeschi fornendo informazioni sbagliate, creare azioni diversive, realizzare consegne e in particolare diffondere il dissenso attraverso la propaganda antifascista. Persino la Sardegna, definita da Mussolini “l’Isola refrattaria”, e dove notoriamente non si sviluppò il moto resistenziale anche perché la liberazione giunse rapidamente, vide le donne sarde protagoniste nel promuovere gli ideali antifascisti: Mariangela Maccioni maestra elementare di Nuoro, comunista e autonomista sospesa dal proprio incarico e arrestata nel 1937 perché antifascista, Graziella Sechi Giacobbe, moglie del sardista Dino Giacobbe, e Marianna Bussalai poetessa estemporanea, scrittrice di “Muttos politici” e canti e attivista autonomista di Orani, meglio conosciuta come “Marianedda e sos Battor Moros” giacché a lei si deve la realizzazione della bandiera dei Quattro Mori. La Bussalai nascose presso la sua abitazione Emilio Lussu ricercato dalla polizia fascista. Marianedda, la Maccioni e la Giacobbe diedero vita a quella che fu definita “la triade femminista sardista”. Alcune altre come ad es. la sarda Giovanna Marturano, emigrata con la famiglia nella Penisola, parteciparono dapprima alle lotte operaie e in seguito alla Resistenza(in European Memories, Storie di donne in lotta dal dopoguerra ad oggi-Giovanna Marturano si racconta a Filomenilde Castaldo, Upter – Università popolare di Roma, AA.VV 2005-2006, p. 11), così come molti conterranei di sesso maschile parteciparono alla Resistenza sulle Colline Metallifere toscane, sulle Alpi, sul fronte jugoslavo, albanese e greco(Taviani P.E, I sardi nella Resistenza, in Porcheddu D., TAIM Cagliari, 1997). Bellissimo a questo proposito il III canto di Mario Pinna(C. Groppi, “Se tu vieni quassù tra le rocce… - Partigiani sardi nelle Colline Metallifere Toscane) dal titolo “Cantigu de su soldatu mortu” che riporto di seguito:
…Come so fiore, umbra, àlvure e bentu,
abba ‘e nie, lughe de manzano;
cum sas fozzas de attunzu intro in lamentu,
cum s’àlinu m’ischido in su eranu.
Sa morte est unu sonnu chena ammentu,
sa morte est unu sonnu tantu vanu;
s’erva chi creschet non mi dat cuntentu,
s’erva chi siccat non m’attip piantu.
Passant sas istajones in su chelu,
vivent et morint homines in terra,
eo so su chi fio, chena disizzos.
Naschent et morint rosa set lizzos,
Sa tumba trista su coro m’inserrat,
ma su màrmaru frittu est uno velu.1

Traduzione:
…Ora son fiore, ombra, albero, vento,
acqua di neve, luce di mattino,
con le foglie d’autunno entro in lamento,
con l’ontano mi sveglio in primavera.
La morte è un sonno senza memoria,
la morte è un sonno tanto vano;
l’erba che cresce non mi dà gioia,
l’erba che si secca non mi porta pianto.
Passano le stagioni nel cielo,
vivono e muoiono uomini in terra,
io sono quello che ero senza desideri.
Nascono e muoiono rose e gigli;
la tomba triste il cuore mi chiude,
ma il marmo freddo è un velo.

1 Cantigu de soldatu mortu, III canto, di Mario Pinna,in
IL PONTE, a. VII, n. 9-10, 1951, pp. 1376-77.

Ma appurato che la risposta delle donne alla violenza, e alla guerra in particolare, si differenzia in prima istanza da quella maschile, giova comunque far presente che la violenza fa parte di quella serie di comportamenti sociali specifici e complessi dei quali si sono occupate la neurobiologia e l’antropologia moderne, secondo le quali il comportamento non è definibile geneticamente, perché solo l’aggressività è una predisposizione genetica. La violenza si sviluppa in forme diverse e più o meno evidenti in tutti gli esseri viventi. Infatti le attuali conoscenze dell’espressione genetica e dello sviluppo del cervello, indicano chiaramente che le vie nervose responsabili per il comportamento sociale specifico sono immature o non esistenti alla nascita, e le connessioni specifiche sono definite tra i 7 e i 15 anni, come confermano gli studi sul comportamento infantile di Jean Piaget(Giorgi P.P, Violenza inevitabile-Una menzogna moderna, 2008, Jaka Book, Milano). Saranno dunque le esperienze post-natali a determinare una tale definizione, e lo si può osservare nelle differenze comportamentali fra le varie culture all’interno della specie homo. Da ciò ne consegue che né la teoria di Hobbes (homo homini lupus)né quella di Rousseau(il buon selvaggio)sono accettabili in termini scientifici, perché, nonostante la centralità assunta da tali figure storiche nello sviluppo del pensiero umano e da molte altre(in parte lo stesso Lorenz o il sociobiologo Wilson), i loro sforzi sono stati superati dalle conoscenze scientifiche odierne. Questo è un chiaro esempio di cosa sia la vera forza scardinatrice dei massimi sistemi che la cultura può esercitare sulla società, ma solo se la maggioranza degli individui la detengono e la padroneggiano. Per quanto riguarda l’antropologia due sono le linee di prova per confutare definitivamente la tesi sulla presunta natura violenta degli esseri umani, derivata erroneamente dai fantomatici concetti freudiani di pulsione e istinto, proposti quando non si avevano conoscenze avanzate di neurobiologia e delle scienze umanistiche. La prima è quella dell’Arte Rupestre Preistorica e la seconda è quella del Comportamento Sociale delle Culture dei Cacciatori-Raccoglitori Pre-agricole, studiate all’inizio del secolo scorso, prima che i colonizzatori le eliminassero con il genocidio e la violenza culturale(acculturazione o assimilazione forzata). Su due milioni di reperti di arte rupestre prodotti da homo sapiens durante gli ultimi 40.000 anni, solo una decina possono far pensare che gli esseri umani siano da sempre violenti, e si nota che armi e guerrieri compaiono solo in associazione con le culture neolitiche(stadio finale) legate all’agricoltura e allevamento, nonché all’addomesticamento di animali e piante, che subentrarono a quelle dei cacciatori-raccoglitori del paleolitico e mesolitico. In tre momenti storici distanti tra loro e in aree del mondo diverse, si è verificato l’emergere della violenza strutturale e diretta: Medio Oriente(8000 anni fa circa), Cina Meridionale(6000 anni fa circa)America Centrale(4000 anni fa circa). L’eccesso di cibo avrebbe prodotto l’aumento delle dimensioni degli insediamenti umani, con la conseguente specializzazione del lavoro e la stratificazione sociale, per cui il ristretto gruppo al potere si trovò a dover controllare una massa di sudditi produttori sempre maggiore, e di conseguenza ad imporsi con la forza della tirannide. Fece seguito una guerra sociale, scatenata a prima vista da malintesi fra gruppi di cacciatori-raccoglitori e agricoltori-allevatori. Il che ancora una volta avvalora scientificamente la tesi sulle “Rivoluzioni contro la tirannide”, che la stessa Arendt ritenne la vera piaga dell’umanità di tutti i tempi, ed è per questo che ci esortò a “Pensare ciò che facciamo”(La vita activa. La condizione umana, 1958), concetto espresso anche da Simon Weil nel saggio “Iliade. Poema della forza”(1939). Culture arcaiche ma già di tipo agro-pastorale, che testimonierebbero dunque il passaggio dalla società preagricola a quella agricola e dell’allevamento, e perciò al confine fra preistoria e storia, quella che Carlo Levi parlando del meridione d’Italia e in particolare della Sardegna, definì la “contemporaneità dei tempi” agli albori della civiltà, in presenza di uomini, come è stato ad esempio per i sardi fino agli anni ’70, per cui la terra e il cielo erano ancora vissuti come estensioni della propria pelle, per i quali la parola parlata, per durare nel tempo si ancorava ai metri e le rime delle ottave e delle quartine e al canto, senza imbrattar carte. Per questi infatti solo la sapienza indirizzata al bene comune poteva dare lustro e innalzare un uomo all’altezza degli dei, e non certo l’irrazionale vendetta o la guerra fine a sé stessa. Solo atti vessatori potrebbero aver portato dunque alla logica della guerriglia di difesa, e aver scatenato la violenza e la vendetta fra popoli, limite stesso contro il quale si scontra la razionalità storica, perché la violenza non è mai giustificabile(D. Pick, “La guerra nella cultura contemporanea”, Laterza, 1993). Assunto etico questo alla base del diritto, senza il quale non esisterebbe la nostra società, e non sarebbe stato possibile fondare un organismo giuridico come la Corte Internazionale per i Crimini di guerra e contro l’umanità. La controprova di queste tesi sono gli stessi studi etno-antropologici sui Kung San(i boshimani del Kalahari), gli aborigeni australiani e altre varie culture nonviolente preagricole del globo, documentano che i popoli neoprimitivi vivevano organizzati in strutture sociali non gerarchizzate(piccole bande di non più di 100 individui), i quali si conoscevano personalmente. Essi condividevano cibo, risorse, sapere scientifico e spirituale, raggiungendo così un elevato grado di empatia. Grazie a ciò praticavano la prevenzione della violenza come soluzione delle controversie sociali. Non c’era guerra tra bande o gruppi linguistici diversi. Dunque neurologia, archeologia e antropologia concordano pienamente. Proprio come pensava l’altra grande pensatrice di origine ebrea del ‘900 Edith Stein, allieva di Husserl, che dopo la sua conversione al cristianesimo divenne suora carmelitane. Vittima della Shoà morì ad Auscwitz nel 1942. Per la Stein la comunicazione è la spinta a riunirsi in società da parte degli esseri umani. Essa muove da una sentimento “empatico” di condivisione del sapere e del sentire, cioè dal “cogliere l’esperienza di soggetti altri da noi e del loro vissuto”, un rispecchiarsi nell’altro, che da luogo alla presa di coscienza della diversità e all’autocritica, e si attua non solo a livello della coscienza ma anche a livello spirituale. Ciò porta a cogliere il mondo ideale e i valori che sono alla base della vita spirituale dell’altro. La genetica pone su ciò un veto definitivo. Infatti, secondo i ricercatori, negli ultimi 50.000 anni il patrimonio genetico dell’uomo non è mutato, a causa del continuo rimescolarsi dei geni delle popolazioni che si sono spostate, e ancora si spostano sul pianeta. Per lo stesso motivo risulta altresì improbabile che la specie umana “Homo Sapiens” possa evolversi biologicamente anche nel futuro. Certamente potrà cambiare culturalmente, come ha già fatto peraltro 160.000 anni fa(Herto, Etiopia), ma la cosa interessante, al di là ed entro i confini dell’intricata questione paleontologica, sta nel fatto che con la comparsa in Africa di homo sapiens avvenuta già molto tempo prima, 250.000 anni fa circa, sia avvenuta una rivoluzione nel meccanismo della logica, nel modo di pensare, nella capacità di astrazione e sintesi che non ha paralleli, né nelle precedenti tappe evolutive umane, né delle altre specie animali(Per una semiotica dell’arte primaria”, E. Anati. Da queste acquisizioni ha il via lo sviluppo del “linguaggio visivo” (in parallelo a quello verbale, una “lingua madre mondiale diffusasi con il suo fruitore), attraverso il quale l’uomo esprime e comunica la propria visione del mondo in reazione e relazione con esso. Perciò il suo studio e decodificazione sono indispensabili per comprendere il sistema cognitivo e con esso l’originaria natura umana. Una medesima logica, una stessa struttura di associazioni d’idee, uno stesso simbolismo universale sottendono all’essenza mentale dell’homo sapiens, le cui impronte sono presenti in più di 160 paesi del mondo. Questa l’autentica e unica Rivoluzione compiuta dalla specie Homo in milioni di anni. Quelli archetipi comuni ci portano a scoprire un filo conduttore dentro di noi(meccanismi del sistema associativo) che solo ci può ricondurre alla logica primordiale(E. Anati). Infatti secondo gli studi sull’arte rupestre, unica traccia dei sistemi linguistici e di comunicazione primitivi, anche se un ideogramma in associazione ad un pittogramma esprime un “idea” non è detto che questa sia da noi oggi automaticamente decifrabile. Anati fa l’esempio della colomba con il ramoscello d’olivo di Picasso “La colomba della pace”(Capella di Vallauris), che per noi iniziati al cristianesimo ha un significato chiaro e ineludibile, il che però non vale per molti popoli tribali pacifici che non hanno mai conosciuto la guerra. Altro significativo esempio è quello del suo studio sulle statue steli della Lunigiana in particolare quelle maschili, che lo ha portato a conclusioni che deviano dalla prima ipotesi associativa: Uomo+pugnale o ascia=guerriero della Lunigiana. Non capi guerrieri ma semplicemente antenati-divinizzati, i cui simboli cultual erano il pugnale e l’ascia, ma non possiamo sapere, soprattutto peri primi due tipi(Neolitico Recente, III-II millennio a.C) se effettivamente fossero anche guerrieri. Si capisce dunque quanto sia importante la semiotica di quel passato primordiale ai fini di una ricostituzione scientifica e riappropriazione non solo della nostra storia ma anche e soprattutto della nostra vera natura di esseri umani, da cui ci separano ormai migliaia di anni di civilizzazione, che come un grande labirinto ci deviano da essa. Quei segni archetipi appartengono ad un sistema avulsi dal quale perdono di significato. È questo che s’intende quando parliamo della ricerca del “sommerso”, la verità di fondo alla base del nostro essere uomini e della nostra evoluzione culturale in senso di reale progresso nonviolento. Sta di fatto, dunque, che se l’arte è testimonianza delle capacità intellettuali dell’uomo fin dai primordi, ed esprimendo un modo grafico di ragionamento lo comunica, allora quella carica di energia positiva nonviolenta che gli artisti hanno trasferito nelle loro opere può arrivare a noi ancor oggi e trasformarci nel profondo del nostro animo. Ma allora la cultura nonviolenta ci può davvero salvare, e un giorno come i bambini dei Kung San anche i nostri figli diranno di non conoscere la parola Pace, ma solo perché non avranno mai sentito parlare di guerra.
“Quando ti portavo nel mio grembo…dicevo: l’essere che porto giunge in un mondo malvagio./…colui che porto deve dare il suo contributo perché il mondo diventi finalmente migliore./E vennero a prendere suo padre per la guerra, e non è tornato a casa./ Colui che porto, dicevo, farà in modo che a lui non accada./Pane e un sorso di latte sono vittorie/…Ma se lottando, piccolo mio,/ti ho fatto grande allora ho conquistato qualcuno/che lotta con noi e vince./…dobbiamo stare uniti e ottenere/ che in questo mondo non esistano più due specie di uomini”
(Bertolt Brecht, Wiengenlieder, 1932)

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