Economia

1848 e l’occhio d’aquila

22 dicembre 2011 - Rodrigo Rivas

Nell’Europa del 1848 la “primavera dei popoli” mise in crisi l’insostenibile restaurazione assolutista decisa dal Congresso di Vienna. Nel 2011 è il capitalismo neoliberista, e lo stesso capitalismo senza aggettivi, a dimostrarsi insostenibile. Non si sa cosa lo succederà, ma dovrà essere comunque diverso poiché lo stress al quale questo sistema sottopone la popolazione e il pianeta è sempre più insopportabile.
Accaparrando il potere, la ricchezza e i privilegi, la piccola casta, diciamo l’1%, che nell’ordine assolutista adotta decisioni ingiuste e sbagliate per il 99%, ci porta al disastro e ci costringe a constatare l’impotenza dei politici e le istituzioni nazionali. Se il potere e le decisioni sono da un’altra parte, comunque non eletta, votare o meno è lo stesso. Probabilmente, perché se il voto cambiasse davvero qualcosa sarebbe già stato vietato, la ribellione diventa una necessità.
La frode della somiglianza
Scrivo il giorno dopo la presentazione della “manovra Monti”, ed Ezio Mauro, direttore di “Repubblica”, scrive (“Il sentiero stretto”, 5 dicembre 2011): “Dunque tasse, come sempre, per far fronte all’emergenza. Ma anche qualche spazio per l’equità”. Ovviamente, il suo “occhio d’aquila” gli permette di vedere “spazi per l’equità”.
Indubbiamente l’immagine visiva del neogoverno, un bel e composto consiglio di amministrazione, è assai preferibile all’immagine dei consigli di ministri di dubbia moralità andati in onda fino a poche settimane fa. Vedendolo, mi è venuto in mente l’altrettanto elegante Bernard Madoff, protagonista di un classico della “frode di somiglianza” basata nella massima “guadagnarsi la fiducia di molti è possibile se si è uno di loro” o, nel nostro caso, “se sono come vorremmo essere”. Nel caso, grazie alla somiglianza Madoff truffò ricchi esponenti della comunità ebraica statunitense per oltre 50 miliardi di dollari, tre volte la truffa Parmalat.
Con il riferimento a inesistenti “spazi di equità” si cerca di ottenere che il 99% della popolazione, pur condividendo istintivamente le ragioni della ribellione, non osi praticarla e neppure appoggiarla, poiché chi protesta non è come loro mentre, viceversa, lo sono i plutocrati. E’ talmente assurdo che si potrebbe commentare con un semplice “vaffa”, ma ha funzionato molte volte nella storia in forme diverse. Oggi, ad esempio, si può dire che chi protesta è irragionevole o violento, o che si veste male (“Sono degli hippyes”, afferma la stampa statunitense degli Occupy Wall Street). Mario Monti, Corrado Passera o Elsa Fornero sono invece dei signori, sono ricchi, sono professori, sono competenti, sono disinteressati (il capo del governo, ad esempio, s’accontenta del solo stipendio di parlamentare, circa modesti 30.000 euro complessivi al mese), e sono persino compassionevoli: “Le lacrime della Fornero”, intitola sempre l’indomani il citato quotidiano,. Mi ricorda un racconto del vecchio prete lucchese-brasiliano Arturo Paoli: “E’ curioso: spesso, quando ti trovi da solo con un funzionario del FMI, questo piange, sopraffatto dalle ingiustizie che la sua «religione» lo costringe ad imporre ai poveracci” (Francesco Comina, “Qui la meta è partire”, Meridiana 2005).
Il potere deve essere finanziario
Se una cosa avviene due volte, è una coincidenza. Tre sono una constatazione.
In Grecia, il nuovo capo del governo, Lucas Papademos, ha sulle spalle 8 anni di vicepresidenza della BCE e altri 8 come governatore della Banca Centrale greca. In Spagna, Pedro Solbes, ex ministro delle finanze, è alla Barclays e Carlos Ocaña, ex ministro del Tesoro, a Funcas, la fondazione delle casse di risparmio. In Italia, Mario Monti è atterrato a Roma dopo 6 anni di consulenza alla Goldman Sachs. Il suo vice, Vittorio Grilli, era dirigente di Credit Suisse First Boston Group. Il suo ministro di economia, Corrado Passera, capo della banca Intesa-Sanpaolo.
Dal maggio 2010, data del primo riscatto greco, ex banchieri o gestori di fondi sono diventati ministri di Economia, delle Finanze o capi delle rispettive banche centrali, in Portogallo, Danimarca, Svezia, Lettonia e in almeno in 14 dei 27 paesi della UE. In Belgio, Karel Van Miert ex commisario europeo alla concorrenza era dirigente della Goldman Sachs, come il tedesco Ottmar Issing, poi presidente della Bundesbank e membro del Consiglio di amministrazione della BCE. In Irlanda, sono al governo Peter O’Neill, ex presidente della Goldman Sachs Asset Management, e Peter Sutherland, ex presidente della Goldman Sachs Internacional. In Inghilterra, Desmond Swayne, portavoce del primo ministro per i Parlamento, viene dalla Royal Bank of Scotland; Francis Maude, segretario alla Presidenza, dalla Solomon Brothers e Morgan Stanley; Andrew Mitchell, ministro per lo sviluppo Internazionale, dalla Lazard; James Meyer Sasson, dirigente del Tesoro, dalla UBS Warburg, Stephen Greene, direttore del Commercio e Investimenti dalla HSBC. In Lettonia, che applica il più draconiano piano di aggiustamento europeo per pagare le banche svedesi, i due ministri economici provengono dalle banche svedesi Seedbank e SEB.
Nella UE, con la simbiosi tra governanti e finanze dirigenti del settore finanziario occupano posizioni politiche di primaria importanza e, viceversa, governanti che si sono occupati della crisi diventano finanzieri. Succede, ad esempio, con almeno 4 commissari della Commissione di Jose Manuel Durao Barroso fino al febbraio 2010: Meglena Kuneva passata dalla Protezione del Consumatore a BNP Paribas; Louis Michel dalla Cooperazione a Credimo; Günter Verheugen dall’Industria e Imprese alla Royal Bank of Scotland e la tedesca BVR, Charlie McCreevy, dal Mercato Interno (che doveva regolare i derivati finanziari), alla Bank of New York Mellon.
Mentre a capo della BCE c’è l’ex vicepresidente della Goldman Sachs, Mario Draghi; a capo della Banca Mondiale c’è Robert Zoellick, arrivato dalla Goldman Sachs; nel FMI Christine Lagarde ha nominato come numero due David Lipton, ex dirigente di City e Moore Capital. Negli USA, Henry Paulson, ex presidente della Goldman Sachs, è ministro del Tesoro; William C. Dudley, ex dirigente di Goldman Sachs, è presidente della Federal Reserva di New York; Bill Daley, ex dirigente di JP Morgan Chase, è capo gabinetto di Barack Obama e, dal novembre 2011, Mark Carney, ex dirigente della Goldman Sachs, è a capo della task force nominata dal G-20 per riformare il sistema finanziario mondiale … Eccetera.
Nel 1822, il fondatore del positivismo, Auguste Comte, scriveva: “La democrazia si fondamenta su astrazioni come la sovranità popolare o l’uguaglianza dei diritti che non coincidono con l’osservazione scientifica della società e delle leggi che la governano e fa parte delle idee appartenenti allo stato metafisico”. Nel 1851 aggiungeva: “La gerarchia sociale degli imprenditori si evolve dagli agricoltori ai fabbricanti, da questi ai commercianti per ascendere infine ai banchieri, fondandosi ogni classe in quella precedente. Così, le operazioni più indirette affidate ad agenti più selezionati e meno numerosi richiedono concezioni più generali e astratte, nonché una maggiore responsabilità. Per questo motivo, in ogni repubblica specifica il governo propriamente tale, ossia il supremo potere temporale, apparterrà naturalmente ai tre principali banchieri” (da “Plan des travaux scientifiques nécessaires pour réorganiser la société”, e “Catéchisme positiviste”). Nel 2011 si potrebbe affermare che lui si che aveva l’occhio d’aquila.
Le reali cause della crisi
Appena un anno fa, lo Stato italiano pagava il 4% d’interesse per i suoi buoni pubblici (a 10 anni). Oggi paga il 7,7%, pressoché il doppio. Mark Weisbrot, condirettore del Center for Economic and Policy Research (The Guardian, 9 novembre 2011), calcola che il costo per rifinanziare il debito pubblico italiano nel 2012 equivarrà al 1% del PIL (15 miliardi di euro). A ciò si aggiunge che lo Stato italiano è stato costretto a ridurre il suo disavanzo ad un massimo del 3% del PIL nel 2013 (per la pazzia diffusa del cosiddetto pareggio di bilancio). Poiché il costo di queste politiche (pagare gli interessi e ridurre il debito) colloca il paese in una situazione difficilissima, i signori mercato - che non sono personaggi mitologici ma sono le banche d’investimento, le assicurazioni, i fondi pensione ed i fondi speculativi che acquistano e vendono essenzialmente valute, azioni, buoni statali e prodotti derivati per 3.450 miliardi di euro annui, 75 volte ciò che produce l’economia reale, ossia beni e servizi, 45 miliardi di euro annui - temono che lo Stato non riesca a farlo. Per di più, il governo intende implementare misure di forte austerità sulla spesa pubblica. La BCE esige un governo forte per imporre tagli sul welfare (sanità, pensioni, scuola, politiche sociali) e la troika (BCE, Commissione Europea, FMI) condiziona l’acquisto di debito pubblico sui mercati secondari alla esecuzione di politiche rivolte a ridurre i salari che, secondo il loro proverbiale occhio d’aquila, aumentando troppo negli ultimi anni hanno diminuito la competitività dell’economia italiana.
I dati smentiscono questa analisi. Secondo Eurostat, l’agenzia Statistica della UE, il costo del lavoro in Italia non è aumentato in confronto a quelli tedeschi (la Germania è sempre presentata dalla BCE come modello da seguire): era un 80% del costo del lavoro tedesco nel 1997 e lo era nel 2007, allo scoppio della crisi. Il giornalista inglese John Weeks scrive: “Lo stereotipo in base al quale i lavoratori del sud di Europa sono degli scansafatiche che costano troppo, come è stato detto per Grecia, Portogallo, Spagna e Italia, è ampiamente promosso dai circoli finanziari e imprenditoriali della Eurozona. In verità, i lavoratori italiani lavorano più ore (38 alla settimana) dei tedeschi (35,7 ore), guadagnano di meno e sono molto meno garantiti” (“Breaking news: the Working Class caused the Italian Crisis” “Social Europe Journal”, 10 novembre 2011). Ma i dati non hanno mai frenato la riproduzione dell’ideologia neoliberista che continua imperterrita a promuovere come necessario che i governi prendano decisioni dure e impopolari per salvare l’economia. A sentire alcuni dirigenti politici italiani come, ad esempio l’on. Casini, pare di capire che più saranno dure e impopolari, maggiore sarà la loro efficacia per risolvere il debito pubblico e la recessione.
Chiunque dotato di un minimo di capacità analitica o di osservazione può vedere che le cause della lenta crescita economica non derivano dalla (falsa) esuberanza dei salari, ma dalle politiche dello establishment finanziario e politico della UE e italiano.
La prima causa è la mancanza degli strumenti che permetterebbero che lo Stato possa difendersi dalla speculazione dei mercati finanziari. Lo Stato italiano non può stampare denaro, ma il solo che può farlo è la BCE, che lo fa protestando sempre all’ultimo minuto, tra le lagne della banca tedesca. La BCE potrebbe, e dovrebbe, segnalare esplicitamente che non permetterà che gli interessi sul debito pubblico superino una cifra determinata. Non lo fa e, di fatto, le sue regole interne non glielo permettono. Tra luglio 2010 e novembre 2011, pressata dagli Stati della eurozona la BCE ha acquistato 252 miliardi di euro di buoni, da confrontare con i 2.000 miliardi di dollari acquistati ufficialmente dalla Federal Reserve Board, la Banca Centrale statunitense (ufficialmente perché, secondo un articolo pubblicato dalla rivista statunitense “Bloomberg Markets il 2 dicembre 2011, la Fed ha impegnato 7.770 miliardi di dollari tra 2007 e 2009 per sostenere le banche senza nemmeno informare il Congresso statunitense).
Un’altra causa sono le stesse politiche di austerità imposte dalla BCE che riducono la domanda domestica, rallentano l’attività economica e creano la recessione che, se persistono, sboccherà nella Grande Depressione. E’ ciò che è avvenuto in Grecia e avviene in altri paesi. L’idea di uscire dalla recessione con politiche di austerità è profondamente sbagliata e esprime, oltre alla profonda intensità del dogma neoliberista tra i nostri professoroni, una seria ignoranza sulle forme e politiche con cui sono state storicamente risolte recessioni e depressioni economiche. L’argomentazione in base alla quale l’austerità farà ritornare la fiducia nei mercati è falsa e facilmente dimostrabile con l’analisi dei dati. I disastro della Grecia è solo l’ultimo di un lungo elenco di disastri provocati dal dogma neoliberista.
Un’altra causa risiede nel fatto che la borghesia italiana e molto particolarmente quella finanziaria (ben rappresentata da Draghi) ha ridotto enormemente le risorse a disposizione dello Stato italiano con politiche fiscali regressive, la frode e la corruzione transitata da problema individuale a sistemica, come dimostra la cronaca di questi giorni. Come in Grecia, i ricchi non pagano tasse, e ciò avviene con la partecipazione attiva della banca ed i suoi paradisi fiscali e la complicità dello Stato. E’ questo ciò che ha provocato l’alto indebitamento dello Stato, non le spese per la disabilità, beneficiando soprattutto le banche italiane, tedesche e francesi, che lucrano con gli alti interessi del debito pubblico italiano. Diminuendo le tasse per i redditi più alti, lo Stato italiano ha creato il buco dei suoi conti riempito chiedendo denaro in prestito, con interessi elevatissimi, agli stessi ricchi ai quali ha regalato il denaro tramite la diminuzione delle tasse. Era e rimane un circolo non vizioso ma profittevole per la grande borghesia italiana. Ciò senza dimenticare la grande debolezza delle sinistre italiane, le cui formazioni egemoniche si sono indebolite enormemente quando hanno incorporato le ricette neoliberiste creando una enorme distanza tra le loro basi elettorali e le direzioni dei partiti, distanza responsabile della loro evidente incapacità di mobilitazione nei confronti del recente governo del bunga-bunga mandato casa solo per una imposizione della BCE.
Il caos sistemico e la musica delle sfere
Nel dicembre 1997, il direttore di “Le monde diplomatique”, Ignacio Ramonet scriveva: “La mondializzazione finanziaria ha creato il suo Stato proprio. Un potere senza società. Questo ruolo è esercitato dai mercati (...) Le società realmente esistenti sono società senza potere. E tutto questo si aggrava in continuazione”. (“Disarmate i mercati finanziari”).
La crisi del debito pubblico europeo può incidere su scala globale poiché la globalizzazione ha articolato tutti i mercati. Se la eurozona entra in recessione per le politiche di austerità, il consumo si depotenzierà ulteriormente. Ad oggi, in Europa ci sono ufficialmente 23 milioni di disoccupati e 80 milioni di poveri, che non consumano. Se si fermano i due motori mondiali, gli USA e la UE, tutti e due minacciati da recessione, la Cina, il cui ritmo di crescita è già diminuito, produrrà di meno. Se la Cina diminuisce le sue importazioni, oltre a lasciare come clienti della Germania la sola popolazione marziana diminuirà le sue importazioni di materie prime, dai minerali che acquista in Perù e Cile ai prodotti agricoli che compra in Brasile e Argentina, e anche questi paesi smetteranno di crescere. Con queste politiche, quindi, nel 2013-2014 potremmo trovarci davanti ad una recessione globale.
Oggi però, la domanda è: se la recessione si prolunga in Europa, fin dove le società europee supporteranno la purga alla quale sono sottoposte? Quanto crescerà la estrema destra, quanto la protesta sociale? Perché la storia non si arresta, i mercati hanno deciso di prendere il potere attraverso il golpe di Stato finanziario in corso. In Grecia e Italia, sono state messe al governo un gruppo di persone che ha lavorato direttamente per Goldman Sachs e compagnia.
In questa situazione è obbligatorio continuare a difendere l’idea che altre soluzioni sono possibili stimolando la crescita con denaro pubblico, ossia facendo esattamente il contrario di ciò che la manovra Monti propone. Mettere in piedi politiche anticicliche - pur difficili da adottare nell’attuale contesto – è la sola strada per evitare la catastrofe. Gli eurobond potrebbero essere una soluzione temporanea alla crisi del debito, ma a condizione di vietare gli hedge funds (fondi ad alto rischio), tassare le transazioni finanziarie, chiudere i paradisi fiscali. Il guaio è che tutto ciò sembra impossibile per una moneta come l’euro, la sola al mondo non sostenuta da un’autorità politica.
Considerando l’insistenza dei media sul fatto che non c’è alternativa alla linea dell’ortodossia neoliberista, è possibile che una parte della società, impaurita dal caos, accetti la necessità dei tagli. Ma cosa succederà quando non succeda nulla, quando si verifichi che i sacrifici non mettono fine alla crisi? L’austerità per sempre è concettualmente impossibile, ma perché la sola preoccupazione dei “signori mercato” è arraffare quanto possibile nel più breve tempo possibile, la speculazione può distruggere il sistema. Poiché la natura non supporta il vuoto, nascerà altro. Che si meglio o peggio dipende dall’attività cosciente delle popolazioni e dai soggetti politici.
Il caos diffuso configura un periodo in cui la crisi e l’impotenza dei potenti lasciano spazio alla libertà di ognuno, alla possibilità che chiunque possa influenzare il futuro con la propria azione individuale. La crisi sistemica alla quale assistiamo è un momento storico in cui, contemporaneamente, tutto è possibile e nulla lo è. Per taluni, è la fine di un’interpretazione del mondo dominante, quindi un momento storico in cui nulla è possibile. Per altri, è la fine di un mondo e di un uomo noti ma, anche, l’apertura ad un altro mondo e a qualcosa in più dell’uomo che conosciamo, quindi un momento in cui tutto è possibile, pieno di pericoli ma, anche, di possibilità.
In “Il pianeta degli slum” (Feltrinelli 2006), l’urbanista statunitense Mike Davis scrive: “Il caos non sempre è una forza maligna. Uno dei problemi fondamentali è che, quando tanta gente lotta per avere un posto di lavoro e ritagliarsi un suo spazio, la forma ovvia di regolarli passa per il sorgere di padrini, capi tribali, leader etnici, tutti i quali operano in base a principi di esclusione etnica, religiosa o razziale. Ciò tende a creare, tra gli stessi poveri, guerre che si autoperpetuano, guerre quasi eterne (…) Nella stessa città povera può ritrovarsi una molteplicità di tendenze contraddittorie che spaziano da chi adora il Fantasma Sacro a quelli che si uniscono in bande, formano parte di organizzazioni sociali radicali o diventano clienti di politici settari o populisti”.
Nel 1946, René Magritte scriveva: “Il pensatore sfortunato ha paura delle tenebre dell’infinito, un altro ascolta la musica delle sfere” (“Manifeste N° 1”, in “Manifestes et autres écrits”, Les Lèvres Nues, Bruxelles).

R. A. Rivas
Città di Castello, dicembre 2011

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