Il Mare Mediterraneo: lago di Tiberiade o acque di morte? La guerra, l’accoglienza, la pace.

Convegno Caritas Diocesi di Milano
Villa Sacro Cuore – Triuggio
11 settembre 2011
Giovanni Giudici

La riflessione che condivido con voi nasce immediatamente dalla necessità di stare da credenti di fronte al continuo dramma che coinvolge il nostro Paese interpellato dal flusso di uomini, donne e bambini che ininterrottamente giungono nella nostra terra, in particolare nelle regioni vicine alle coste africane. Si tratta di un cammino sulle acque del mare Mediterraneo di cui sentiamo parlare solo in riferimento ai numeri e agli incidenti clamorosi che ne derivano.
Occorre reagire all’assuefazione alle notizie che si susseguono e domandarci se questi fatti ci invitino ad entrare con realismo cristiano nella formulazione di un nostro giudizio sul fenomeno a cui stiamo assistendo.
Intendo dunque procedere nel nostro discorso con tre passaggi che prendono in esame:
la prospettiva cristiana da cui porre la questione della pace nel Mediterraneo; la rivolta che ha infiammato il Nord Africa per tenere desta la coscienza dei drammi di cui siamo ‘testimoni colpevoli’; la domanda: c’è un percorso educativo che ci consenta di stare da credenti entro il dramma di tante sorelle e fratelli e più ampiamente, è possibile che una realtà come la Caritas e la Chiesa italiana possano compiere qualche passo positivo per contribuire a uscire dalla drammatica situazione in cui ci troviamo?

1 La prospettiva con cui leggere la nostra situazione.

Il titolo della mia riflessione riprende una immagine che è riferimento ideale e preziosa indicazione di percorso ricavata da una lettera di Giorgio La Pira a Pio XII nel 1958 in cui lo statista sollecita il Papa ad una particolare attenzione al dialogo mediterraneo. ... il Mediterraneo «il lago di Tiberiade» del nuovo universo delle nazioni: le nazioni che sono nelle rive di questo lago sono nazioni adoratrici del Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe; del Dio vero e vivo. Queste nazioni, col lago che esse circondano, costituiscono l'asse religioso e civile attorno a cui deve gravitare questo nuovo Cosmo delle nazioni.
...E praticamente cosa fare? Cosa deve fare l'Italia cristiana? Preoccuparsi (con la preghiera, con la meditazione e con l'azione prudente, ma intelligente e a «largo respiro») della «unificazione», della convergenza, di queste nazioni mediterranee: svolgere la propria azione politica, economica, culturale, sociale (religiosa) ecc. in vista della costituzione di questo «centro» del nuovo universo delle nazioni: in vista della costituzione di questo punto di attrazione e di gravitazione delle nazioni: perché da Oriente e da Occidente le nazioni «vengano a bagnarsi» in questo grande lago di Tiberiade, che è, per definizione, il lago di tutta la terra.
L’intuizione ha dato l’avvio, negli anni ’50, a interessanti iniziative che avevano coinvolto i sindaci delle città affacciate sul Mediterraneo. Vorrei oggi riprendere la sollecitazione per operare una sorta di esegesi delle notizie della nostra cronaca. Noi credenti in Cristo siamo partecipi del movimento posto nella storia da Gesù; crediamo infatti nella sua incarnazione, e il percorso da lui compiuto nella storia degli uomini trascina con sé anche noi. Siamo in grado quindi di vivere gli avvenimenti umani accompagnati in esse dal Signore Gesù, che ci ha uniti a sè per vivere la sua stessa vicenda.
Scegliamo, come La Pira, il brano evangelico del racconto di Gesù sulle rive del lago di Gennezaret come riferimento interpretativo della nostra esegesi.
Se la Resurrezione di Cristo è vera (ed è vera), se è vera (ed è vera) tutta la Rivelazione (Antico e Nuovo Testamento), se Pentecoste (epperciò, la fondazione della Chiesa) è vera (ed è vera), allora la storia totale del mondo (cioè della Chiesa e dei popoli di tutta la terra) ha un senso, una direzione ed una finalità ben definita: Cristo è l'alfa e l'omega, il principio e la fine della storia totale del mondo: la storia attua un disegno che ha Cristo come causa efficiente, causa esemplare e causa finale! 
La storia del mondo è cristocentrica: a questa conclusione non si sfugge -la storia è la biografia di uno, di Cristo, dice Fornari -.
Dunque conduciamo la riflessione per punti:
La storia è storia di salvezza: “Nella pienezza dei tempi…”; si svolge in un luogo preciso: su un lago singolare sprofondato a 180 metri sotto il livello del mare, soggetto a fenomeni atmosferici inattesi; in un contesto umano complesso: con paesi abitati da ebrei, pescatori e mercanti.
Come si muove Gesù? Opera la redenzione, scacciando i demoni, vincendo contrasti e contrapposizioni, agendo con creatività, alleviando malattie, solitudini, fame e ignoranza, confrontandosi con il male, promuovendo condizioni di giustizia e di contrasto con l’egoismo.
L’elemento simbolico presente nella situazione descritta è l’acqua che può separare o unire.
In un primo tempo l’acqua separa, ma il suo destino, nella storia dei popoli, è quello di unire. Paradossale ma reale: quando la conoscenza pone in mano all’uomo la tecnica del navigare, l’acqua frappone meno ostacoli di un bosco, di una montagna. E la nostra storia, nel mare Mediterraneo, si è mossa in questo senso: i siro/punici, i greci, i romani, gli arabi, i saraceni, gli ottomani; quindi la contrapposizione di cui sono testimonianze le ‘guerre dei Franchi’, come venivano chiamate le Crociate, prima dell’uso ideologico che ne è stato fatto dai terroristi.

2 La crisi attuale.

Ricordiamo le cause remote e recenti che l’hanno prodotta.
Tra le prime riconosciamo anzitutto le antiche abitudini ‘eurocentriche’ di conquista e di utilizzo delle terre del continente africano. Dopo il vuoto lasciato dall’impero Ottomano, ecco l’ingresso delle nazioni europee con diverse modalità di conduzione politica ed economica: il regime di protettorato per l’Egitto, la tremenda esperienza della riduzione a ‘territorio metropolitano’ per l’Algeria, e tutta una gradazione intermedia di condizioni di soggezione. Successivamente siamo posti di fronte alle nazioni della sponda sud del Mediterraneo con la persuasione che valesse la pena di sostenere regimi dittatoriali anche islamisti, perché non andasse perduto il territorio strategico o ricco di risorse. La caduta del muro di Berlino consente l’ampliarsi della globalizzazione dell’economia mondiale e il Mediterraneo diviene la “nuova frontiera” tra mondo sviluppato e mondo sottosviluppato, tra civiltà occidentale e civiltà “altre”, tra cui innanzitutto quella arabo-musulmana. L’insoluto conflitto israelo/palestinese continua a condizionare la geopolitica dell’intera regione mediterranea. Alla lealtà verso il mondo ebraico, tanto dimenticato e conculcato in tempi recenti, dovrebbe sempre fare da completamento un interessamento leale e fattivo per la condizione del popolo palestinese, di fatto stretto tra la violenza delle forze politiche, più spesso fazioni che partiti, e la decisione di Israele di difendere a qualunque prezzo, umano ed economico, la sicurezza dei suoi cittadini. Talvolta persino le ideologie più estreme, quasi razziste, sono professate da alcuni politici e cittadini. La logica mercantile dell’occidente continua a ridurre gli investimenti alle iniziative locali a favore di mezzi e di finanziamenti che vengono indirizzati all’economia globalizzata. La ricerca delle risorse energetiche, la vendita di prodotti dei paesi industrializzati fanno sì che gli operatori economici locali siano espropriati delle loro produzioni. Non dimentichiamo che la rivolta in Tunisia incomincia proprio con il tragico gesto di Mohamed Bonazizi, venditore ambulante a cui la polizia locale ha distrutto la mercanzia.

Tra le cause prossime individuiamo i seguenti fattori.
I mezzi di comunicazione di massa hanno collegato strettamente tutti i popoli e in particolare hanno consentito che l’immagine del benessere, di cui può godere una parte relativamente piccola del Pianeta, sia a portata degli occhi, e quindi del cuore degli abitanti la sponda opposta del Mare Mediterraneo . Vedere un mondo bello e ricco ha già un fascino, vedere da vicino un mondo di sogno, sia esso una possibilità concreta o una cartolina inventata, continua a produrre quell’esperienza, che avevamo fatto in occasione degli sbarchi dall’Albania. La comunicazione tecnologica consente di vivere virtualmente un avvenimento e addirittura di renderlo planetario. Si sono affacciati alla ribalta della storia i social network i quali hanno caratteristiche note: multimedialità, facilità d’uso, possibilità per l’utente di inserire contenuti e di renderli visibili. L’incrocio fra questi nuovi media e le tecnologie mobili –smart phone, I- pad- ha steso una rete quasi globale sulla società civile. E’ cronaca di questi anni, come i social network hanno rivelato informazioni, hanno insegnato ai manifestanti ad affrontare le forze di sicurezza, hanno convocato folle nelle piazze. Si rimane colpiti e pensosi nel seguire le modalità della crescita della coscienza di uomini e donne che imparano ad affrontare le strutture ingiuste e le pratiche violente delle autorità per rivendicare la dignità anche di una singola persona conculcata. Si incomincia nel 2005 in Egitto con il movimento Kefaya («abbastanza») contro la rielezione anticostituzionale di Mubarak; si continua con il sostegno ad uno sciopero di operai, schiacciato dalla violenta reazione della polizia, nel 2008. Dall’esperienza egiziana si passa alla Tunisia, dove uno sciopero di operai e un movimento simile a quello egiziano, richiama l’azione popolare di presenza e di sostegno. Da qui si va in Serbia, dove un gruppo Otpor, attivo contro Slobodan Milosevic, da vita ad un’esperienza di resistenza non violenta. Questo gruppo insegna ai movimenti egiziano e tunisino le tecniche di resistenza alla polizia e la pratica di uso dei social network. E poi si ritorna in Egitto, per mostrare la brutalità della polizia nel caso concreto di un attivista ucciso. La censura e l’oscuramento dell’accesso a internet hanno provocato la reazione della gente che si è riversata nelle piazze per capire che cosa stava succedendo. Un aspetto importante rimane, oggi e soprattutto domani, la condizione dello sviluppo demografico. Basta pensare che oggi i cittadini egiziani sono 80 milioni, e tra 20 o trenta anni saranno addirittura il doppio. Questo fatto innesca una pressione continua che esige di essere liberata. La ricerca di una maggiore partecipazione alla vita civile conduce giovani e ragazze istruiti e senza prospettive ad attuare una mobilitazione in cerca di dignità e libertà. Non si tratta dunque di una ‘rivolta del pane’, ma di una esigenza più profonda e decisiva, sia per l’età di chi la manifesta, sia per le richieste alte e significative che vengono gridate e sostenute dalla gente.

3 Abitare la storia da credenti

Dobbiamo cercare una prospettiva da cui collocarci per comprendere da credenti il tempo che stiamo vivendo, così come solennemente raccomanda il Vangelo: “fate attenzione al tempo favorevole in cui vi siete venuti a trovare!” (Luca 12,54-57). Si tratta di ricostituire la unitarietà della nostra vita proprio a partire dall’incontro con il Maestro, domandando a noi stessi, come singoli e come comunità cristiana, quali azioni, quali sentimenti, quali disposizioni d’animo coltivare per riconoscere la parola dello Spirito che risuona in questo momento della storia, in questa occasione della nostra vita. In caso contrario, se noi non riusciamo a riconoscere la chiamata del Signore, eccoci divisi in noi stessi, tra la considerazione che diamo alla nostra condizioni di battezzati e partecipi della storia di Gesù, e cittadini di una storia che sembra ubbidire soltanto ad un disegno enigmatico e incomprensibile.

Impariamo dunque a leggere i fatti che segnano la nostra società.
Anzitutto dobbiamo considerare sul serio il fenomeno della globalizzazione che, come è noto, consegue a tutte quelle tecnologie che hanno consentito di spostare i capitali da una zona del mondo all’altra, e di quella facilità di comunicazione che rende possibile alle persone di muoversi da un paese all’altro. Tutto ciò ha reso ancora più evidente una verità a tutti noi ben nota: l’uomo ha un unico destino. Questa verità, creduta e ora sperimentata, va resa concreta.
Riconosciamo le letture erronee o parziali di cui dobbiamo prendere coscienza.
Anzitutto non si può accettare che l’economia, così divenuta vagabonda e onnivora, sia da difendere o da promuovere solo nei nostri interessi, perché ogni uomo va riscattato e promosso. La globalizzazione deve diventare modalità di partecipazione e corresponsabilità nell’economia, nei diritti dei cittadini e nel diritto del lavoro, per avere un senso. Non siamo forse chiamati a camminare in questa prospettiva? E’ sufficiente ora una tiepida simpatia per i paesi che ricercano la propria strada nella democrazia, per riscattarci dalla interessata incertezza con cui abbiamo seguito lo sviluppo dimezzato di questi paesi?
Crediamo di avere il dovere non solo di desiderare ma anche di realizzare una democrazia reale, sia nel nostro Paese, sia nei paesi che stanno sulle rive del Mediterraneo. I social network e le moderne tecnologie hanno consentito ai movimenti sociali locali di irrompere dentro i luoghi del potere per imprimere una agenda adatta alla modalità di organizzazione di una società matura e solidale. Certamente la funzione dei social network nel costruire una democrazia, non è priva di rischi. Le nuove vie di comunicazione sono segnate da una forte spinta alla polarizzazione; sono infiltrabili da altri poteri; sono fragili perché, come è stato dimostrato, possono far passare notizie false in modo incontrollabile. Tuttavia sono evidenti i vantaggi del loro uso: hanno introdotto una alternativa ai ‘media’ tradizionali; sono in grado di integrare più profondamente le idee e la capacità organizzativa; hanno la forza per aiutare gruppi e singoli a trovare un comune progetto e di attuarle in tempi brevi.
Siamo consapevoli che il cittadino, soprattutto se credente, può guardare a questi fatti della storia contemporanea, chiedendosi che cosa di positivo sia riconoscibile per la vita delle persone e della società. Non basta che nei paesi nel nord Africa una elite si sostituisca ad un’altra;è certo che nella abulia in cui si trova il cittadino a riguardo della politica e della organizzazione della società, nelle rivolte a cui abbiamo assistito colga occasioni di stimolo per attuare un dialogo tra persone. Indubbiamente sarà sempre necessario giungere alla buona politica, intesa come senso delle istituzioni, coscienza civile, disponibilità alla partecipazione. E in questo modo devono essere viste e vissute le novità della cronaca contemporanea. Non è condivisibile dunque la frase letta su di un quotidiano nazionale (Corriere della Sera, 7 marzo 2011) secondo cui “l’interesse nazionale resta la principale bussola per coloro che devono decidere le politiche estere”. Occorre invece riconoscere che i popoli del nord Africa non hanno più bisogno della tutela occidentale per decidere della propria vita, poiché hanno già dimostrato la loro maturità e la loro diversità rispetto a noi.
Come cittadini di questo paese dobbiamo chiedere che la nostra politica estera sappia contemperare l’idealità in cui ci riconosciamo per dare il nostro contributo alla affermazione democratica, ai diritti, allo sviluppo economico, al rispetto delle singole identità nazionali, con il realismo di essere consapevoli che alcune situazioni rimangono inaccettabili. Perché questo avvenga è indispensabile una testimonianza civile coerente, trasparente e irreprensibile. In presenza di trattative in situazioni eticamente non corrette, si tratta di non recedere mai dalle richieste di piena umanità, pur accettando i limiti imposti dalla realtà: gli aspetti positivi all’interno di situazioni ancora irrisolte, la capacità di continuare a chiedere il pieno rispetto per l’eticità dei comportamenti.
Ricordiamo che vi sono lontananze le quali, eliminate fisicamente dai processi di comunicazione tecnologica e di spostamento delle popolazioni, continuano ad esistere nel giudizio delle persone: le diversità culturali e religiose diventano, nella fantasia o nel dibattito politico viziato di opportunismo, scontri di civiltà, tanto da produrre incomprensioni e conflitti. Faccio riferimento alle diversità culturali e alle differenze religiose che non sono questioni secondarie e di facile soluzione. Dobbiamo tuttavia, su questi aspetti della nostra vita, cercare una nuova capacità di comprensione, senza ingenuità ma con un realismo che legga la concretezza di vita delle persone, i loro bisogni, le loro attese. Per questo ho ritenuto importante il discorso di Barak Obama al Cairo, del 4 giugno 2009 in cui viene affermato che si è aspettato troppo a lungo nel dichiarare che occorre ascoltarsi e valorizzare le positività di ciascuna cultura e ciascuna religione.
Infine dobbiamo tutti operare perché i cristiani rimangano in Medio Oriente; è un fatto di rispetto delle persone e della storia, divenuto oggi una necessità per evitare che l’identità araba divenga solo musulmana. Essere vigilanti significa sostenere che le società che nascono, anche attraverso i rivolgimenti odierni, incoraggino tutte le fedi a vivere le une accanto alle altre, prefigurando una futura società mondiale.
La decisione positiva dei credenti di fronte alla crisi nel Mediterraneo nasce dalla domanda: “Chi è il mio prossimo?”. Ricordiamo tutti, per averla ascoltata o per averla letta, la riflessione con cui il Card. Martini ci richiamava l’essenziale cambiamento di prospettiva attuato da Gesù a proposito della identificazione del ‘prossimo’, definito come colui davanti al quale ciascuno decide il passo che lo “rende prossimo”.
In questo contesto si collocano le scelte economico-sociali che si compiono in fedeltà ad una laicità competente e operativa nella società e nella politica.
Pertanto dobbiamo domandarci che cosa sia in realtà la guerra con il suo corteo di violenza, di distruzione, di morte e decidere che si tratta di uno strumento assolutamente inadatto a regolare i rapporti tra gli stati come già la nostra Costituzione dichiara e pone vincoli chiarissimi all’ingresso in guerra dell’Italia. Ogni intervento militare non sostenuto o autorizzato dalle organizzazioni internazionali è da considerarsi una aggressione. Per giungere dunque ad un procedimento meno scorretto possibile nell’intervenire militarmente per regolare una situazione di violenza, è necessario che la decisione sia massimamente obiettiva e ‘spersonalizzata’, come può avvenire nel contesto di una istituzione internazionale che decide al di sopra degli interessi nazionali. Possiamo guardare come ad una pagina nuova della politica internazionale il fatto che nell’intervento in Libia, abbiano votato a favore non solo ‘i soliti noti’, ma anche le nazioni arabe e africane?
Si tratta di rinnovare l’impegno per operare concretamente affinché le relazioni internazionali assumano un nuovo volto più solidale, più unitario e più attivo. Anche in questo caso è interessante misurare quali effetti l’Unione Europea ha prodotto, nel decennio scorso, agendo come una calamita di attrazione dei paesi vicini e di fatto introducendo un cambio positivo nei temi dell’economia e nei diritti civili. Si era giunti, all’inizio degli anni ’90, ad operare per una politica comune degli stati europei nei confronti dei paesi che si affacciano al Mediterraneo; nel 1995 a Barcellona era stato siglato l’accordo per l’avvio di un programma di Partenariato Euro-Mediterraneo (PEM), basato su di una cooperazione globale e solidale in cui fra le priorità emergeva l’impegno a instaurare “la pace, la stabilità e la prosperità nella regione mediterranea”.
Vengono delineate tre prospettive di lavoro: partenariato per promuovere pace, stabilità e sicurezza; partenariato economico-sociale; partenariato culturale, umano, per promuovere la conoscenza e la comprensione tra i popoli ed attuare un migliore rapporto reciproco, dando primaria importanza al dialogo interculturale e interreligioso.
Le vicende seguite all’attentato di Lockerbie (1988-1991) che indussero gli Stati Uniti a entrare nella politica mediterranea; l’attentato alle Torri Gemelle (11 settembre 2001) e l’immagine dello ‘scontro delle civiltà’ resero inefficaci i patti del PEM. Da allora gli Europei continueranno ad avere un interesse intermittente per la realtà dei paesi del sud del Mediterraneo.
Se ci vorremo porre come partners credibili dei paesi in cambiamento, occorrerà anzitutto rispettare e far vivere la democrazia nel nostro paese, promuovendone la cultura. La crisi del nord Africa è una sorta di specchio deformante che mette in luce i difetti che segnano anche la nostra democrazia. La deresponsabilizzazione dei governanti delegittima fortemente lo stato e lo allontana dalla società, perché ha perso la sua funzione di garantire il conseguimento di un bene comune capace di raggiungere tutte le classi e possibilmente tutte le persone. Ora l’opinione pubblica deve crescere fino a ottenere che si giunga alle elezioni con una vera possibilità di scelta. La democrazia è realizzabile da persone pur diverse per opinioni e magari per differenti culture o fedi, che decidono di vivere assieme in pace, comprendendo il diritto di ciascuno di mantenere la propria identità culturale.
La carità politica chiede anche di investire in politiche di sviluppo onorando finalmente gli impegni nazionali che chiedono di evolvere ai paesi impoveriti una percentuale fissa del PIL. In questo campo sarebbe necessario promuovere una politica più ambiziosa, perché in caso contrario continuerà in maniera drammatica l’ingresso di migranti ed esuli, causando nuove tensioni nelle persone e nell’economia di paesi come la Grecia e l’Italia, già segnate da notevoli difficoltà.
Nel caso dei migranti sappiamo di doverci muovere senza semplicismi e buonismi. Le situazioni sono serie e impegnative, coinvolgono gli equilibri non proprio consolidati del nostro paese. Per coloro poi che giungono tra noi il tragitto è incerto e pericoloso, reso ancora più odioso dalla pratica dello sfruttamento di esseri umani, dalle distanze e dalle solitudini che accompagnano il difficile passo di persone che inseguono una speranza e di cambiamento della loro vita. Occorre dunque tenere vigili le nostre coscienze, sia rispetto al passato, verso il quale abbiamo come paese una vera responsabilità, non sempre vissuta con rispetto e per la quale non abbiamo sempre risposto con coraggio e generosità sia verso il futuro che non sia più realizzato da una politica segnata da ambiguità e improvvisazione.
Occorre operare perché i paesi del Mediterraneo e i nuovi arrivati non siano soltanto considerati oggetto di cura, ma persone partecipi dei progetti pensati per la loro integrazione. Si deve immaginare un nuovo inizio dunque dei campi di raccolta, dei luoghi di accoglienza che dovrebbero più correttamente essere chiamati luoghi di restrizione.
Occorre ripensare con forza alle risorse utili ad accogliere queste persone, non solo a quelle immediatamente messe a disposizione, importanti e per certi aspetti risolutive, ma anche a quelle spendibili sul territorio dalla Diocesi e dalla Caritas. Sono le strutture, le istituzioni, i programmi capaci di svolgere sistematicamente il compito di accogliere i più sfavoriti.
La fede può aiutarci ad una lettura condivisa della realtà?
Nel nostro percorso di ricerca, affrontiamo da ultimo il tema del dialogo tra persone che appartengono a religioni diverse. Anche qui è riconoscibile un cammino per la crescita della consapevolezza dei tempi nuovi che ci sono dati da vivere, e per aiutare le persone, in particolare i credenti, a vivere la condizione del Mare di Galilea.
L’opinione corrente a riguardo del tema religioso è pessimista, ritenendo che la religione è in se stessa operatrice di divisioni. E’ giusto riconoscere che talvolta è così; tuttavia è compito nostro affermare e testimoniare che fede e ragione sono compatibili. Attraverso questa dimensione ragionevole della vita, è possibile giungere alla reciprocità tra le confessioni religiose, perché di fronte al diritto che esigono per se stesse, sono tenute al rispetto dei diritti degli altri, compreso il rispetto per i ‘giusti limiti’ nell’esercizio della propria libertà religiosa.
La religione inoltre si dice che incoraggi l’estremismo fondamentalista. A questa obiezione dobbiamo ricordare che il valore della vita è centrale per ogni esperienza religiosa e che per onestà intellettuale occorre andare più a fondo nell’analisi del problema perché molto spesso, anzi sempre, dietro al fondamentalismo vi è una lettura politico-culturale della persona umana, a partire da una idea gretta e distorta, della storia,quando l’altro è considerato inferiore.
Un altro pregiudizio afferma che la religione rende più difficili i rapporti nella società perché i credenti leggono gli avvenimenti secondo schemi ideologici rigidi. In risposta occorre ricordare che vi è una laicità positiva, o del confronto, che non si lascia toccare da ostilità, pregiudizi, indifferentismo. Per il resto, dobbiamo ricordare che ciascuno di noi agisce come pensa e nessuno di noi può lasciare a casa i suoi riferimenti fondanti. Si tratta di imparare a riconoscere il positivo nell’altro.
La dignità umana è affermata in nome della comune umanità e ciò sta al fondo della esperienza religiosa e aperta al rispetto dei diritti fondamentali. La vita umana non ha senso senza il desiderio di trovare la verità e di vivere nella libertà che nasce dalla relazione con Dio e con le persone, secondo l’insegnamento del Vangelo.
Padre Silvano, ora in Algeria per far comprendere meglio che cosa significa vivere sul confine tra religioni diverse, scrive di tanto in tanto delle riflessioni, tra cui ne scelgo una, per la sua attualità.
“Siamo a Jenin, è il 3 novembre 2005, il primo giorno dell’Aid Al Fitr, la festa che conclude il mese sacro di Ramadan, il piccolo Ahmed, dodici anni, ha in mano un fucile giocattolo. Un soldato israeliano scambia il giocattolo per un’arma vera e spara. I medici chiedono ai genitori se sono disposti a donare i suoi organi. Per un palestinese il consenso vuol dire accettare che quel cuore, quel fegato, quei reni porteranno vita a uomini, donne bambini israeliani come il soldato che ha premuto il grilletto. I genitori prima di dire di sì, consultano l’Imam e questi dice: “Dona quegli organi, perché qualcun altro abbia la vita”. E così è successo nella “Jenin dei Terroristi”.
Spesso, quando sento alcuni amici musulmani che lasciano parlare il cuore, mi ritrovo sentimenti e parole universali. Il bello è che nel linguaggio del cuore risento le stesse parole, gli stessi sentimenti di Gesù.”
Il credente è anche persuaso che il Dio in cui crede è sempre oltre la rappresentazione che ciascuno sa dare diLui. Chi vive con intensità la propria fede riconosce di avere una idea di Dio, ma di stare di fronte ad una Presenza che supera la sua capacità di comprendere, e di definire con la parola la presenza del divino. E’ evidente che un simile modo di stare nella propria esperienza religiosa, segna poi in maniera decisiva la vita quotidiana, e consente di aprire il discorso con chi professa un’altra fede religiosa.
Leggiamo assieme questa singolare Lettera a un amico musulmano.
“Mio fratello musulmano. L’altro giorno mi hai chiesto perché non mi facevo musulmano. Sorpreso, non ti ho risposto subito. Poi mi son detto e ti dico: “Perché tu non ti converti al cristianesimo?”
In realtà queste domande non ci fanno avanzare nelle nostre relazioni. Il più importante è di credere che Dio è con ciascuno di noi. Tu sei mio fratello. Non sono diverso da te. Solamente, io credo in Dio tramite Gesù. Tu, tramite il Corano. Noi viviamo insieme, crediamo nell’unico Dio. Dobbiamo rispettarci e conoscerci di più e creare un clima di tolleranza e di fiducia. Per noi cristiani, il primo comandamento è di amare Dio più di tutto e di amare il prossimo come se stessi. E per voi musulmani, qual è la prima esigenza? Non aver paura di avvicinarti a me. Frequentarmi non è un peccato, anche se la società insiste a farti pensare che l’Islam à l’unica via di accesso al Paradiso.
Ricordati che un giorno mi hai chiesto di bruciare una candela secondo le tue intenzioni. L’ho fatto con la mia convinzione e l’ho presentata a Gesù e ho chiesto a Maria che tu sia esaudito. Il mio desiderio più vivo è che possiamo trovarci in uno scambio che ci arricchisca della fede dell’altro. Questo scambio ci porterebbe a una migliore conoscenza di Dio e amplierebbe la nostra preghiera. Ti abbraccio, fratello.” (Dal bollettino diocesano della Diocesi di Costantine, Algeria).
E’ importante guardare alle prospettive di speranza che sappiamo dare ai nostri giovani. Se ciò che abbiamo delineato fin qui è un sogno, che i sogni non rimangano tali solo per la nostra pigrizia.

Concludendo con questa speranza e con questo augurio richiamo le parole del profeta Isaia

“Costituirò tuo sovrano la pace,
tuo governatore la giustizia.
18Non si sentirà più parlare di prepotenza nella tua terra,
di devastazione e di distruzione entro i tuoi confini.
Tu chiamerai salvezza [giustizia] le tue mura
e gloria [preghiera] le tue porte. (Isaia 60,17-18)

e l’invito di Giorgio La Pira:
“E’ di notte che è bello credere nella luce; dobbiamo forzare l’aurora a nascere, credendoci.”

Per un aggiornamento della situazione: la primavera araba vista oggi dai vescovi del Nord Africa
Dal 13 al 16 novembre i vescovi del Nord Africa, dalla Libia all’Algeria alla Tunisia hanno vissuto la loro assemblea annuale. La prossima assemblea la terranno a Mazara del Vallo, in Sicilia per sottolineare il legame profondo tra ciò che succede in entrambe le sponde del Mediterraneo. Proprio per questo anche il vescovo di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero - che con la sua diocesi da tempo intrattiene legami di profonda amicizia con le Chiese del Maghreb - ha partecipato già quest'anno ai lavori dell'assemblea. Ecco una parte della loro analisi come emerge dal comunicato finale.
Passaggi cruciali. “Sono tre le sfide essenziali che emergono in questi Paesi: sfida religiosa, politica e socio-economica”. A parere dei vescovi maghrebini queste sfide richiedono “passaggi” essenziali che se intrapresi possono rappresentare delle “promesse di speranza” per tutta la Regione.
Il primo è “il passaggio dalla paura di manifestare la propria religione all’affermazione tranquilla delle proprie convinzioni di fede nel rispetto delle opinioni altrui e all’interno di un dibattito senza più tabù sull’importanza della promozione di tutte le libertà, compresa la libertà di coscienza”.
Altra sfida cruciale per tutto il Nord Africa è “il passaggio da una vita sociale abitata dalla paura e dal rischio della libertà all’impegno affinché tutta la nazione possa vivere nella democrazia e nel rispetto della dignità della persona”.Altro punto sottolineato è “la presa di parola e responsabilità delle donne che chiedono di essere più rispettate nella loro dignità e nei loro diritti”.
Infine, i vescovi danno voce al “grido dei giovani che esigono per sé formazione di buon livello e finalizzata ad un reale avvenire professionale”.

Responsabilità, speranze, difficoltà. I membri delle Chiese che vivono nei Paesi del Nord Africa generalmente non sono attori diretti di questi passaggi ma vogliono essere testimoni di speranza. Le comunità cristiane vogliono, cioè, dare il loro contributo per “la promozione dei valori nei quali essi si riconoscono pienamente”. “Sentono la responsabilità d’incoraggiare quella volontà di libertà, cittadinanza e apertura che si è espressa chiaramente nella primavera araba: cercano di farlo accompagnando nel discernimento e dando testimonianza della loro speranza anche in mezzo alle reali difficoltà che incontrano”.
A questo proposito i vescovi hanno espresso la loro solidarietà alla Chiesa d’Algeria, “condividendo la sofferenza dei vescovi di fronte al non rilascio di permessi di soggiorno e talvolta al rifiuto dei visti ai preti e ai religiosi, qualsiasi sia la loro nazionalità. Essi – si legge nel comunicato – lo ritengono come un grave attentato alla vita delle Chiese e ci provoca maggiore sofferenza quando questi provvedimenti riguardano persone che senza alcuno spirito di proselitismo, rendono un reale servizio a quei Paesi e intrattengono relazioni molto cordiali con tutti”. Da qui la gratitudine dei vescovi per tutti i sacerdoti, i religiosi e le religiose che vivono nei loro Paesi: “Essi ammirano il loro lavoro e rendono grazia per la qualità del loro impegno”.

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