Donne più protagoniste, ma ancora al margine

27 aprile 2012 - Nicoletta Dentico

Ad un anno dalla detonante manifestazione del 13 febbraio che ha ridato protagonismo alle donne italiane, alcuni scenari sono decisamente mutati nel paese e il dibattito sul ruolo delle donne nella società – in politica e nell’economia - è vivace come non mai. Tutto questo è un passo avanti decisivo, e va coltivato in tutti i luoghi, perché riguarda tutti i cittadini, donne e uomini.

Sarebbe tuttavia sciocco cantar vittoria. I problemi di fondo che riguardano la vita delle donne in Italia restano del tutto invariati, quando non sono addirittura deteriorati dalla sequenza di manovre economiche che si abbattono sul genere femminile con particolare violenza. In un paese che da oltre venti anni risulta in fondo alle classifiche sulla natalità, le donne pagano ancora il prezzo della gravidanza vista in Italia come una patologia di sistema che ti espelle dal mercato del lavoro. Le donne sono l’architrave dello stato sociale di questo paese, ma intanto è stata prolungata la loro età pensionabile in nome di un principio anche condivisibile di uguaglianza, senza che fossero messe a punto le misure di welfare adeguate per rendere la nuova situazione sostenibile. Insomma si chiede alle donne di lavorare di più, e nel contempo di continuare a occuparsi della cura esclusiva dei figli (anche quelli ormai grandi che restano in casa per motivi economici), degli anziani, dei nipoti, etc. L’Italia resta in paese con le percentuali di occupazione femminile più basse in Europa, con il numero più esiguo di donne nella politica e nelle posizioni apicali sia nel settore pubblico che privato. Ma c’è dell’altro. Dall’inizio dell’anno, 30 donne sono state uccise dai loro ex – fidanzati, compagni, mariti – in nome dell’equivoco antropologico che le donne siano proprietà maschile, e che questi delitti siano eccessi di amore, sussulti di passione. Per la prima volta la rappresentante speciale delle Nazioni Unite contro la Violenza sulle Donne, la giurista sudafricana Rachida Manjoo, ha visitato l’Italia nel gennaio scorso, trovando con sua sorpresa un paese decisamente troppo malato di patriarcato, e le donne ancora troppo incapaci di denunciare i molti crimini di cui sono protagoniste: “non immaginavo che nel cuore dell’Europa potesse esserci ancora tanta arretratezza culturale quando si parla di donne e uomini”, ha dichiarato in conferenza stampa a Roma al termine della sua missione in Italia.

L’orizzonte di una convivenza fra i due generi rispettosa dell’autonomia e della dignità delle donne, e improntata al principio dell’inviolabilità del corpo femminile, allude a una prospettiva che è stata delineata con nettezza da importanti documenti internazionali. Viene subito in mente la Dichiarazione di Vienna approvata nel 1993 durante il summit dell’ONU sui diritti umani; essa prende posizione contro la violenza di genere e contro ogni forma di sfruttamento del corpo delle donne come incompatibili con la dignità della persona umana. C’è poi il testo della Piattaforma d’Azione di Pechino del 1995, laddove si afferma che “la violenza contro le donne è un ostacolo al raggiungimento degli obiettivi di uguaglianza, sviluppo e pace […] viola, indebolisce o vanifica il godimento da parte delle donne dei loro diritti umani e delle loro libertà fondamentali”.

Questi due pronunciamenti sono pietre miliari, punti di non ritorno sulla strada del riconoscimento delle donne come condizione essenziale per realizzare il bene comune e, viceversa, della gravità del loro sfruttamento come barriera allo sviluppo umano. L’ONU poneva così la questione dell’urgenza, per i governi e le comunità nazionali, di un impegno volto a contrastare la mortificazione della dignità delle donne, e la loro discriminazione, con ogni mezzo. Questi principi hanno in buona misura ridisegnato l’agenda dello sviluppo integrando finalmente la prospettiva di genere nella visione generale di un’emancipazione economica e sociale per le realtà dei paesi impoveriti. I linguaggi sono mutati e la semantica ha integrato il tema delle donne. Ufficialmente, tutta la comunità internazionale è impegnata dal 2000 nella corsa per gli obiettivi del millennio (MDGs), due dei quali – il 3 ed il 5 – sono rispettivamente focalizzati sull’uguaglianza di genere, e sulla salute delle donne. Ma che cosa è veramente cambiato, per la metà del cielo?

«Crescere una figlia è come innaffiare l’orto del vicino», recita un proverbio indù, alludendo all’inutile investimento sulla prole destinata alla famiglia del futuro marito. Il risultato è che la più grande democrazia della terra conquista i mercati globali e si afferma con l’ innovazione e la capacità tecnologica, ma perde ogni anno 600 mila bambine. Il dato è agghiacciante, e non circoscritto. La guerra globale contro le donne fa sì che nel mondo ne manchino 100 milioni all’appello: una cancellazione di massa prodotta dagli aborti selettivi dei feti di femmine, o in seguito a infanticidi, che in alcuni paesi (India, Corea, Cina) si è decisamente affermata non senza conseguenze inquietanti sul piano demografico e sociale.

Il genocidio di genere prosegue inesorabile e impunito. Solo uno dei mali acuminati che colpiscono le donne. Eppure l’evidenza empirica dimostra che non può esserci innovazione, modernità, alternativa, a via di escludere la popolazione delle donne dalla costruzione di un futuro migliore. Nel nord e nel sud del mondo. Lo ha dichiarato la vice Segretaria Generale dell’ONU, Asha-Rose Migiro, “sono le donne che hanno in mano le chiavi per scardinare le barriere allo sviluppo sostenibile”. In tempi di colossale crisi strutturale – economica, finanziaria, ambientale - sappiamo quanto ne avremmo bisogno di un paradigma nuovo imperniato sulla sostenibilità. E delle donne, dunque, per dargli forma e contenuto.

Invece, la metà femminile che popola il mondo gode di una infima parte delle opportunità o delle risorse disponibili sul pianeta. Sono più di mille le donne che, ogni giorno, muoiono solo per il fatto di aver partorito, nelle circostanze di solitudine e di povertà spesso più indicibili. Nelle situazioni di guerre e conflitti armati, la maggior parte delle vittime civili sono donne e bambini che, paradossale ironia, pagano il prezzo più alto per questi conflitti, ma non hanno voce in capitolo, ed ancor meno potere negoziale, quando gli stati trattano di guerra e pace. Talenti sprecati. Le donne se ne intendono, visto che sono loro ad assicurare la sussistenza delle famiglie in mezzo al caos e alla distruzione, e sono ancora loro che seminano solidarietà e pace dentro le piccole comunità devastate dalla guerra. In nessun paese del resto le donne hanno accesso paritario della narrazione che i media fanno del mondo. Men che meno hanno possibilità di formularla, questa narrazione. Solo il 22% delle notizie che si leggono o si ascoltano ogni giorno sono frutto della lettura e dello sguardo delle donne!

La 56ma sessione della Commissione sulla Stato delle Donne (http://www.un.org/womenwatch/daw/csw/index.html), riunita a New York mentre scriviamo, fa un quadro piuttosto cupo della situazione globale. Le molte piccole luci delle iniziative locali restano soffocate dalle ombre di tendenze strutturali che remano contro le donne. Negli ultimi 3-5 anni c’è stato un indubbio incremento dell’interesse e dell’impegno a favore dell’empowerment delle donne e delle bambine, però la crisi finanziaria globale ha ristretto in termini reali il sostegno alle donne nei paesi del sud del mondo, nonché molto peggiorato la loro condizione. Il deterioramento delle condizioni economiche produce in monti casi un sussulto dei fondamentalismi, ed una recrudescenza di pratiche e concezioni domestiche che minano alla radice l’autonomia e l’attivismo femminile.

Le donne sono impegnate in prima linea per la difesa della biodiversità e degli ecosistemi vitali, per l’accesso all’acqua, per l’adattamento e la mitigazione dei cambiamenti climatici, per la lotta contro l’inquinamento. Ma l’empowerment delle contadine ed il loro ruolo nella lotta alla fame e nello sradicamento della povertà restano marginali. Secondo la neonata agenzia dell’ONU per le Donne, quelle attive nell’agricoltura rappresentano un quarto dei 7 miliardi di popolazione mondiale. Solo il 5% dei servizi agricoli però viene messo a disposizione delle donne, e nell’Africa rurale sub-sahariana meno del 10% del credito disponibile per le piccole iniziative agricole è appannaggio delle donne, anche se il loro accesso paritario alle risorse produttive ridurrebbe il numero delle persone malnutrite di 100-150 milioni.

Forse è arrivato il momento di considerare la costruzione di un mondo a due, di una comunità alla pari fatta di due entità intransitive - per dire che è necessario mantenere fra loro una distanza per non cancellare l’altro/l’altra - come un bene comune dell’umanità. Constato che questa argomentazione non ha ancora preso piede nella agenda sui beni comuni globali. Potrebbe esserne invece una condizione indispensabile. Se al posto della Lehman Brothers, ci fosse stata la Lehman Sisters, sospetto che il mondo non si troverebbe nella situazione di collasso senza regole che conosciamo da alcuni anni a questa parte.

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