25 APRILE 2012 – IN MEMORIA DI PADRE ERNESTO BALDUCCI

Nel ventennale della morte

Maurizio Mazzetto

Cari amici,
provo a mettere per iscritto una testimonianza su Padre Ernesto Balducci che ho comunicato a Vicenza, a un recente incontro - relatore principale Padre Annibale Divizia, Presidente della Fondazione Balducci - e che avrei voluto esprimere a Bolzano-Pietralba domenica scorsa, 22 aprile, al Convegno nazionale organizzato dal Centro Pace di Bolzano su Padre Balducci e Padre Turoldo, ma, alla fine, dopo le relazioni di Enrico Peyretti e padre Giancarlo Bruni, non c'era più tempo per gli interventi.
La mia vuole essere una semplice testimonianza a partire da due riferimenti personali, ma anche una riflessione che tiene conto del testo che considero il vertice dell'autocoscienza di Balducci uomo, cristiano, prete.

1. Parto dalla più recente esperienza personale. Solo un paio di anni fa - quindi quasi 20 anni dopo - sono riuscito a realizzare un desiderio: andare a Santa Fiora, il suo paese natale, sotto il Monte Amiata, e fare una visita alla sua tomba, al cimitero.
Ho girato per le vie del piccolo paese, immaginandomi soprattutto il Balducci bambino che osserva e ascolta dalla sua finestra il coro notturno delle clarisse dell'antico convento, come egli stesso afferma in un famoso passaggio della sua autobiografia “... Potrei dire che io, da quella finestra, non mi sono mai mosso” (Il cerchio che si chiude. Intervista autobiografica, a cura di L. Martini, Marietti, Genova 1986, p. 45).
Poi, sono andato a piedi al Cimitero. Ho girato e cercato la sua tomba per 10-15-20 minuti, non la trovavo; finché mi sono imbattuto in una tomba di famiglia, quella della Famiglia Balducci, e lì ho visto la sua: Ernesto Balducci, data di nascita e data di morte. Nessun'altra frase, neppure, davanti al nome, il “Padre...” (o don). Dopo la prima “delusione” per l' “anonimato” della tomba, immersa tra le tante altre del cimitero (ora mi è stato detto che la tomba è in un luogo a parte, e con una sua frase: “O un uomo è un uomo di pace o non è uomo”; non so se vi sia il “padre” o il “don”), ho ripensato al suo percorso, e sono riandato, appunto, a quel breve testo che rappresenta per me la sintesi e l'ultima espressione del cammino di identità e di maturazione di Balducci (tra l'altro, notavo, a suo tempo, che quelle pagine uscivano, in pubblicazione, praticamente nello stesso mese in cui egli moriva).
Si tratta della postfazione a un libro, di cui Balducci fece anche la prefazione, di Paul Gauthier, Vangeli del terzo millennio, Qualevita, Torre dei Nolfi (Aq) 1992, ed è intitolata “Sono un figlio d'uomo”. In effetti egli voleva sempre più essere un uomo tra gli uomini, uno tra gli altri, non distinto e separato (come lo è il “clero”): “Vorrei essere come il Cristo, semplicemente un figlio d’uomo, qualcuno che difende l’uomo per l’uomo. Come dicevo all’inizio, la mia identità è di non averne alcuna o, meglio, di averne una che è situata nel futuro (…). È così che io mi sento a casa mia in tutti i luoghi di questo mondo. Io sono finalmente cattolico, e precisamente perché non lo sono più, perché sono un figlio dell’uomo” (p. 248 e 249).

2. L'altro ricordo di lui, risale esattamente a 20 anni fa, all'anno della sua morte.
Nella notte del 31 dicembre-1 gennaio 1992, dormii in una camera vicino alla sua. Questo perché, in quegli anni, frequentavo spesso e volentieri il Convegno teologico di fine-inizio anno che Armido Rizzi conduceva nella casa che abitava a Fiesole, sul colle di Sant'Apollinare. Poiché non vi era più posto in casa, Armido mi accompagnò, verso l'una e mezza di notte, a dormire giù al convento della Badia (di cui aveva le chiavi).
Al mattino, verso le 8-8.30, uscii di camera, per ritornare a Sant'Apollinare, e vidi Balducci, in una camera con la porta aperta, seduto ad un tavolo, che leggeva o prendeva qualche appunto (forse si preparava alla liturgia e all'omelia del 1° gennaio?). Lo salutai, augurandogli “Buon anno!”. Mi rispose e mi chiese il motivo della mia presenza lì. Gli spiegai, e ci augurammo di nuovo buon anno.
Mi sono sempre portato dietro questo “triste” ricordo, poiché - pensando di essere stato la prima persona che gli augurò “Buon anno” - mi son sempre detto: il mio augurio non gli ha certo portato fortuna!
Tuttavia, un pensiero, in questi anni, mi ha, in un certo senso, “consolato”. Precisamente una considerazione di don Tonino Bello (di lì a un anno sarebbe morto anche lui), il quale, in un articolo scritto il giorno dopo la morte di Balducci, scrisse: “Padre Balducci non è morto nella sua stanza da letto dove, accanto al crocifisso, era appeso un planisfero. (…) ha chiuso il suo cerchio terreno sulla strada. (...) Padre Balducci se n'è andato così. Con quest'ultima lezione all'aria aperta. In cammino...”.
Morire, banalmente, e tragicamente, per un incidente stradale, può essere un “destino”, o un segno. Per lui, la traccia di un percorso, che, come dicevo prima, lo portava a voler essere sempre di più tra le strade degli uomini, negli incroci (e crinali) della storia. Proprio perché voleva essere “un figlio d'uomo”! E, solo divenendo ciò, pensava di poter essere un cristiano e un prete, e, quindi, trovare e realizzare la propria identità.
Concludo, dunque, questo mio breve scritto invitandovi a leggere - e meditare – per intero quelle pagine, e riproponendovi un brano, per me capitale, di colui che considero il maestro di tutti noi, certamente mio, e penso anche di Balducci: Dietrich Bonhoeffer.
Il brano, tratto dalle lettere dal carcere, ha, a mio avviso, una profonda affinità con quel essere “figlio d'uomo” cui mirava Balducci e a cui ho fatto riferimento:
“(...) Più tardi ho appreso, e continuo ad apprenderlo anche ora, che si impara a credere solo nel pieno essere-aldiquà della vita. Quando si è completamente rinunciato a fare qualcosa di noi stessi - un santo, un peccatore pentito o un uomo di chiesa (una cosiddetta figura sacerdotale), un giusto o un ingiusto, un malato o un sano -, e questo io chiamo essere-aldiquà, cioè vivere nella pienezza degli impegni, dei problemi, dei successi e degli insuccessi, delle esperienze e delle perplessità - allora ci si getta completamente nelle braccia di Dio, allora non si prendono più sul serio le proprie sofferenze, ma le sofferenze di Dio nel mondo, allora si veglia con Cristo nel Getsemani, e, io credo questa è fede, questa è metànoia, e così si diventa uomini, si diventa cristiani (cf Geremia 45). Perché dovremmo diventare spavaldi per i successi, o perdere la testa per gli insuccessi, quando nell'aldiquà della vita partecipiamo alla sofferenza di Dio? Tu capisci che cosa intendo dire, anche se lo dico in così poche parole. Sono riconoscente di aver avuto la possibilità di capire questo, e so che l'ho potuto capire solo percorrendo la strada che a suo tempo ho imboccato. Per questo penso con riconoscenza alle cose passate e quelle presenti.” (Lettera del 21 luglio 1944, in Resistenza e Resa, Paoline, 1988, p. 446).

Un caro saluto e un ricordo,

Ultimo numero

Rigenerare l'abitare
MARZO 2020

Rigenerare l'abitare

Dal Mediterraneo, luogo di incontro
tra Chiese e paesi perché
il nostro mare sia un cortile di pace,
all'Economia, focus di un dossier,
realizzato in collaborazione
con la Fondazione finanza etica.
Mosaico di paceMosaico di paceMosaico di pace

articoli correlati

    Realizzato da Off.ed comunicazione con PhPeace 2.7.15