Sperare nella lotta storica

Giovanni Falcone e don Peppe Diana
5 giugno 2012 - Rosario Giuè
Fonte: pubblicato nel n.1/2012 della rivista dei carmelitani di Sicilia, Horeb.

1. La speranza storica
Meditiamo sulla speranza e, per paradosso, lo facciamo a partire dalla uccisione di due persone: del magistrato Giovanni Falcone e del parroco campano don Peppe Diana. Partiamo dall’uccisione di due persone perchè, a mio parere, possiamo correttamente parlare di speranza facendo una storia della speranza: una storia di lotte, di dolore, di umiliazioni e di morte, prima che di luci. Non siamo autorizzati, infatti, a ragionare di speranza in modo esaltante. Occorre perciò uscire dallo schema che ci porta ad esaltare gli eroi e i martiri o i santi, a mitizzarli e a separarli dalla realtà perché la speranza si fa nella storia.
Anche nella teologia oggi è in atto una nuova fase della ricerca sul Gesù storico, troppo spesso ingabbiato dentro un manto dogmatizzante che lo stacca dalla sua storia reale, dalla storia di speranza che egli ha rappresentato. Va ricordato che il “Gesù nostra speranza della” fede non è altro che il Gesù storico, il Gesù che ha suscitato speranza nei discepoli e nelle discepole e che, dopo la sua uccisione, Dio ha resuscitato dalla morte. È quel Gesù che dovette affrontare i capi del mondo sociale e religioso del suo tempo, quel Gesù che fu bersaglio e vittima di un intreccio di interessi tra potere religioso, politico e nazionalistico.
Questa necessaria attenzione al Gesù storico ci sospinge a comprendere che la speranza degli uomini e delle donne è necessariamente una storia di speranza. E non si comprendono Falcone e Diana se non all’interno della storia della speranza.
Nelle vicende di Giovanni Falcone e di Peppino Diana siamo davanti a due vicende nelle quali non c’è nulla da esaltare o da mitizzare. C’è da considerare semmai che, all’interno di una data situazione sociale, culturale, religioso e politico, uomini come Giovanni Falcone e Giuseppe Diana tennero la schiena diritta e furono seri nel loro compito storico, pur in una sostanziale solitudine. Così soltanto furono e sono ancora costruttori suscitatori di speranze nella nostra storia.
Non è questa la sede per ripercorrere la storia di Falcone e di Diana. Per questo rimando a due libri indicati nella nota bio-bibliografica. In questo breve spazio possiamo solo sottolineare qualche aspetto.
2. La vicenda di Giovanni Falcone
Nella Sicilia e nella Campania degli anni ’80 e dei primi anni ‘90, sotto il tallone delle organizzazioni criminali con centinaia di morti ammazzati, con un intreccio tra poteri criminali politici e mafiosi, vissero e si impegnarono Giovanni Falcone e don Peppe Diana. La serietà professionale di Falcone, la sua preparazione e il senso del dovere diventarono segno di speranza per alcuni e di disturbo per altri. Falcone fu semplicemente un uomo per bene, come l’avvocato Giorgio Ambrosoli, il liquidatore della Banca privata di Sindona dove erano impegnati anche somme del Vaticano.
Quando Falcone arrivò a Palermo (prima era stato a Lentini e a Trapani) nel 1978 andò ad abitare in via Notorbartolo. Arrivava al Tribunale percorrendo via Libertà a piedi. Ma all’indomani dell’uccisione del giudice Cesare Terranova (25 settembre 1979), cominciò a lavorare all’Ufficio istruzione, diretto dal giudice istruttore Rocco Chinnici. E Chinnici nel maggio 1980 gli assegnò il “processo Sindona”, quello che ruotava attorno al riciclaggio di denaro sporco, un processo di mafia che poi sarebbe più noto come “processo Spatola”, con decine di persone portate a giudizio. In quell’occasione Falcone incominciò a fare le indagini bancarie perché era convinto che «dalla sapiente miscela fra indagini di tipo tradizionale e indagini bancarie che può venir fuori (…) un panorama della criminalità importante sia sotto l’aspetto giudiziario sia sotto l’aspetto di politica giudiziaria complessiva, perché indica il trend della criminalità mafiosa». Questo modo di lavorare fu molto criticato dal sistema sociale ed economico e nel palazzo di giustizia di Palermo.
Il suo impegno determinato gli cambiò la vita privata. Gli venne assegnata la scorta e le sue abitudini mutarono per sempre. Senza cercarlo e senza volerlo di fatto Falcone acquistò sempre più notorietà. La scorta aumentava e, così, così come la paura della madre, delle sorelle e, poi, della moglie Francesca Morvillo.
Dopo l’attentato a Chinnici con l’autobomba del il 1° ottobre 1983 era chiaro a Falcone che ora l’obiettivo successivo era lui. La sentenza del cosiddetto «Maxi-processo” (dicembre 1987) rappresentò simbolicamente il cambiamento di un’epoca. Si passava dall’impunità dei mafiosi alla loro condanna con pesanti pene, nella consapevolezza che «la città vive di segnali», come sosteneva Falcone.
E’ in quella fase che attorno a lui si creò un crescente clima di fiducia e di speranza. Veniva chiamato nelle scuole, in convegni, all’università. Il suo impegno diventava contagioso. Egli rappresentava un simbolo di cambiamento. Guardando a Falcone altri uomini e donne, insegnanti, sacerdoti, trovarono un esempio, un compagno di strada, per mobilitarsi, per sconfiggere la paura e lavorare nel territorio.
Ma più cresceva la sua notorietà per i risultati del suo lavoro e più crescevano le critiche da “amici” e nemici. Se cresceva la speranza di tanti, più cresceva l’irritazione in altri luoghi. Falcone fu accusato di protagonismo, lui che era riservato. Gli abitanti del suo palazzo scrissero al Giornale di Sicilia per chiedere che i magistrati scortati fossero portati in una struttura apposita fuori città. Come marziani!
Quando nel 1988, il sostituto di Chinnici, il giudice Antonino Caponnetto doveva andare via dal suo ufficio, i palermitani e gli italiani onesti avevano sperato che fosse Falcone a prenderne il posto di capo del cosiddetto pool antimafia. Egli stesso aveva presentato domanda al CSM. Ma gli si preferì, si disse per anzianità, Antonino Meli il quale avocò a sé tutti gli atti, tutte le inchieste, fino a sciogliere il pool antimafia.
In questo clima di accuse e di progressivo isolamento Falcone fu oggetto dell’attentato all’Addaura (Palermo) il 29 giugno 1989, un attentato come lo definì Falcone frutto di «menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia».
Ormai impossibilitato a lavorare a Palermo, aveva accettato la proposta del ministro socialista Claudio Martelli di dirigere l’ufficio degli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia. Andava a Roma perché di fatto era stato cacciato da Palermo. Quella scelta invece di essere salutata come un’occasione per lavorare in modo più mirato contro le mafie divenne nuovo motivo di attacco da parte degli “amici”, anche del fronte antimafia. Non mancò tra loro chi disse che Falcone fuggiva e che scansava il pericolo.
A Roma lavorò alla creazione della Procura nazionale antimafia. Ma l’intreccio di poteri criminali politico-mafioso non voleva che egli stesso ricoprisse l’incarico di procuratore nazionale. Così si arrivò all’attentatuni sull’autostrada all’altezza di Capaci quel pomeriggio 23 maggio 1992, intorno alle ore 18. Un pomeriggio che non dimenticherò più come molti italiani e italiane. Scrive giustamente il giornalista Francesco La Licata che Palermo e la Sicilia aveva dato a Falcone una delega in bianco: “Liberaci dalla mafia”. Ma quello era solo un alibi per nascondere il proprio immobilismo.
3. La vicenda di don Giuseppe Diana
Il percorso di Giovanni Falcone non ha nulla di mitico, né di miracoloso, ma ha soltanto il senso di una vita seria. Così anche il percorso di don Peppe Diana, il parroco di Casal di Principe ucciso a soli 36 anni da uomini della camorra il 19 marzo 1994, non ha nulla di mitico o di beatificante. Anche quella è stata una vicenda di storia di speranza: una vicenda di lotta e di cammino con altri amici ed amiche (credenti e non credenti). Il giovane Diana nei suoi studi teologici a Posillipo (Napoli) aveva sentito vicino la teologia della liberazione e nel vescovo Romero ucciso a San Salvador (24 marzo 1980) aveva visto una luce da seguire. Ordinato prete nell’82, era stato per due anni segretario del vescovo di Aversa, quasi in tranquillità. Faceva studi biblici ed era assistente scout. Ma quando fu inviato a Casal di Principe, suo paese natale, non voleva diventare come quei preti che si dedicano alla preghiera e alla liturgia staccate dal territorio. E per il suo impegno nel territorio, prima come vice-parroco e poi come parroco, don Peppe insieme fu visto come prete” rosso”, amico dei “comunisti”. È una vecchia storia: etichettare per provare a screditare una persona.
Certo, di fronte allo strapotere della camorra, al continuo clima di violenza sul territorio, don Diana poteva farsi la messa e girarsi dall’altra parte. Di fronte alla «dittatura» della camorra come egli la definiva pubblicamente in omelie, convegni, articoli e documenti, non si girò dall’altra parte come il levita del racconto biblico nella parabola del “Buon Samaritano”.
Con pochi preti della sua zona pastorale stilò e pubblicò un documento “Per amore del mio popolo”, letto nella messa di Natale del 199 senza chiedere il parere del vescovo. Quel documento fu un duro lucido atto di denuncia della camora, della politica e dei ritardi ecclesiali. Molto preti lo lessero solo dopo la sua uccisione. Nel vuoto di una Chiesa con numerosi parroci che accettano i soldi per le feste patronali al di là della loro provenienza, di molte parrocchie come stazioni di servizi sacri ma senza uno sguardo d’insieme su ciò che deve essere Chiesa nel mondo contemporaneo, don Diana che fa la sua parte pensando una Chiesa che vive un «ministero di liberazione».
Come Falcone, senza volerlo anche lui diventava un esempio di speranza per molti uomini e donne. Si sapeva che il cuore delle iniziative di liberazione dalla camorra nella zona era lui. Tutto ciò obiettivamente lo esponeva. Così contro Diana venne messa in atto una campagna di diffamazione e di critica. Anche lui, come Falcone, fu accusato di protagonismo, di smanie di arrivismo. Lo si accusò di essere focoso, di essere istintivo, di non fare il prete ma di fare politica. Si cercò anche per lui un punto debole in cui colpirlo. E, manco a dirlo, trattandosi di un prete cattolico, dunque con l’obbligo del celibato, il punto debole lo si cercò nel ruolo delle donne nella sua vita. Lo si accuserà di essere fimminaru, per screditarne l’impegno.
In questo contesto fu assassinato quella di marzo all’interno della sua chiesa parrocchiale a Casal di Principe, mentre si apprestava ad indossare i paramenti per la messa. La stampa locale di Caserta durante il processo di primo grado sbatterà in prima pagina titoli del tipo: “Don Diana camorrista”, “Don Diana a letto con due donne” dando spazio alla delegittimazione. La Chiesa locale, con delle eccezioni come il vescovo di Caserta Nogaro, preferì rimanere in “prudente” attesa. Il processo di secondo grado per fortuna fece chiarezza su tutto.
4. Nostri martiri
Diana e Falcone hanno vissuto dentro le contraddizioni del tempo e non al riparo da esse. Si può dire Diana che Falcone con un diverso percorso vissero sul serio quella che l’uno era la «fede» o per l’altro il «senso» della vita cercando seriamente il diritto, la verità e la giustizia a favore del «mio popolo». Si può dire che entrambi marciarono nella stessa direzione. Una direzione che noi cristiani in termini biblici chiamiamo “Regno di Dio”. «Tutti color che cercano la giustizia – diceva padre E. Balducci - sono nel Regno che noi amiamo e di cui aspettiamo la manifestazione». Per questo non è il caso di richiamare continuamente lo «specifico» cristiano nella predicazione ecclesiale. Ciò che conta è l’umanità. Ciò che conta ora è lottare sperando e sperare lottando. Falcone, Borsellino, Chinnici, Puglisi, Diana e noi tutti e tutte siamo parte di un’unica travagliata storia di speranza e di salvezza, per dirlo laicamente: di un’unica storia di libertà e di liberazione. Non c’è una storia di salvezza cattolica come non c’è una società cattolica. A partire dalla creazione, ben prima di Abramo, noi come umanità siamo tutti e tutte dentro un’unica crescente storia di liberazione. Chi è discepolo/a di Gesù di Nazaret confida intanto che la pienezza dell’Adempimento è nelle mani di Dio.
Oggi siamo chiamati a fare memoria di Falcone e Diana. La nostra memoria se è reale ha un costo. Loro si sono consegnati con tutto il cuore senza lasciare nulla per se stessi sperando l’avvento di «tempi nuovi». Loro si sono accostati, come diceva Falcone, «sull’orlo del precipizio, dove nessuno si era voluto avventurare, perché ogni scusa era buona per rifiutare di vedere, per minimizzare, per spaccare il capello in quattro». Tocca oggi a noi, anche alla Chiesa istituzionale, non girare la faccia dall’altra parte.

Nota Bio-bibliografica:
Giovanni Falcone, Cose di Cosa nostra (in collaborazione con Marcelle Padovani), Milano, BUR, 1991.
Giovanni Falcone, La posta in gioco. Interventi per la lotta alla mafia (a cura della Fondazione Giovanni e Francesca Falcone), Milano, BUR, 1994.
Francesco La Licata, Storia di Giovanni Falcone, Milano, Feltrinelli, 2002.
Rosario Giuè, Il costo della memoria. Don Peppe Diana il prete ucciso dalla camorra, Cinisello Balsamo, Paoline, 2007.

*pubblicato nel n.1/2012 della rivista dei carmelitani di Sicilia, Horeb.

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