I corvi, il papa e la posta in gioco
A questo punto occorre pur dirlo. La vicenda dei corvi è anche la forma espressiva, sotto molti aspetti sciagurata ma efficace, trovata dalle tensioni interne in Vaticano in vista del nuovo conclave.
Senza voler mancare di rispetto al papa regnante, sul piano storico non si può ignorare che siamo entrati nella fase fibrillatoria che contraddistingue la fine dei pontificati, quando le forze in campo si muovono per guadagnare le posizioni migliori e raggiungere equilibri e accordi da far contare nel momento della scelta del nuovo papa. La posta in gioco è il papato che sarà, e il terreno di scontro è la politica attuata da Ratzinger, specie per quanto riguarda la sua lettura del Concilio Vaticano II.
In modo felpato, com’è nel suo stile, ma anche molto chiaro nei contenuti, Benedetto XVI ha di fatto riletto il Concilio in senso anti-innovativo. Basandosi sull’idea, incontestabile, che la Chiesa non ha né può avere una carta costituzionale, perché la sua sola “costituzione” è la sacra scrittura, Ratzinger ha però depotenziato l’eredità conciliare per quanto riguarda almeno quattro contenuti fondamentali del Concilio stesso: la collegialità, la liturgia, l’ecclesiologia, l’ecumenismo. Circa la collegialità, la prassi dei sinodi fa capire di che tipo sia lo svuotamento attuato. Il sinodo, creatura conciliare, nasce per dare voce al confronto fra i vescovi e per far giungere le loro istanze al papa, ma oggi questa è una finzione, perché al posto di un confronto aperto c’è solo un accostamento di voci sotto il controllo del potere centrale della curia, senza un autentico dibattito e senza la possibilità, per ogni vescovo, di interloquire con il papa e di avere da lui qualche risposta concreta.
Quanto alla liturgia, le simpatie di Benedetto XVI per il rito antico sono note, e da queste derivano le sue scelte. Il concilio, su questo piano, non è mai stato apertamente criticato, ma con l’andare del pontificato sono state ripristinate forme liturgiche decisamente preconciliari e la preoccupazione di Ratzinger per il recupero dei lefebvriani, con tutte le energie spese in proposito, è di per sé eloquente.
Sul piano dell’ecclesiologia, abbiamo un rinnovato centralismo, con il papa e la curia romana in posizione di preminenza, i vescovi nel ruolo di meri esecutori, senza possibilità di vero confronto, e i laici totalmente subordinati, chiamati in causa in funzione di supplenza e solo se del tutto in linea con le indicazioni centrali. La nozione di Chiesa come “popolo di Dio” sembra lontana, persa nelle nebbie di un clericalismo di ritorno.
Infine l’ecumenismo. Anche in questo caso, nessuna sconfessione aperta del concilio, ma se poi si vanno a vedere i comportamenti concreti si nota la regressione. Significativa la giornata di Assisi di un anno fa, dove la preoccupazione di evitare il sincretismo ha svuotato l’incontro di contenuto ecumenico per farlo diventare un pellegrinaggio fatto in comune ma senza reali segni di fraternità, e dove si è preferito accentuare il ruolo dei non credenti, trasportando così il confronto dal piano della preghiera a quello del confronto culturale.
Stando così le cose, mentre la Chiesa (per ammissione dello stesso Benedetto XVI) sta vivendo una pagina “drammatica”, segnata anche dalla disubbidienza di alcuni preti europei che, non trovando altre forme per manifestare le proprie richieste e il proprio disagio, hanno deciso di dire no al magistero su questioni come il celibato, la consacrazione ministeriale delle donne e il divieto di comunione per i divorziati risposati, dentro le sacre mura si confrontano e si scontrano le fazioni: continuare su questa strada che è di sostanziale ridimensionamento dell’eredità conciliare oppure aprire una pagina diversa, all’insegna del confronto tra i punti fermi del concilio, che devono restare tali, e le nuove realtà? Il fatto che il confronto sia emerso secondo le modalità che abbiamo sotto gli occhi, attraverso fughe di documenti, è di per sé significativo.
Quella che vediamo non è soltanto la crisi di questo papato. E una crisi del papato in quanto forma istituzionale. La concentrazione di potere, senza eguali, nelle mani di uno solo, l’influenza inevitabile che il ruolo di capo di stato ha su quello di capo spirituale e la mancanza di veri luoghi di dibattito all’interno della curia stanno determinando una situazione che, specialmente nel confronto con la società della comunicazione, si è fatta insostenibile. Un modello che ha retto per secoli sta mostrando ora crepe sempre più evidenti. Ma fino a quando la Chiesa, nella sua espressione gerarchica, potrà fingere di non accorgersene? Fino a quando la linea della segretezza potrà essere privilegiata rispetto a quella della trasparenza e la forma dell’assolutismo (che alimenta inevitabilmente manovre oscure e maldicenze) rispetto a un confronto aperto, magari anche duro ma istituzionalizzato? Fino a quando la paura dovrà prevalere sulla fiducia? Questa è la posta in gioco.
Questi i veri problemi che i corvi e le conseguenti battaglie fra guardie e ladri hanno portato alla luce.
Queste le vere tensioni che stanno sotto e dietro i fatti di cronaca. Se nella Chiesa cattolica ci fosse un’opinione pubblica sarebbero motivo di dibattito. Ma nella Chiesa una vera opinione pubblica non c’è, perché chi cerca di alimentarla viene costantemente mortificato ed emarginato. Ed anche su questo aspetto, a cinquant’anni dal concilio, bisognerebbe riflettere.