Educare alla nonviolenza in terra meridionale

26 luglio 2012 - Antonio Lombardi

Da tempo la “Questione meridionale” è uscita dall’agenda politica italiana e chi sente l’urgenza di un recupero di terreno del Sud, alla ricerca di alternative reali, può legittimamente interrogarsi se il pensiero e la pratica della nonviolenza possano giocare un ruolo significativo in tale processo di cambiamento. Quella che chiamo “cittadinanza attiva nonviolenta” ritengo che offra una prospettiva costruttiva anche in questo caso.
Iniziamo col ricordare che “nonviolenta” è un aggettivo che definisce, insieme, una categoria ermeneutica ed un nuovo stile di vita, secondo la lezione di Capitini e Lanza Del Vasto, e la concretezza di strategie e tecniche di partecipazione coraggiosa e creativa, che escludano l’aggressività distruttiva ma senza rinunciare all’affermazione efficace di sogni e bisogni. In questa cornice, la diffusione della cultura della solidarietà attiva, che si contrappone sia a quella dell’interesse privato ad ogni costo che all’atteggiamento di dipendenza inerte, può essere una notevole forza di trasformazione politico-sociale: ma necessita di un lavoro di educazione politica di base, che faccia scoprire a ciascuno il potere di cambiamento di cui è fornito e che può sprigionare organizzandosi con altri. Occorre, insomma, mettere insieme risorse disponibili e limiti emergenti, superando tanto l’individualismo che il fatalismo. Tutto ciò è la “nonviolenza del forte”, come proponeva Gandhi.
E veniamo al tema del Sud. Qui il processo nonviolento di emancipazione può giocarsi sul doppio versante, solo apparentemente contraddittorio, del recupero di identità e del recupero di universalità.

Recupero di identità, recupero di universalità
Il primo fa riferimento alla memoria storica, alla verità negata, al patrimonio culturale. Finché il Mezzogiorno non si riapproprierà decisamente della sua identità, faciliterà la propria spoliazione: perché un popolo non perde la libertà, la consegna. E continua a consegnarla ogni volta che collabora alla propria sottomissione, anche culturale. Senza darsi un programma costruttivo, e senza perseguirlo con sacrificio abbandonando ogni forma di consenso, quel popolo necessariamente resterà alla mercé dei suoi dominatori e sfruttatori. E’ evidente il contributo del pensiero nonviolento: l’esigenza di un progetto positivo e la responsabilità del proprio destino. Qui si innesta il tema del processo di unificazione italiano, perseguito nel XIX secolo, come annessione e depredazione del Sud. Quest’ultimo fu represso dalle forze armate, prima piemontesi e poi divenute italiane, che invasero uno stato sovrano (Regno delle Due Sicilie) senza dichiarazione di guerra, massacrarono soprattutto i civili e continuarono a mietere vittime anche dopo la resa. Il corpo dei bersaglieri fu il principale protagonista di questo scempio.
Il Governo italiano ha recentemente stabilito che il 17 marzo di ogni anno sarà la “Giornata della nascita dello Stato italiano”. Una Repubblica ancora troppo immatura non ha capito che proporre l’unità come un’etichetta applicabile su tutte le superfici senza prima ripulirle, significa lasciarle perdere sempre più il suo potere di aderenza. Ancora una volta si è persa l’occasione per istituire, come richiesto da molti di coloro che si rifiutano di archiviare la “Questione meridionale”, una giornata della memoria delle vittime innocenti della guerra di annessione ed una commissione per la verità storica sul decennio 1860-70. Eppure il pubblico e sincero riconoscimento del dolore sofferto da tanti e della spoliazione cui fu sottoposto lo Stato meridionale (il cui tesoro, che concorse a formare quello nazionale, all’atto dell’unificazione era superiore a quello posseduto da tutti gli altri stati preunitari messi insieme), potrebbe essere seme di riconciliazione e di pace. I popoli si uniscono più nella memoria rispettosa che con tragiche ed illusorie iniziative, come un 17 marzo senza ricordo delle stragi, delle deportazioni, dei paesi rasi al suolo per rappresaglia o come l’obbligo patetico, che si va profilando all’orizzonte, dell’inno di Mameli nelle scuole. Come fossero caserme.
In Sud Africa, negli anni novanta, subito dopo la lunga lotta nonviolenta per la liberazione di quel Paese dal regime di apartheid, fu istituita una “Commissione per la verità e la riconciliazione”. L’arcivescovo Desmond Tutu, premio Nobel per la pace, ispirò l’attività dell’organismo al fine di restituire alle vittime della segregazione razziale la dignità della loro umanità calpestata e tramandare la memoria del loro sacrificio, permettendo al contempo la reintegrazione nella società dei responsabili, attraverso la pubblica ammissione dei crimini. In tal modo si contribuì a facilitare il faticoso avvicinamento fra le diverse componenti della società sudafricana. In Italia tutto quello che si è saputo fare è deporre, nel 150° anniversario, una corona di fiori sulla tomba di Vittorio Emanuele II, dimenticando completamente le vittime sue e di persone come Cialdini, Bixio e molti altri che, se fossero vissuti al nostro tempo, si sarebbero ritrovati innanzi al Tribunale Penale Internazionale dell’Aja a rispondere di crimini di guerra. Tra il 1861 ed il 1870, anno in cui fu ufficialmente dichiarato sconfitto il cosiddetto brigantaggio, in vero la resistenza all’invasione straniera, il sangue del Sud fu versato copiosamente: oltre cinquemila condanne a morte, 54 paesi rasi al suolo, centinaia di migliaia di morti (con una stima che giunge sino ad un milione): oggi lo chiameremmo genocidio. Il 3 gennaio 1862, a Castellammare del Golfo (TP), a finire davanti al plotone di esecuzione fu una terribile brigantessa: Angela Romano. Aveva nove anni non ancora compiuti. Furono poi deportati al Nord tra 30.000 e 40.000 soldati del Regno delle Due Sicilie, come nel campo di concentramento di Fenestrelle dove morirono quasi tutti di stenti; molti furono sciolti nella calce e, nella fortezza sabauda, ancor oggi è visibile la vasca dove questo avveniva. Nel 1865 iniziò un fenomeno del tutto nuovo per la popolazione duosiciliana, che l’avrebbe accompagnata fino ai nostri giorni: l’emigrazione.
La nonviolenza non chiude gli occhi sulle violenze ed ingiustizie che hanno attraversato la storia, semmai le riconosce e le offre come opportunità di riparazione e riconciliazione.
Quanto al recupero di universalità, il Sud Italia si trova in una posizione privilegiata. Esso, infatti, è pur sempre “nord del mondo”, parte di quell’Occidente che tiene le redini di un’economia affamatrice di aree immense della Terra, ma al tempo stesso è sud interno di questo nord e, in quanto tale, potenzialmente più aperto a comprendere e condividere le lotte di liberazione che animano la storia dei popoli sfruttati. “Sud” è molto più di un luogo geografico, è un’idea di solidarietà che partendo dal “locale” diventa “globale” ed abbraccia tutti i sud del mondo. E’ evidente che in una tale prospettiva non c’è posto per il leghismo che è “pretendere di conservare disparità, per conservare (e magari accrescere) privilegi. Il meridionalismo è pretendere diritto all’equità. E’ un valore universale, buono ovunque e per tutti, non solo al sud dell’Italia e non solo per i meridionali” (Pino Aprile). Quanta debolezza, invece, si nasconde dietro l’odio, l’insulto, i desideri omicidi. Chi li avanza restituisce l’idea di una disperata convinzione della propria impotenza. La forza risiede nella capacità di amarsi ed amare, sapendo dire un “no!” -fattivo, fermo, sereno e pronto al sacrificio- ad ogni forma di collaborazione con lo sfruttamento. La mitezza coraggiosa e creativa è la nonviolenza all’opera.

Organizzare la speranza
Ma bisogna andare oltre il solo dire la speranza, occorre organizzarla. E, del resto, nonviolenti non ci si improvvisa. Da qui l’esigenza di avviare laboratori di formazione alla cittadinanza attiva nonviolenta, strategicamente funzionali al processo di emancipazione del Sud, dove imparare ad inventare azioni sorprendenti, spiazzanti, innovative, che restituiscano a ciascun cittadino la dignità, l’entusiasmo e la responsabilità di partecipare in prima persona alla lotta, magari modificando gesti quotidiani che spesso contribuiscono a mantenere in piedi un sistema iniquo e oppressivo. Ma anche luoghi in cui divenire consapevoli della propria storia e conoscere la bellezza della propria cultura. E’ una strada per svincolarsi dall’abitudine a svalutarsi ed irridersi, maturata perché qualcun altro ha insegnato alla gente del Sud a farlo, convincendola -giorno dopo giorno per oltre un secolo e mezzo- di essere incapace e cattiva. “Il nostro passato non è lontano millenni, come si racconta, ma solo centocinquanta anni. E’ necessario che la coltre di bugie che circonda la nostra identità collettiva sia fugata. La consapevolezza del passato ci aprirà gli occhi e ci permetterà di guardare al futuro” (Nicola Zitara).
Non rassegniamoci mai all’oscurità: la bellezza che possiamo esprimere è una forza più potente dell’oblio e della disperazione. Il Nord dell’Italia non ha alcun reale interesse a liberare ed a liberarsi del Sud. Chi comprerebbe le sue merci? Chi andrebbe a morire nelle sue guerre? Chi seppellirebbe a casa propria i suoi rifiuti tossici? L’interesse è del Sud e di tutti i “sud” nei confronti di tutti i “nord” del mondo. E allora la nonviolenza ci ricorda che quando si piomba in una stanza buia, invece di utilizzare le energie per maledire ed odiare l’oscurità, la cosa più efficace che si possa fare è... accendere una luce! Le tenebre, in tal modo, andranno via molto più presto. Accendiamo la luce che siamo! Per essere forti, liberi e uguali. Per essere meravigliosamente noi stessi, popolo meridionale, con la nostra grande e millenaria cultura e la nostra generosa operosità quotidiana. Per amare il Sud non abbiamo bisogno di odiare il Nord, abbiamo invece bisogno di smetterla di avversarci, anche solo inconsapevolmente e nei fatti.

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