Il testamento di un esploratore
Quando ho preso in mano Colti da stupore, il libro che raccoglie le ultime omelie tenute da Carlo Maria Martini all’Aloisianum di Gallarate, dove ha vissuto dal 2008 fino alla morte, sono andato subito a leggere il capitolo intitolato “L’amore per i passaggi difficili”, che propone una breve omelia del luglio 2009. I passaggi difficili non sono mai stati evitati dal cardinale Martini, che anzi se li è andati a cercare. Pensiamo alla cattedra dei non credenti a Milano, al dialogo intessuto con ebrei e musulmani, al suo ruolo di primo piano nel confronto ecumenico. Pensiamo al suo stesso motto episcopale, Pro veritate adversa diligere, ovvero “Per amore della verità amare le circostanze sfavorevoli”. Pensiamo alla sua visione del popolo cristiano come piccolo gregge mosso dalla passione per la testimonianza e non dalla pretesa di imporre un regime di cristianità. Pensiamo alle sue denunce limpide dei mali della Chiesa, fino all’ultima, poche settimane prima della morte. Pensiamo alle parole (diceva: «È un bene essere respinti») con le quali commentava il gelo o l’indifferenza degli ambienti curiali di fronte ai suoi interventi. Pensiamo a tutte le volte che disse che il cristiano deve lasciarsi inquietare dagli altri, anche dai non credenti, e dai segni dei tempi.
Bene, questa predilezione per i passaggi difficili non era solo un suo tratto caratteriale e intellettuale. Era una conseguenza della fede in Gesù, il quale non è mai stato comodo per nessuno, e dell’insegnamento di sant’Ignazio, il fondatore dei gesuiti, che chiedeva ai suoi figli di andare in tutto il mondo ad annunciare il Vangelo. Martini parla, a proposito di Ignazio, di “libertà dello spirito”. Quella libertà che impedisce di legarsi a un dato contesto culturale o politico, magari con la speranza di riceverne privilegi, e spinge invece ad affrontare il mare aperto. Una caratteristica di questa libertà è l’amore per le terre di confine, tipica dei gesuiti e in particolare di Martini. È l’amore «per i passaggi difficili tra una cultura e l’altra; l’amore per le esplorazioni di nuovi territori anche in campo culturale e teologico». Con il cristiano che si muove come un esploratore « verso terre oscure e lontane», avvicinando così popoli diversi ma anche «diverse forme del credere e del non credere».
Di questa libertà dello spirito, spiega Martini, fa parte anche l’amore per Gerusalemme. Città che non a caso è la prima menzionata da sant’Ignazio nella sua autobiografia, quando ancora era costretto a vivere nella casa paterna per curarsi. Ignazio andrà a Gerusalemme nel 1523, e ne resterà così ammaliato da desiderare fortemente di fermarsi, esattamente come accadde a Martini. Proprio come Martini, il fondatore della Compagnia di Gesù poté restarvi solo per poco, ma il luogo gli rimase per sempre nel cuore. Solo un’infatuazione sentimentale? No, risponde Martini. In realtà, «il richiamo a Gerusalemme è sempre importante per tutta la Chiesa di Dio», perché «riporta la Chiesa alle sue origini, ai primi tempi umili e insieme coraggiosi e gloriosi, a quei tempi che la Chiesa stessa non deve mai dimenticare se vuole cercare in ogni cosa la maggior gloria di Dio».
Umiltà, coraggio. Sono parole care a Martini. Che non ha mai smesso di raccomandarle alla Chiesa.
E qui mi sembra importante l’omelia che Martini tenne il primo gennaio 2009, intitolata “La povertà: il dna del nostro benessere”. Ricordando, con san Paolo, che Gesù non ritenne un privilegio essere il figlio di Dio, ma anzi «svuotò se stesso», il cardinale tiene a sottolineare che la povertà non è soltanto qualcosa da combattere, ma è più propriamente qualcosa da cercare, come stile di vita, come atteggiamento interiore, come strada da percorrere concretamente dalla Chiesa.
Martini lega la riflessione al Concilio e sottolinea che il Vaticano II a un certo punto sembrò voler fare proprio della povertà il tema centrale, così com’è nelle sacre scritture. Sarebbe stata una svolta decisiva, ma ci furono opposizioni. Parecchi, ricorda il cardinale, non capirono o non vollero capire. Pensavano che il tema della povertà fosse troppo settoriale, oppure lo vedevano in una prospettiva sociologica, ignorandone la portata teologica. In realtà, annota Martini, il tema della povertà «ci permette di giungere in qualche modo fino alla profondità di Dio» e «forse proprio la trascuratezza e l’incertezza riguardo a questo tema non hanno permesso al Concilio Vaticano II di raggiungere tutti i frutti che faceva sperare».
Il libro ha un’introduzione di don Damiano Modena, l’angelo custode di Martini negli ultimi anni a Gallarate. «Lo stupore e la curiosità – scrive don Damiano – danno a queste omelie un tono di unicità». Lo stupore e la curiosità di un ultraottantenne che, negli ultimi tempi, sempre più minato dal Parkinson che lo condannò all’afonia, segnava i periodi con barre verticali per ricordare i punti in cui prendere fiato.E oggi, grazie a questi testi, siamo noi a prendere fiato.