Al di là dei muri
Vi sono alcuni muri che sottendono a tutti gli altri, a quelli costruiti con cemento e filo spinato per custodire la fragile sicurezza di chi ha paura, che alti si ergono tra due popoli ritrovatisi a vivere insieme. E sono questi i muri più pericolosi, cause prime della divisione, questi muri costruiti con mattoni di rifiuti e rancori, fabbricati con precisione accurata da religiosi, politicanti, uomini armati, a loro volta cresciuti circondati da altri muri, enormi e spaventosi, in una folle spirale di segregazione e paura, senza fine.
Ma c’è chi, all’ombra dei muri, si arrampica, incespicando, ne raggiunge la sommità, e guarda al di là, e di là viene guardato, e riconosciuto. E allora…
25 aprile, gli abitanti di At-Tuwani iniziano il raccolto dell’orzo in anticipo, dopo che i vicini di casa dell’avamposto di Havat Ma’on han fatto pascolare le proprie greggi sui loro campi, di cui ne hanno distrutto una vallata intera.
Sono le 10, e i raccoglitori e le raccoglitrici stan facendo una pausa bevendo tè,
quando due ragazzi escono dall’avamposto, uno di questi molto giovane, e si dirigono verso di loro con fare poco amichevole. Due dei contadini gli vanno incontro, e prima che i due ragazzi possano dire qualsiasi cosa, si ritrovano a stringere la mano dei palestinesi. Inizia comunque la classica dichiarazione di guerra, “Tutta questa terra è nostra, consegnataci da Dio, voi non potete coltivarla”, ed aggiungono, “andatevene, noi vogliamo la pace”. Pronta la risposta: “Se volete la pace, sedetevi a bere il tè con noi”.
I due no, non possono accettare, la loro guerra deve continuare, con lo stesso vecchio nemico grottescamente dipinto, e si limitano ad andarsene, il più giovane tirando qualche sasso, più per abitudine che per convinzione.
Ed a ma piace pensare che se ne siano andati avvertendo, in cuor loro, una sconfitta. Perché sono stati affrontati con un’arma a loro sconosciuta. Con il tè.
26 aprile, è la festa d’indipendenza dello Stato d’Israele, e una comitiva di ragazzini israeliani è in visita in quelle che nei loro occhi sono le loro terre. Camminano per i campi palestinesi, e fino al villaggio di Umm Fagarah, dove sostano in mezzo alle case, mentre la guida racconta loro qualche storia. Gli abitanti del villaggio escono dalle case per studiare la situazione, e un anziano si avvicina al gruppo in visita, da cui si staccano due persone, una delle quali con in braccio un fucile, per andargli incontro. L’uomo gli stringe la mano, chiedendogli se abbisognano di acqua.
È una giornata calda, dice, probabilmente avrete sete.
Il gruppo declina l’offerta, ringraziando ripetutamente. Dopodiché la guida dice poche altre parole, e tutti se ne vanno, dopo aver ringraziato una volta ancora.
E allora a me piace pensare, che i ragazzi in gita se ne siano andati dopo aver parlato con un arabo, sì, ma soprattutto con un essere umano, quale loro.
E che sono questi i momenti preziosi in cui qualcuno raccoglie la forza, da dietro l’ombra del suo muro, per arrampicarsi timidamente in cima, e guardare al di là, dove intravede, sulla sommità del muro che si ritrova davanti, un altro qualcuno, che ricambia lo sguardo. E quest’ultimo scopre un paio di occhi limpidi, e profondi, e, forse, riesce addirittura a vederci l’umiltà e la dignità che vi si celano dietro.
E se nessun muro è stato distrutto, nessuna condanna ritrattata, nessun dogma messo in discussione, perlomeno si è aperta una breccia, uno spiraglio, piccolo quanto gli occhi di un uomo, grande quanto il suo senso di umanità.
Ed è questo un atto rivoluzionario, e liberatore, troppo più profondo di un giudizio, e troppo più pervasivo della paura.