OBIEZIONE

L'altra difesa

Obiettori di coscienza ieri e oggi. Quali motivazioni spingevano i giovani a difendere la Patria in modo nonviolento?
Diego Cipriani

Ha ancora senso parlare di servizio civile in termini di pace, anche se non è più legato, in Italia come in altri Paesi, all’obiezione di coscienza al servizio militare? Coloro che svolgono, volontariamente, oggi il servizio civile possono considerarsi degli “operatori di pace”?
È noto come cinquant’anni fa il Concilio Vaticano II, nella Gaudium et Spes, timidamente citava “coloro che, per motivi di coscienza, ricusano l’uso delle armi, mentre tuttavia accettano qualche altra forma di servizio della comunità umana”. E poco prima i Padri conciliari avevano affermato che “La pace non è stata mai stabilmente raggiunta, ma è da costruirsi continuamente”. Ebbene, è proprio da questa convinzione che gli obiettori di coscienza hanno pronunciato il loro “no” alla guerra e alla sua preparazione e contemporaneamente detto “sì” a una pace che ci costruisce con le ‘armi’ della nonviolenza.

Obiettori
Come è noto, da alcuni anni il venir meno della leva obbligatoria impedisce, almeno formalmente, l’obiezione di coscienza al servizio militare ma questo non vuol dire che siano venute meno le ragioni per cui quasi un milione di ragazzi italiani, dal 1972 al 2005, hanno obiettato e svolto un servizio alternativo. L’obiezione di coscienza rettamente intesa, infatti, non era e non è solo il rifiuto personale dell’uso delle armi o di indossare una divisa: lo stesso don Milani, che negli anni Sessanta difese gli obiettori di coscienza dalle accuse di viltà formulate dai cappellani militari, non impedì ai suoi ragazzi di andare a fare il militare. È, più in generale, il rifiuto del sistema della violenza organizzata e della guerra come mezzo per risolvere i conflitti. È la proposta di una visione diversa delle relazioni tra singoli e tra popoli; in una parola: la nonviolenza.
Quando, l’8 marzo 2003, Giovanni Paolo II definì il servizio civile un “segno dei tempi”, riconobbe in fondo il senso profetico di un’esperienza che non senza difficoltà si era andata affermando nel nostro Paese. E quando, il 28 marzo 2009 (quando cioè l’esperienza degli obiettori di coscienza era già conclusa), papa Benedetto XVI ricevette in Vaticano i giovani volontari del servizio civile nazionale italiano, definì il loro servizio una “missione di pace”. In quell’occasione, ricordando come il Concilio aveva auspicato di pensare alla costruzione della pace con nuove vie e che è stato lo stesso Gesù a indicare la via, non “con un esercito, ma attraverso il rifiuto della violenza”, papa Benedetto sottolineava come questa via, oltre che dai “tanti uomini e donne di buona volontà, testimoni coraggiosi della forza della nonviolenza”, era percorsa anche da quegli “operatori di pace” che sono quanti svolgono proprio il servizio civile. E ad essi rivolgeva l’appello ad essere “sempre e dappertutto strumenti di pace, rigettando con decisione l’egoismo e l’ingiustizia, l’indifferenza e l’odio, per costruire e diffondere con pazienza e perseveranza la giustizia, l’uguaglianza, la libertà, la riconciliazione, l’accoglienza, il perdono in ogni comunità”.
Ma non è solo per i credenti che il servizio civile può essere un modo per realizzare la beatitudine dei costruttori di pace. Lo è anche per chi non crede.

La difesa della Patria
La legge che nel 2001 ha istituito il servizio civile nazionale, infatti, dice espressamente che esso concorre, “in alternativa al servizio militare obbligatorio, alla difesa della Patria con mezzi e attività non militari” e che è un mezzo per favorire la “educazione alla pace fra i popoli”. Era il 1985 quando la Corte Costituzionale, in una famosa sentenza, stabilì che il servizio civile degli obiettori di coscienza non era affatto un modo per sottrarsi al “sacro” dovere di difendere la patria sancito dalla nostra Costituzione, poiché la patria si può appunto difendere con le armi (servizio militare) o senza le armi (servizio civile). Dunque, anche se l’obiezione di coscienza non viene più richiesta ai giovani d’oggi, il servizio civile che in tanti (purtroppo sempre meno, in questi ultimi anni, a causa della mancanza di fondi) svolgono non ha perso la sua matrice “pacifista” e nonviolenta.
È vero che l’accento posto sul “servizio”, sull’azione solidale e sull’”utilità sociale” di questa esperienza rischia di oscurare la sua valenza nonviolenta, ma è proprio partendo da questo impegno a costruire una comunità più giusta, a combattere le disuguaglianze, a riaffermare il concreto esercizio dei diritti fondamentali che si possono recuperare le radici di una pacifica convivenza e di una cittadinanza universale.
È in fondo quello che fanno anche i “caschi bianchi”, giovani volontari che scelgono di svolgere il loro servizio civile all’estero, in Paesi in cui la pace è spesso molto più lontana dalla realtà che non nel nostro e in cui la guerra e la violenza mietono vittime. Come hanno cercato di fare Elisa, Valentina, Luca, Patrizia, Angelo e Ilaria, nel progetto sperimentale sulla difesa civile non armata e nonviolenta “Caschi Bianchi: Oltre le Vendette” conclusosi nel novembre scorso e realizzato dall’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, dalla Caritas Italiana e dalla Focsiv in favore delle famiglie che, in Albania, sono ancora vittime di faide e vendette di sangue regolate dal secolare codice Kanun e per le quali la riconciliazione è un valore tutto da scoprire. Anche così si può costruire la pace.

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