Not in my name
Pacifismo – diceva Balducci – è una parola inventata dai guerrafondai. Egli preferiva dirsi uomo di pace. Infatti, la parola pacifismo, con quel suo “ismo”, si rende sospetta agli uni e agli altri. Vediamone alcuni significati.
Per chi crede inevitabile e, in certi casi, giusto e necessario l’uso della forza militare, il pacifismo è viltà, è fuga dalla realtà e dalla responsabilità. In questo senso esprime un disprezzo, che ogni sincero costruttore di pace non accetta, perché la sua ricerca concreta e faticosa non lo merita.
Anche per chi lavora sulla linea di pensiero e di spiritualità gandhiana, pacifismo può suonare viltà. Per Gandhi il conflitto non è da evitare, ma da condurre con la forza della nonviolenza, verso una pace fondata sulla giustizia, una giustizia a sua volta cercata coi mezzi della pace. Pacifismo, se volesse dire una pace-tranquillità ad ogni costo, senza turbare l’ordine esistente e le sue ingiustizie, sarebbe la nonviolenza del debole, anziché la nonviolenza del forte. Il debole sceglie una pace anche ingiusta, che non è pace. Egli non fa violenza, ma neppure costruisce giustizia, cioè vera pace. Accettando un ordine ingiusto egli collabora a una violenza: non è davvero nonviolento. Il forte, invece, sceglie la lotta contro il disordine, per superare l’ingiustizia, per costruire un ordine vero di rapporti: sarà vera pace quella che renderà giustizia ad ogni essere. Si tratta di un traguardo, un orizzonte, che muove il cammino concreto, mai del tutto concluso su grande scala. Ma allora, più che la bandiera ideologica “pacifismo”, conta l’azione per individuare e superare, con la forza dell’anima e con la tensione alla verità, le particolari violenze materiali, strutturali, culturali.
Certo, pacifismo esprime anche, correntemente, il rifiuto della guerra, la ricerca di tutti i mezzi alternativi politici, diplomatici, popolari, di mediazione e riconciliazione, pur di sfuggire all’inferno, al dolore, alla vergogna della guerra. In questo senso è un grido umano di alto valore, che viene da ogni cuore umano offeso, prima ancora che fisicamente minacciato, dalla logica e dalla pratica di guerra. In questo senso il pacifismo è un diritto umano primario, come la vita: la politica umana, la cultura seria, l’informazione onesta, dovrebbero sostenere e difendere il diritto-dovere di ripudiare la guerra, con tutte le loro forze, senza risparmio, senza concessioni al buio realismo dell’apparato industriale-militare-mediatico, terribilmente influente sulle società ingannate, costrette, corrotte.
Questo pacifismo istintivo, vitale, sano, è vero della stessa verità dell’essere e della vita. Se le civiltà, le religioni, le sapienze, patrimonio plurale e indivisibile di tutta l’umanità, si stringessero di più nella collaborazione essenziale, potrebbero affermare nella storia concreta questo diritto a vivere, a sviluppare la vita, che nessuno, e nessuna ragione, devono poter offendere. Eppure, proprio se cerchiamo di ascoltarlo e obbedirgli, questo grido pacifista non ci può bastare. La guerra ripugna perché uccide, perché calcola e organizza la morte – sempre! – come uno strumento per dominare. E ogni politica di dominio, anche quando non spara e non bombarda, calpesta l’inviolabile umanità, la dignità di ogni vita.
Dire no ad ogni guerra è giusto ed è insufficiente. Bisogna guardare dietro il muro di fuoco e di sangue. Che cosa muove questo carro di morte contro l’umanità? Peggio, chi convince degli umani a guidare questo carro contro altri umani?
La violenza strutturale
Dietro la violenza fisica, materiale, militare, c’è la violenza fissata nelle strutture economiche, giuridiche, abitudinarie. E queste resistono perché le sostiene la violenza peggiore e più grave: quella delle culture violente. Questa analisi ormai classica della violenza, che la distingue in violenza fisica, strutturale e culturale, è essenziale per andare oltre un primo pacifismo tanto giusto quanto generico, e spesso sterile, frustrato.
Non basta ripudiare la guerra se non si lavora sulle strutture e le culture che la generano. Ritengo che la nonviolenza attiva e positiva sia questo lavoro critico e propositivo: passare dal pacifismo alla costruzione della pace, fin dalle sue radici nelle menti e nei cuori. La nonviolenza – nel metodo che Gandhi ha raccolto dalle sapienze, ha sperimentato e trasmesso – col “non” sembra essere una negazione, in realtà è una forza: forza della verità (satyagraha), cioè dell’attenerci alla verità che progressivamente possiamo conoscere, sempre correggendo i nostri errori; forza dell’anima, dello spirito, la forza umana, e non delle armi o della ricchezza; la «forza di amare» (come diceva Martin Luther King).
Si tratta della verità nel pensare il mondo e la realtà vivente; si tratta della verità del linguaggio, della comunicazione, dell’informazione. Si tratta della verità dei rapporti umani, sia privati che sociali e politici, tra i quali i rapporti economici hanno un grande peso: oggi, probabilmente, la forma maggiore di violenza è quella economica organizzata; è la guerra dell’avidità alla giusta distribuzione per lo sviluppo di ogni vita, in ogni popolo.
Si tratta, nella nonviolenza, della forza umana, della consistenza che viene dalla formazione della persona, del carattere, della conoscenza, della resistenza alle avversità e alle sofferenze, della volontà. Si diventa attori di pace crescendo oltre l’anti-bellicismo e l’anti-militarismo.
Vedo una differenza e antitesi tra forza e violenza: la forza è una qualità della vita, della costruttività; la violenza è l’uso distruttivo della forza, contro la vita. È un inganno usare le due parole come sinonimi, si devono invece distinguere bene le due differenti e opposte realtà.
Allora, andiamo oltre il pacifismo, nella nonviolenza attiva e tenace, verso la pace. Sì, ma la pace è un orizzonte così grande che ci può disorientare. è come la piena felicità: tanto bella da fuggire sempre via da noi, lontana. Possiamo scoraggiarci e rinunciare, adattarci alle cose come sono, scavarci una nicchia nella realtà imperfetta. Dicono che l’ideale della pace è per “anime belle”, fuori dal mondo. Dicono che la realtà è quella che è, dove il pesce grosso mangia il pesce piccolo. Ma, risponde Aldo Capitini, questa «è una realtà provvisoria, insufficiente, e io mi apro a una sua trasformazione profonda, a una sua liberazione dal male nelle forme del peccato, del dolore, della morte. Questa è l’apertura religiosa fondamentale» (Religione aperta, p. 7). E Balducci risponde che, specialmente dopo Hiroshima, la pace è «il realismo di un’utopia»: il destino umano è diventato unico, e la pace non è un bel miglioramento utopico, ma la condizione minima realistica per la sopravvivenza.
Verso il futuro
Il massimo e il minimo si avvicinano, il tempo stringe. Non si può lasciare la pace in un futuro augurabile, se non c’è pace oggi. Perché altrimenti un futuro non ci sarà. Eppure il minimo, il “non distruggerci”, subito ha bisogno di affacciarsi e avviarsi verso la pace piena, per quanto lungo e complesso sia il nostro cammino. Il mondo patisce conflitti sanguinosi (sebbene gli osservatori dicano che in quantità oggi sono minori rispetto a tempi precedenti) e nel contempo la coscienza comune è meno rassegnata alla loro inevitabilità, e, con passi avanti e passi indietro, il mondo cerca istituzioni planetarie che assicurino la pace, pur dopo avere introdotto tra le possibilità la distruzione totale.
Si riconoscono nel messaggio del Papa per la 46a Giornata Mondiale della Pace, “Beati gli operatori di pace”, queste dimensioni dilatate e concentrate dell’impegno di pace. In sintesi, l’appello richiama la pienezza e molteplicità del concetto di pace (concetto polisemico, diceva Panikkar: cioè simbolo ricco di più significati), a partire dall’essere umano: pace interiore e pace esteriore, le antropologie pessimistiche del nichilismo e della rivalità, quelle positive della dignità di ogni persona, e dell’impegno, della speranza, di chi sente, anche in modo germinale, che la vita ha una promessa.
Nel 50° sia del Concilio Vaticano II, sia della Pacem in terris, la riflessione cristiana e umana sulla pace tiene presenti le crisi planetarie: dell’economia, delle istituzioni e della politica, e della democrazia stessa. L’attenzione a queste e ancora altre dimensioni (la pace con la terra stessa) del valore-pace ci potranno condurre dal pacifismo reattivo all’attivo profondo lavoro di pace.