MAGISTERO

La Chiesa della Pace

Pacem in Terris: una nuova parola per la comunità dei credenti. Una prospettiva disarmata, lungimirante e inclusiva.
Giovanni Turbanti (Insegnate, ricercatore Fondazione per le Scienze Religiose “Giovanni XXIII di Bologna)

Al momento della firma ufficiale del documento il 9 aprile 1963, nella cerimonia ripresa dalla televisione italiana, Giovanni XXIII spiegava così il fatto inconsueto di un documento pastorale che si rivolgeva esplicitamente a tutti gli uomini: “Sul fronte dell’enciclica batte la luce della divina rivelazione, che dà la sostanza viva del pensiero. Ma le linee dottrinali scaturiscono altresì da esigenze intime della natura umana, e rientrano per lo più nella sfera del diritto naturale. Ciò spiega un’innovazione propria di questo documento, indirizzato non solo all’episcopato della Chiesa universale, al clero e ai fedeli di tutto il mondo, ma anche ‘a tutti gli uomini di buona volontà’. La pace universale è un bene che interessa tutti indistintamente; a tutti quindi abbiamo aperto l’animo nostro” (Giovanni XXIII, Discorsi, Messaggi Colloqui del Santo Padre Giovanni XXIII, vol. 5, Città del Vaticano, Tip. Poligl. Vaticana 1964, pp. 192-193, citato in A. Melloni, Pacem in teris. Storia dell’ultima enciclica di Papa Giovanni, Roma-Bari, Laterza 2010, p 80-81).

A tutti gli uomini
L’indirizzo a tutti gli uomini era, infatti, uno degli aspetti più innovativi dell’enciclica e rimandava a una precisa concezione del rapporto tra la dimensione naturale e quella soprannaturale della rivelazione: ciò che viene rivelato nella fede corrisponde a ciò che l’uomo riconosce di più proprio nella sua intima natura e nella sua storia. E nell’intimo della natura dell’uomo il pontefice aveva scorto un profondo desiderio di pace. “La pace sulla terra” era “l’anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi” – così cominciava l’enciclica – e poteva essere consolidata “solo nel rispetto dell’ordine stabilito da Dio”.
Le circostanze relative alla preparazione dell’enciclica sono ormai largamente note (è stata pubblicata da A. Melloni nel citato volume, in cui viene ricostruito meticolosamente l’iter redazionale, nda). Sebbene non siano disponibili i documenti iniziali di mons. Pavan, l’estensore dell’enciclica, abbiamo quelli provenienti dagli archivi di Giovanni XXIII, tra i quali anche la redazione del gennaio 1963, testo base per le osservazioni del pontefice e per le elaborazioni e correzioni successive. La ricostruzione dell’iter redazione proposta da Alberto Melloni mostra con chiarezza gli aspetti dell’enciclica più direttamente riconducibili alle intenzioni del Papa. Un antefatto importante era stato sicuramente la crisi internazionale intorno alle basi missilistiche sovietiche a Cuba, nell’ottobre precedente: di fronte a una situazione bloccata dal punto di vista diplomatico, con le due superpotenze che sembravano ineluttabilmente volte alla crisi definitiva anche contro le loro reali intenzioni, il pontefice aveva rivolto alla radio un appello contro la guerra, dando voce al «grido dell’umanità» che voleva la pace. Pochi giorni dopo, quando la crisi appariva ormai scongiurata, papa Giovanni ne richiamò con soddisfazione l’esito, rilevando come la pace battesse ormai alle porte: “si affaccia un po’ qua un po’ là: e promette – mentre queste porte cominciano ad aprirsi – di giungere alla sua piena affermazione”; ricordava il momento in cui “sono arrivate le prime notizie di una quiete che va e andrà sempre più estendendosi, nel senso che noi definiamo cristiano”, una pace che solo così sarebbe stata vera e avrebbe reso “veramente tranquilla la famiglia umana”.

Popoli e persone
La convinzione che, al di là di tutto, l’esigenza di pace fosse profondamente radicata nell’uomo e nei popoli, la percezione della pace come quiete e tranquillità nella condizione della storia, sono due aspetti caratteristici che ritroviamo anche nell’enciclica, all’interno dell’architettura dottrinale più ampia costruita da Pavan. Rimandano ad una considerazione positiva della natura degli uomini nient’affatto scontata e ricca di accenti nuovi nella tradizione del magistero della chiesa.
Da questo punto di vista la Pacem in terris ha segnato anzi una svolta fondamentale nel magistero della chiesa sulla pace. Nel passato, il discorso sulla guerra e sulla pace era stato affrontato dalla teologia e dal magistero in due diversi ambiti: da un lato c’era stata la dottrina della «guerra giusta» che riguardava in modo specifico l’aspetto morale, in quanto stabiliva le condizioni di legittimità proprie di un conflitto. Dall’altro lato la dottrina sociale si era occupata invece dei principi per la costruzione di un ordine sociale cristiano rettamente inteso. La dottrina della guerra giusta, con le sue sottili distinzioni, aveva trovato espressione alla fine nel magistero di Pio XII, che aveva enunciato due principi apparentemente semplici: condanna della guerra di aggressione e condanna dell’uso delle armi moderne per i loro possibili effetti catastrofici. Ma papa Pacelli aveva riaffermato anche il principio di legittima difesa, senza offrire soluzioni chiare all’aporia fondamentale tra diritto di difendersi e uso delle armi adeguate. Da parte sua la dottrina sociale aveva fondato il discorso sulla pace a partire dal principio agostiniano della «tranquillitas ordinis» e da quello biblico che la vedeva come «opus justitiae». I due discorsi, quello sulla pace e quello sulla guerra, sembravano tuttavia procedere separati tra di loro, due ambiti di riflessione autonomi che si sviluppavano in modo deduttivo dai principi propri a ciascun ambito.
Eppure per la Chiesa la possibilità di affermare qualcosa di positivo sulla pace dipendeva dalla sua capacità di dire una parola netta anche sulla guerra. Da questo punto di vista la prospettiva induttiva della Pacem in terris ha cercato una strada diversa, inaugurando un linguaggio nuovo. Secondo Giovanni XXIII il problema della guerra superava la questione della sua legittimità e moralità proprio perché si radicava, esattamente come il discorso sulla pace, in una profonda esigenza dell’uomo e dei popoli. Anche la condanna della corsa agli armamenti si inseriva coerentemente in questo quadro e la condanna della guerra in assoluto, fondata sulla crescente consapevolezza di tutti gli uomini, rappresentava agli occhi del pontefice l’esito di uno dei più espliciti «segni dei tempi» che la storia sapeva offrire.
Nella Pacem in terris il discorso sulla pace era prima di tutto un discorso in positivo, intendeva cioè individuare alcuni concreti principi di costruzione della pace legati alla stessa natura umana. Voleva essere per questo un discorso condiviso con tutti gli uomini di buona volontà, cioè anche non credenti o fedeli di altre confessioni e religioni. In questa prospettiva positiva l’enciclica includeva anche la condanna della corsa agli armamenti e della guerra in se stessa. Così questa condanna veniva sottratta all’ambito morale e giuridico, ambito che si era rivelato storicamente incapace di superare l’aporia della legittimazione del principio di difesa e della condanna della guerra e aveva condotto solo alla casistica di una più o meno convincente legittimazione della guerra. L’aporia non è stata risolta in modo definitivo dall’enciclica ma, ponendo la condanna della guerra sulla base di una esigenza fondamentale della stessa natura umana, essa la sottraeva alle argomentazioni casistiche tradizionali della dottrina della guerra giusta.
La novità del linguaggio della Pacem in terris venne percepita prima di tutto dai vescovi del Concilio Vaticano II che, riunito in quegli anni, dovette confrontarsi con questo nuovo stile di parola. La commissione mista per lo schema sulla presenza della Chiesa nel mondo moderno, che prevedeva anche un capitolo sulla pace e la guerra, percepì subito l’insufficienza del testo che aveva preparato e cercò di recuperare nelle redazioni successive qualcosa dell’ispirazione espressa dal pontefice. Tuttavia non abbandonò del tutto l’impostazione precedente che si ispirava invece più direttamente all’insegnamento di Pio XII. Tra i padri conciliari era molto diffusa la preoccupazione degli effetti politici che una condanna troppo esplicita del possesso e dell’uso delle armi moderne avrebbe potuto comportare. Alcuni vescovi statunitensi criticarono apertamente le interpretazioni troppo radicali che molti commentatori e molti teologi avevano dato dell’enciclica giovannea e, negli ultimi frangenti della redazione della Gaudium et spes, ottennero che la costituzione pastorale riportasse solo in nota la frase di condanna formulata dall’enciclica: «Per cui è irragionevole pensare che, nell’era atomica, la guerra possa essere ancora utilizzata come strumento di giustizia», considerata da tutti come un’affermazione culminante dell’enciclica.

Nel tempo
Le difficoltà del Concilio sono state anche, negli anni seguenti, le difficoltà di una recezione che della Pacem in terris proseguisse il percorso. I presupposti dell’enciclica e il suo nuovo linguaggio sono stati un riferimento imprescindibile per il successivo sviluppo del magistero della Chiesa sulla pace, ma non sempre ad essi è corrisposta la rinuncia alle categorie del discorso sulla guerra, non sempre il tema della solidarietà del genere umano è prevalso sui timori delle divisioni ideologiche e sulla valutazione “realistica” della situazione politica. Il principio del dialogo, che ha guidato il pontificato di Paolo VI, non è stato sufficientemente energico da sostenere, da parte del pontefice, una parola decisa contro i bombardamenti statunitensi in Viet Nam. E di fronte alle coraggiose e solitarie condanne dell’intervento occidentale nelle guerre del Golfo da parte di Giovanni Paolo II, molti si interrogavano sul significato della riproposizione della dottrina della guerra giusta nelle pagine del Catechismo della Chiesa cattolica.
Molte cose sono cambiate rispetto agli anni dell’enciclica nella situazione internazionale, nelle condizioni tecnologiche, negli stili di vita e nella cultura dei popoli. Molte affermazioni del testo di Giovanni XXIII possono oggi apparire meno urgenti e significative. Giustamente gli storici si interrogano sui retaggi dottrinali che essa porta ancora con sé. Tuttavia è difficile non riconoscere proprio in quel testo l’inizio di un modo nuovo di porsi della Chiesa di fronte al mondo. Il messaggio proposto dalla Pacem in terris, negli aspetti metodologici più che nel suo stesso contenuto, continua a rappresentare l’esempio di quella parola che la Chiesa, in forza dell’umanità di cui si riconosce partecipe, può ancora dire con autorevolezza al mondo.

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