SPIRITUALITÀ

Variazioni cromatiche

Rileggendo il discorso della montagna, affiora una nuova visione del mondo.
Un abbraccio onnicomprensivo che include ogni dimensione e ogni aspetto della vita. Per sconfiggere, alle origini, la violenza. Di qualunque colore essa sia.
Lidia Maggi e Angelo Reginato

Che cos’è questo discorso che da duemila anni continua a fare breccia, e non solo tra i cristiani? Matteo lo presenta come il primo discorso di Gesù. Primo, e dunque programmatico. Primo di una serie di cinque che collegano idealmente la predicazione di Gesù a quella di Mosè, a cui vengono attribuiti i primi cinque libri della Bibbia, la cosiddetta Torà. Come Mosè ha ricevuto sul monte Sinai la Parola alternativa a quella del faraone, che fino a quel momento costituiva il punto di riferimento per il popolo ebraico, schiavo in Egitto, così Gesù, su un altro monte, apre ai suoi uditori uno scenario alternativo, dove la felicità viene perseguita battendo sentieri inediti.
Il sermone sul monte (Mt 5-7) è niente meno che una nuova visione di mondo. Di un mondo che ricerca la felicità (beati…) e la persegue abbracciando il progetto divino (quel Regno che sta a indicare il mondo come Dio lo vuole).
Nessuna retorica sulla felicità, come quella che da tempo siamo abituati a sentire. Del resto, un mondo felice non lo si costruisce a suon di slogan. Non è questione di formule vincenti, di ricette preconfezionate. Un mondo comprende tutto: privato e pubblico, pensiero e azione, sacro e profano. La beatitudine promessa non si riduce a un’armonia interiore, a sensazioni a fior di pelle, a momenti speciali.
Programmatico per l’esistenza di Gesù e dei suoi, questo discorso può diventarlo anche per noi, a patto di essere disposti a ricostruire la nostra casa sulla roccia, anche in questo nostro tempo all’insegna della “liquidità”.
Innanzitutto, riprendiamo in mano il progetto. La scorsa veloce che gli abbiamo dato non è sufficiente per comprenderlo. Già il solo fatto che quel discorso inizia con un ritornello ripetuto per ben nove volte (“beati… beati…”), ci suggerisce che siamo di fronte a una parola su cui ritornare con sguardo lento, con atteggiamento meditativo, bandendo la fretta di chi vuole subito sapere cosa deve fare. L’andamento lento ci consentirà di domandarci il motivo di quella felicità proclamata contro ogni evidenza. E di intuire che non è questione di “eccellenza” etica: è sentire teologico; è lo strano modo di agire del Dio biblico, che si prende cura dei poveri, dei perdenti, di coloro che ricercano la pace e la giustizia. A noi viene chiesto di condividere il medesimo sguardo, di utilizzare questa insolita chiave di lettura, che “passa la storia al contropelo” (W. Benjamin), che fa intuire ciò che ai sapienti e agli intelligenti è inevitabilmente nascosto.
Il mondo trasfigurato, indicatoci da Gesù, è per l’appunto un mondo. Costruirvi la pace, coniugando mitezza e sete di giustizia, è l’opera di una intera esistenza, è uno stile di vita che abbraccia ogni ambito e momento.
Lo sappiamo. Ma lo dimentichiamo in fretta, succubi di uno sguardo schiacciato sull’attualità, senza respiro. Gli occhi nuovi che Gesù ha aperto sul mondo individuano, per forza di cose, nuovi ordini del giorno, un diverso modo di abitare il tempo, di agire nella storia. Una modalità trasfigurata ma non per questo meno realistica. Anzi! Proprio perché è in gioco nientemeno che il mondo come Dio lo vuole, la pluralità degli aspetti in questione sarà il punto di partenza di chi decide di prendere sul serio la beatitudine evangelica.

Plurale
Plurale, del resto, è quella violenza che si oppone alla costruzione della pace. Maurice Bellet ha provato a enunciarne la scala cromatica: “La violenza ha più colori: Verde. È la violenza della vita, vivificante, come quella delle piante e degli animali, ma che può anche essere devastatrice. Blu. È la violenza dell’intelletto, delle discussioni, dei conflitti tra idee. Inizialmente cortese, può degenerare, diventare di una ferocia inimmaginabile.
Grigio. È la violenza quotidiana, che logora tutti i piaceri, gli amori, i destini.
Rosso. Clamorosa, scatenata, spettacolare: il colore del sangue.
Nero. È l’abisso, l’abisso senza fondo. Una violenza che conosce soltanto la caduta verso il basso, dove tutto muore.
Bianca. È la violenza invisibile, cioè una qualunque delle precedenti, nascosta sotto un’apparenza di dolcezza e pace. Particolarmente temibile”.
Ad essa si contrappone “l’alfabeto colorato” della Bibbia (M. Chagall), di cui il discorso sul monte rappresenta il cuore.

Costruttori e figli
Nessuna scorciatoia, dunque. Il progetto proposto su quel monte di Galilea ha l’orizzonte ampio del mondo. Di un mondo in cui è Dio stesso a regnare, consegnando la terra ai miti, consolando gli afflitti, saziando ogni desiderio di giustizia. Parole che suonano come una promessa, a cui solo Dio può dare compimento. Ma anche qui, come in tutta la Scrittura, la promessa è accompagnata dal comandamento. C’è un ricevere inaspettato, un dono gratuito che può essere solo atteso e invocato. Ma c’è anche un adoperarsi affinché il sogno di Dio prenda forma, un agire storico che prova a “fare la sua volontà”. La beatitudine sulla pace esprime bene sia la promessa che il comandamento. Quest’ultimo parla il linguaggio del costruire, dell’operare: “Beati i costruttori di pace”. Qui Dio non può essere chiamato in causa quale sostituto di un’umanità da sempre latitante su questo fronte. Il discorso evangelico fa appello a tutta l’intelligenza civile di cui siamo capaci. Ci domanda di tenere desto, nonostante tutto, il sogno di un’umanità “in pace”, e di compiere le scelte necessarie che possono avvicinarci a quella meta.
Ma insieme alla metafora operaia del costruire, la seconda parte della beatitudine fa ricorso all’immagine generativa dei figli: “Perché saranno chiamati figli di Dio”. Come mai questo strano accostamento? Certo, si vuole sottolineare il legame intimo tra Dio e coloro che ricercano la pace. Ma l’immagine dei figli è così presente nel mondo narrativo della Bibbia che appare quasi impossibile non fare i conti con quella storia, evitare il dialogo che le Scritture intrecciano su quel tema. Proviamo, almeno, a evocarlo: capiremo meglio come agisce Dio nella storia e come possiamo noi continuare a costruire un futuro di pace.
Se, dunque, proviamo a spaziare con lo sguardo da quel monte di Galilea all’intero panorama biblico, ci apparirà chiaro che lo shalom biblico, più che un edificio, è un corpo, è pienezza di vita. Nelle colorate storie bibliche prende la forma rotonda del ventre che lievita: è promessa di futuro, possibilità di nuove generazioni. Il suo contrario – quel vuoto che si persegue seguendo gli idoli vani – è assenza di vita, sterilità.
La pace, dunque, ha a che vedere con la vita che si rinnova. È racchiusa già tutta nella benedizione primordiale: “Siate fecondi e moltiplicatevi”. Probabilmente abbiamo sottovalutato la responsabilità insita in quel primo comando divino. Soprattutto nel nostro presente, tutto all’insegna del “narcinismo” (narcisismo individualista, che si traduce in cinismo nei confronti degli altri). Certo, mettere al mondo un figlio è un atto responsabile, un consapevole dire di sì alla vita. Persino a Maria, la ragazza incinta del Messia atteso, è richiesto un consenso informato: “sia fatto secondo la tua parola”. Ma il racconto biblico non è tanto preoccupato di dare lezioni di morale, non si limita a indicare percorsi di consapevolezza individuale. Dopo aver enunciato che la vita benedetta si traduce in fecondità, ecco mettere in scena numerose storie di sterilità. Forse che la Bibbia intende informare i suoi lettori su un problema biologico che affliggeva l’antico popolo ebraico? Il lettore non sprovveduto capisce in fretta che il racconto prende una piega simbolica. Il dramma della sterilità traduce quel rischio sociale che attraversa ogni generazione: ovvero il pericolo che la vita non si rinnovi, che il nostro agire politico porti a un vicolo cieco, che venga meno la possibilità di aprire la storia alle generazioni future. Un simbolo che ai nostri giorni ha rivestito i panni della possibile catastrofe nucleare, come anche di quella profonda crisi ecologica, provocata dal nostro agire insensato, che sottrae le risorse necessarie per la vita di coloro che verranno. La sterilità ha a che vedere con il nostro modo di abitare la terra in rapporto alle generazioni future. Nella lingua biblica non esiste un vocabolo equivalente a “storia”. Nelle Scritture non si fa ricorso a un concetto astratto e singolare, ma si parla al plurale di generazioni (toledot). Per la Bibbia, la storia è partorita, è vittoria sulla minaccia della sterilità; è solidarietà che tesse legami tra le vite passate e quelle future. Costruire la pace significa creare tutte le condizioni perché la vita non si spezzi, ma fluisca; perché la storia si apra alle generazione future. E, insieme, è riconoscersi figli e figlie di un Dio più forte della sterilità che ci abita. È memoria del sogno e del dono di Dio; e desiderio di corrispondervi. Ecco perché è rotonda e piena come un grembo. Come quello delle donne ebree, schiave in Egitto, a cui viene intimato di sopprimere le nuove vite.

Costruttrici di futuro
Ed ecco che, sulla scena dello shalom minacciato, compaiono Sifra e Pua, le due levatrici ebree che si ribellano al comando del tiranno e, a rischio della loro stessa esistenza, si ostinano a tenere aperta la porta della vita. Decidono di continuare a far nascere i bambini ebrei nonostante sia stato loro ordinato di lasciar morire i maschi del popolo nemico.
Sono costruttrici di pace anche le tante donne dell’esodo che, pur diverse per religione, condizione sociale, appartenenza generazionale, si mettono in rete per salvare la vita di un bambino. Madri, ragazze, serve e principesse sono costruttrici di pace che si ingegnano a far sì che il piccolo Mosè possa attraversare le acque del non senso su un’imbarcazione sicura come l’arca che ha portato in salvo, prima di lui, Noè e l’intera creazione (e infatti, in ebraico, lo stesso vocabolo indica sia la cesta di Mosè che l’arca).
Ci vuole molta creatività per mantenere aperta la possibilità di futuro. Sono persone astute e ingegnose, le costruttrici di pace!
Come Tamar. La sua storia è narrata al cap. 38 del Libro della Genesi. Vicenda che interrompe la saga di Giuseppe, aprendosi una breccia in quella narrazione. Mentre Giuseppe, riscattato in Egitto grazie alle sue capacità divinatorie, ritrova i fratelli che cercano pane, il narratore biblico racconta la vicenda di Tamar, nuora di Giuda, uno dei fratelli più grandi di Giuseppe. Tamar sposa il primogenito di Giuda, che muore senza darle figli. Giuda, allora, la dà in sposa al suo secondogenito, Onan, che si unisce a lei, ma si rifiuta di fecondarla: disperde il seme, proprio come noi oggi sprechiamo le risorse vitali compromettendo la vita futura. Anche Onan muore e Tamar, con la promessa di un possibile futuro matrimonio con il figlio più piccolo, viene rimandata a casa. Ma quando si rende conto che non le verrà più data un’altra possibilità, smette di attendere l’iniziativa altrui: prende in mano la sua vita e costruisce il proprio futuro. Sveste gli abiti della vedovanza, si traveste da prostituta e si unisce al suocero, ignaro dell’identità della donna. Tamar, a rischio della propria vita, si ingegna per costruire un domani, per non interrompere la vita, per aprire una breccia in quella storia destinata a finire in nulla. Uno dei due figli concepiti da questa unione anomala, si chiamerà Perez, che significa breccia, per l’appunto.
Tamar è colei che ha osato credere che la vita non è destinata alla vedovanza e alla sterilità. Il suo amore per il futuro, più forte della paura di uscire dai recinti del lecito, l’ha spinta ad aprire una breccia verso il domani, lasciando fluire la vita, senza sacrificarla. Giuda imparerà da lei che la vita diviene sterile, tutte le volte che la si vuole risparmiare per proteggerla. Aprire al domani, costruire possibilità di pace significa rischiare la vita, lasciarla andare, non trattenerla.

Il vocabolario dello shalom
La storia della Salvezza, narrata dalle Scritture, ripropone ad ogni pagina questa visione, in cui la grazia divina e la creatività umana cooperano per riaprire i sentieri interrotti della storia.
La prospettiva di felicità, proclamata sul monte di Galilea, ridice questa passione per la vita piena, che domanda fiducia nel progetto di Dio e insieme lungimiranza, capacità di giocarsi sui tempi lunghi della storia, facendo memoria di chi ci ha preceduto e lavorando per chi verrà dopo di noi.
Come ci ricordava Tonino Bello, la pace non è un singolo vocabolo: è un intero vocabolario. È un mondo, da abitare come figli di Dio, con coraggio e determinazione, senza desistere, sapendo che non spetta alla sterilità l’ultima parola: Dio ci chiama alla felicità dello shalom.

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