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Impegno anticamorra

Dall’omicidio di don Peppe Diana a un festival che restituisce speranza ai giovani e dignità a un territorio.
Anita Pesce

Casal di Principe, 19 marzo 1994: un omicidio, di puro stampo camorristico, pone fine alla giovane vita di don Peppe Diana, a causa del suo impegno antimafia.
“Quel giorno la camorra ha ucciso l’uomo, non la speranza”. Questa la spinta che, alcuni anni dopo, dà vita al Comitato don Peppe Diana, per non dimenticarne il martirio, per far sì che quel territorio non restasse senza memoria storica né fosse solo ricettacolo di illegalità, abusivismo edilizio, cumuli di rifiuti, criminalità.
Questo l’antefatto, il punto di partenza per ideare un festival, una rassegna artistico-culturale, una sorta di palcoscenico, di luogo speciale in cui i giovani (la vera speranza locale) potessero incontrare gli artisti e le forze produttive nazionali, onde poter dar vita a comunità alternative e sostitutive della camorra.
Tale progetto è al centro del libro “Il Festival a casa del Boss” (Phoebusedizioni 2012), redatto recentemente da Pietro Nardiello. L’autore, che ha collaborato attivamente con i volontari del Comitato nell’ideare, organizzare e sostenere le quattro edizioni del Festival iniziato nel 2008, ne descrive in prima persona le alterne vicende, le difficoltà organizzative, economiche, logistiche e anche le incomprensioni interne allo stesso Comitato.
Il Festival non poteva che essere emblematicamente collocato nelle lussuose proprietà confiscate ai boss camorristici, nel corso di un itinerario di anno in anno territorialmente più ampio e significativo. In quei luoghi ha efficacemente risuonato la parola di don Diana, autentico propulsore del progetto. Coinvolgere le scuole, le associazioni, la gente comune con musica, teatro, arte, parlar loro di impegno civile proprio in quelle dimore un tempo teatro di malaffare e di morte, hanno veicolato un messaggio profondo, forte, destabilizzante, e nel contempo hanno rinverdito il ricordo (che sembrava smarrito perfino dalla Chiesa) e la personalità complessa di don Peppe, dapprima infangata da falsità e malevoli giudizi nati in un “humus di sopraffazione e silenzio”, illuminata – poi – dai tribunali che gli han reso giustizia e da coloro che lo hanno sempre amato.
La narrazione, semplice e di immediato impatto, è intervallata da interviste che alcuni autori hanno fatto a varie personalità legate al festival, quali il procuratore De Raho e l’artista P. Barra; ultima l’intervista impossibile a don Diana.
L’autore ha descritto il percorso delle edizioni del “Festival dell’impegno civile” con partecipazione e autentica passione; forse all’encomiabile impulso narrativo avrebbe potuto aggiungere una più tranquilla riflessione a ulteriore vantaggio dell’impianto espositivo.
Comunque gli argomenti trattati con puntuali e significative digressioni di carattere sociale (quali ad es. antimafia come nuova resistenza; il festival come religione civile che stabilisce nei beni confiscati i propri luoghi di culto; il silenzio degli onesti più pericoloso di quello dei disonesti; l’impegno anticamorra mediante la repressione militare valida solo se accompagnata da bonifica culturale…) sono di tale impatto da indurre il lettore a riflessioni profonde e a stimoli operativi, frutto della realizzazione di un progetto avvertito dai suoi promotori quale “utopia concreta”.

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