La forza delle parole
Sfruttati. Consumati. Globalizzati. Serializzati. Mercificati. Mangiati (mentre ci illudiamo di mangiare). Comprati (nell’illusione di comprare). La riflessione teorica sulla globalizzazione e sull’egemonia terrifica dell’economia finanziaria si porta dietro una serie di forme verbali passive, con cui è difficile non concordare, ma che rivelano una generale assuefazione rispetto all’immagine di una grande macchina che divora e sputa gli esseri umani riducendoli a corpo informe, massa acritica. Ripetitori di un linguaggio velocizzato, frammentato e abbrutito anche per via del sopravvento dei nuovi mezzi di comunicazione.
Doppio movimento
La coazione a ripetere certe forme verbali non può non celare un doppio movimento: mentre rivela una sincera preoccupazione per i resti umani del banchetto finanziario-economico-globale che sacrifica soggetti, comunità e forme della politica, riflette contemporaneamente un automatismo del linguaggio. Essere consumati è quello che avviene tutti i giorni e tutti i giorni usiamo quest’espressione, fino al punto da non renderci conto dell’apatia che la sottende, dell’incapacità di “sentire” cosa veramente significa. Quando Antonin Artaud intitolava la sua opera dedicata a Van Gogh “il suicidato della società”, ci mostrava, forse per la prima volta, la violenza di un sistema di coercizione che poteva portare un artista a togliersi la vita. Non era, il suo, un semplice gioco linguistico, ma la messa in scena di un teatro doloroso dove alla fine della rappresentazione diventava per tutti lampante lo spostamento del soggetto dell’azione: non era stato Van Gogh a suicidarsi, ma era stata la società intorno a lui a “suicidarlo”. La differenza tra un uso comune, apatico del linguaggio e un uso folgorante, in grado di cambiare l’immaginario e forse anche la società, sta tutta lì: nella differenza tra “uccidere” e “suicidare”. Artaud non dice “colui che era stato ucciso dalla società”, ma “colui che è stato suicidato dalla società”. Inventa, cioè, una forma verbale attraverso la quale ci mostra una cosa che prima non riuscivamo a vedere: la follia dell’altro, e non del sé.
La riflessione, che tutti i giorni come analisti, testimoni e artisti siamo costretti a fare sull’involuzione tragica del capitalismo finanziario, non può non prescindere anche da una messa a fuoco del modo con cui gli esseri umani, o quel che ne resta, definiscono se stessi come specie prettamente umana, capace ancora, come tale, di mettere in scena e dispiegare la bellezza pura, disinteressata. Siamo nel pieno di una mutazione biologico-antropologica. Ma di che tipo? E cosa resta, invece, dell’essere umano classicamente inteso? Noi non abbiamo dubbi: resta la bellezza del suo linguaggio, la forza invincibile delle parole disposte l’una accanto all’altra in una composizione creativa, sconcertante, in grado di scuoterci e affiatarci.
Anche un pensatore allarmista come Zygmunt Bauman che, da almeno un decennio, ci terrorizza con le sue analisi sulla fine del mondo attraverso le quali disegna “una società sotto assedio”, un mondo di “coalizioni fluide e temporanee”, persino Bauman, che alla fine di ogni suo libro sembra tentato egli stesso dall’idea di sparire e diventare cosa fluida, si appella a quella che è la capacità prettamente umana, ovvero “la capacità di trascendere”: “La vita umana è sospinta e mantenuta in vita dal desiderio di trascendenza. La trascendenza (la trasgressione) è la modalità dell’essere nel mondo dell’uomo. Impedire la trasgressione, e/o rifuggire dalla trasgressione, segnalano una condizione patologica di quell’essere umano” (“La società sotto assedio”).
Mutazioni genetiche
In un mondo dominato dal finanzcapitalismo, arrivato a costituirsi come “struttura capillare di tutti i sottosistemi sociali, di tutti gli strati della società, della natura e della persona” (Luciano Gallino), dove gli individui sono passati dallo status di cittadini a quello di consumatori infantilizzati (Benjamin Barber), ecco, in un mondo così, si potrebbe continuare a vivere epidermicamente, volubilmente, ignari dei sintomi che ci annunciano non solo la nostra singolare morte ma anche una precoce morte planetaria. Il fatto è che, anche volendo, non si può. La mutazione genetica è solo parzialmente avvenuta, almeno così ci rassicurano antropologi e filosofi. Il desiderio di trascendenza/trasgressione di cui parla Bauman non si dissolve così facilmente, si esprime magari con modalità e tempi diversi, ma produce comunque il desiderio inalienabile di una vita utopica, altra, diversa da quella che abbiamo. Una vita che sia semplicemente, spudoratamente bella.
Torniamo all’importanza del linguaggio come strumento di trascendenza e di trasgressione. Se, con le sue molteplici deformazioni linguistiche, la coazione a ripetere (quindi anche la serie di condizioni passive dell’essere umano diventato merce) rivela un blocco dell’immaginazione, resta condizione inalienabile dell’essere umano la sua capacità di immaginare mondi diversi e soprattutto di chiedersi il perché delle cose, non fermandosi alla prima spiegazione. Un dispositivo fondamentale, pare non ancora cancellato dell’animale uomo (assieme alla “negazione” e alla “modalità del possibile”) è quello che il filosofo del linguaggio Paolo Virno chiama “regresso all’infinito”, in base al quale ci chiediamo il perché di qualcosa e poi il perché del perché, e così via, in un risalimento senza fine, che possiamo interrompere con intelligenza al momento opportuno. Leggendo il libro di Virno, si ha la sensazione che l’essere umano non stia poi così male, perché ha dalla sua parte il linguaggio, “quella forza che trattiene dal baratro” e che, in casi eccezionali, umani troppo umani, come conseguenza di una spietata attività logica e poetica, può portare a formulare l’espressione “suicidato” invece di “ucciso”, perché tra “suicidato” e “ucciso” passa tutta la differenza del mondo.
Per chiudere, vogliamo citare i versi di Mariangela Gualtieri, una poetessa, una donna, un’artista, che da anni va in giro per l’Italia con le sue visioni profetiche in grado di agitare il terrifico e il sublime, la traccia antica della nostra maltrattata ma inalienabile umanità, capace di cogliere la bellezza profonda delle cose che appaiono, sfumano e poi ritornano, nel non-tempo dell’incanto: “Che cosa sono / i fiori? Non /senti in loro come / una vittoria? / La forza di chi torna / da un altro / mondo e canta / la visione. L’aver / visto qualcosa / che trasforma / per vicinanza, / per adesione a una / legge che si impara / cantando, / si impara / profumando. / Che cosa sono i fiori / se non qualcosa / d’amore che da sotto / la terra viene / fino alla mia mano / a fare la festa / generosa. / Che cosa se non / leggere ombre a dire / che la bellezza non / si incatena ma viene / gratis e poi scema, / sfuma e poi ritorna / quando le pare. / Chi li ha pensati / i fiori, prima, prima / dei fiori”.