C'era una volta il corpo
Leggenda vuole che il poeta futurista Filippo Tommaso Marinetti, invitato a parlare in occasione di un raduno dei Grandi invalidi della Prima guerra mondiale, davanti a una platea in gran parte formata da persone pesantemente mutilate nel corpo e negli arti, abbia debuttato rivolgendosi al suo pubblico con i seguenti appellativi: “Voi così belli, così asimmetrici”; probabilmente, il dissesto anatomico che gli si presentava in quel preciso momento, più che stimolargli la pietas, eccitava la sua visionarietà, proiettandola verso un’immagine della bellezza umana quale si prospettava nel prossimo futuro.
Corpi offesi
La leggenda non dice se poi sul palco, in seguito alle parole del poeta, siano piovute le stampelle lanciate dalla platea inferocita, o se invece gli invalidi siano usciti dalla manifestazione, avvertendo in qualche modo che il loro corpo offeso dalla guerra e la sottrazione fisica che l’aveva deturpato esprimessero a tutti gli effetti una temperie culturale che poteva riconoscere, nella figura scomposta della devastazione subita, l’avvento del moderno inscritto, per così dire, nel vivo della carne. Come se “gli ultimi giorni dell’umanità” – per stare alla definizione della Grande guerra elaborata da Karl Kraus nel testo teatrale omonimo – nella loro mattanza avessero estinto la stirpe umana generandone una nuova, il cui corpo era destinato a convivere con crepe e suture, a riconfigurarsi mediante la tecnologia, a perseguire il bello nel differente. L’epoca della velocità, che si andava annunciando, stava travolgendo nella sua corsa le forme del classico declinandone l’immutabilità nelle figure del tempo: la bellezza non avrebbe più vissuto di forme, ma di segni. E lo scultore Bellmer si dedicava intanto a produrre bambole i cui corpi erano un labirinto sensuoso nel quale la forma originaria si confondeva in percorsi destinati a riavvolgersi su se stessi, nel disegno di una struttura impossibile ma esteticamente credibile, proprio perché, nel momento stesso in cui la evocava, di fatto la mancava.
Dopo la seconda guerra mondiale, mutilazioni e patologie, dispositivi terapeutici e tecnologie mediche avrebbero scritto una diversa narrazione del corpo all’interno della quale protagonista assoluta sarebbe risultata la sua stessa materia organica. La carne macellata di Francis Bacon secerne figure che sono zone di transito fra umanità e animalità.
La “carne” contaminata dai chimismi della medicina, ibridata dai diversi impianti che ne garantiscono la funzionalità organica ispira a un regista come Cronenberg buona parte della sua produzione, diventando il luogo diegetico delle metamorfosi, da uomo ad animale (La mosca, 1986), da personaggio a dispositivo mediale (Videodrome, 1983), da persona a entità simulacrale (eXistenZ, 1999), in una reiterata teoria delle figurazioni posthumane. E la Orlan elegge a sostanza primaria delle sue performance il proprio corpo vivo mentre viene “operato” e riconfigurato dalla chirurgia estetica. Marc Quinn traffica con il suo sangue per allestire un autoritratto (Self) unico e irriproducibile come il dna che vi pulsa dentro: la tradizione nobile a cui l’opera appartiene, la bellezza classica della testa esplosa di rosso, sono il ricordo di un modello irrimediabilmente minato dalla materia vivente che ha inoculato al suo interno la dimensione “etica” del tempo esistenziale.
Percorsi
Al di là dei percorsi delle arti figurative, sono molteplici e diverse le idee di corpo – e le immagini del corpo in quanto elaborazioni concettuali – che hanno attraversato la storia della cultura occidentale: in un suo celebre studio sull’opera di Rabelais (L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, 1965) il pensatore russo Michail Bachtin rilevava, ad esempio, l’opposizione fra il corpo leonardesco – perfettamente circoscritto nell’area armonica di un cerchio dove l’uomo è centro di un universo che vive della sua misura, secondo il modello della cultura umanistica – e il corpo carnascialesco – espressivo di una dismisura, di una tendenza all’iperbole e di una deformazione grottesca che appartiene alla cultura medievale e, più in generale, alle diverse occorrenze della cultura popolare – quale gli risultava modellizzata, fra l’altro, nel Gargantua e Pantagruel di Rabelais. Nel “corpo leonardesco” la forma chiusa dentro al cerchio corrisponde al dominio dell’universo e all’espletamento della sua conoscenza; nel “corpo carnascialesco” la deformazione sta a indicare il flusso continuo di un corpo che si genera e si rigenera introiettando il mondo circostante per via degli orifizi, inabissandolo nelle gallerie delle proprie funzioni organiche, espellendolo in forma di escremento o di vita nuova. Bocca, naso, apparato genitale, ano corrispondono a fossi e monti che assimilano il corpo umano alla grandiosità del paesaggio naturale e segnano il commercio che esso scambia con l’universo. In questa prospettiva l’immaginario del corpo è la mappa di una orografia che parodizza la forma nobile e la esplode nel riso, sostituendo la potenza dell’eccesso alla bellezza dell’armonia.
L’immagine del corpo contemporaneo probabilmente non risponde più a questa opposizione: certo, esiste nella nostra società il corpo comico, ma è sempre più un corpo mimetico, un doppio dei poteri, la forma – triturata dai mass media – di una promiscuità che denuncia la debolezza dei rispettivi tratti identitari, la provvisorietà delle frontiere ontologiche da cui si scrutano. Totò, tanto per fare un esempio, era una maschera che aveva la potenza – e la bellezza – di uno sberleffo non ai poteri, ma al potere, e soprattutto al potere più dispotico, quello del linguaggio; nella maggior parte dei casi oggi “la maschera e il volto” si riversano l’uno nell’altro, senza traumi: è venuto a mancare, in altri termini, il luogo proprio del vuoto di persona e del pieno di materia, del simbolico e del reale, mentre la facilità dei reciproci transiti ha finito con lo sbiadire la forza eversiva della loro antica polarità. E poi, ovviamente, esiste ancora, e più che mai, un pattern circolante che rispetta le misure di una ideale configurazione anatomica, del volto come dello schema corporeo. Ma, quando questo, peggio che elaborato, è confezionato negli istituti di estetica ed entra in azione trasformando gli avvallamenti istoriati dal tempo (ma anche semplicemente dalla fisionomia originaria) in pianure e colline di botulino, non possiamo far altro che rimpiangere l’energia irresistibile del corpo carnascialesco, la provocazione delle sue protuberanze, la gioia della sua oscenità. Forse perché la bellezza non coincide esattamente con il mito dell’eterna giovinezza e non può limitarsi a mimarlo. Pirandello ci ricorda che, se perseguiamo la mimesi della giovinezza, più che il bello incontriamo il comico o, nella migliore delle congiunture, l’umorismo (L’umorismo, 1908). Insomma, per un verso o per l’altro, la sfera del comico rischia di carnevalizzarci tutti, sottraendoci però la dimensione autenticamente trasgressiva del carnevale. Ma, in ogni caso, ciò che segna i modelli attuali rispetto ai modelli storici è il fatto che questi non inscrivono più nel loro sistema di rappresentazione la relazione fra corpo e mondo, fra le rispettive anime; in un modo o nell’altro, dominio o assimilazione, perfezione o trasformazione, era questa presenza a conferire ai relativi sistemi la qualità di una Weltanschauung capace di integrare il corpo nell’immagine dell’universo, nella bellezza delle sue forme, nella potenza vitale delle sue funzioni.
Asimmetrico, defigurato, liquido, animalizzato nella matericità della carne, privato di un io che sia in grado di enunciarlo al singolare, svuotato attraverso i processi mediatici dalle opposizioni più forti e significative, dove è allora che il corpo, senziente o sentito, si incontra con la bellezza? Non più probabilmente sulla strada della forma, del segno o della scrittura, piuttosto nel punctum di barthesiana memoria, nella zona sensibile che di volta in volta ci punge e ci cattura, trascinandoci di colpo in un percorso in cui possiamo immaginare che stiamo per incontrare non l’unità, ma l’unicità di quello che ci ha chiamato, il buco nella materia, il soffio di una voce, il colore del tempo, il segno che scrive sulla carne la storia delle sue emozioni; tutto quello che ci è necessario per fare della bellezza il racconto che ci appartiene.