Era cosa buona
Siamo abituati a pensare alla bellezza come a qualcosa che ci preme individualmente, che possiamo apprezzare o perseguire in chiave personale: la bellezza di un volto di cui ci siamo innamorati, la bellezza di uno spettacolo naturale in cui ci siamo imbattuti nel corso di un viaggio, la bellezza del cielo stellato in montagna o sul mare di notte, o anche quella forma di bellezza che si integra con la bontà e che, a volte, emana dagli occhi, dallo sguardo benevolo di qualche persona misericordiosa che ci capita di incontrare. Per un credente ebreo e cristiano, poi, la bellezza è all’origine del mondo, dal momento che il ritornello con cui si conclude ogni giorno della creazione “E Dio vide che era cosa buona” può essere reso anche con “Dio vide: era bello”.
La bellezza è al tempo stesso una dimensione visibile del vivere collettivo, un aspetto presente – in misura maggiore o minore – nelle scelte, nelle realizzazioni e nelle strutture concrete di una società. Certo i canoni e i criteri della bellezza mantengono un margine di soggettività individuale, che resta ampio specialmente nelle valutazioni di manifestazioni artistiche come pittura, scultura, musica, poesia e letteratura in genere. D’altra parte, in una società della comunicazione globalizzata che ha raggiunto dimensioni impressionanti a livello mondiale (7 miliardi di persone), le componenti soggettive sono destinate a coniugarsi con quelle collettive in un quadro e panorama sfaccettato e pluralistico di convivenza e di confronto interculturale.
La bellezza può diventare oggetto esplicito della costruzione sociale di una città o di un paesaggio. Per restare alla storia delle città italiane nel Medioevo e nel Rinascimento, vi troviamo evidenti tracce di un disegno nel quale ha operato sinergicamente la compresenza di una dimensione funzionale e di una preoccupazione estetica: basti pensare alla creazione della piazza in molti centri del nostro Paese, a partire da alcuni risultati straordinari come furono e sono tuttora Il Campo a Siena o San Marco a Venezia. Qui e in molte altre città, la costruzione della piazza come luogo funzionale alla partecipazione pubblica, civile e religiosa, ha costituito nello stesso tempo un’occasione privilegiata per esprimere bellezza e armonia estetica. E anche oggi, del resto, nelle metropoli contemporanee, non si può negare che la componente estetica sia presente a urbanisti, architetti e pubblici amministratori, nonostante la presenza di realtà urbane spesso carenti e degradate sotto vari aspetti e specialmente nelle aree periferiche.
Lo stesso paesaggio, quello di cui vediamo oggi realizzazioni mirabili ad esempio in Toscana, in Veneto o in Provenza, è frutto di un intervento sociale sulla natura che dura da secoli e che ha operato per armonizzare elementi naturali ed elementi culturali, facendo risaltare la tipicità di ciascun ambiente. Non si può dimenticare, poi, che alla bellezza sono legati luoghi specifici espressamente dedicati a una sua fruibilità ampia, estesa potenzialmente a tutti: si tratta degli spazi museali, espositivi o dedicati a rappresentazioni artistiche, a cui si aggiungono – in Europa quanto meno – le numerosissime costruzioni religiose e quelle civili che testimoniano nel tempo un’impronta artistica.
Essenziale?
In una società che conosce oggi, in Occidente e nel mondo intero, una crisi economica di gravissime proporzioni, con ripercussioni sul reddito, sul lavoro e sulle possibilità di vita, ci si può chiedere se la bellezza non rappresenti per caso un obiettivo secondario, o un problema di lusso per così dire. Certo è comprensibile che vi siano società in cui l’urgenza dei problemi di base, quelli della sussistenza materiale di una parte consistente dei suoi membri – come avviene in particolare in molti Paesi africani – faccia porre in secondo piano l’obiettivo della bellezza o non lo tenga in considerazione. E, in ogni caso, l’obiettivo della giustizia, da affermare e da praticare, resta irrinunciabile nell’agenda di ogni Paese democratico: la giustizia si può considerare l’esito o il suggello dei grandi valori a cui si ispirano le democrazie moderne – libertà, eguaglianza, solidarietà – a cui si aggiunge il valore di fondo del rispetto della dignità personale. Può essere questo un altro modo di vedere il rapporto, di cui spesso si parla, tra etica ed estetica. La celebre rappresentazione dell’Allegoria del Buono e Cattivo Governo e dei loro effetti in Città e in Campagna di Ambrogio Lorenzetti, cioè dei grandi affreschi che campeggiano nel Palazzo pubblico di Siena, è una efficacissima traduzione trecentesca (1338 ca.) di questa problematica: in essa, infatti, alla straordinaria qualità estetica del dipinto si compenetra, sin dal titolo l’allusione alla dimensione dell’armonia e della pace sociale, a quella concordia che è garantita da un buon governo della città e in primo luogo dall’esercizio della giustizia.
Una società che fosse solo giusta o che – poniamo – fornisse ai suoi membri unicamente strumenti per il soddisfacimento dei bisogni di sussistenza rischierebbe di diventare fredda, poco interessante, per nulla attraente. È il valore e l’attrazione della bellezza a rendere vivibile una società, una città, un ambiente sia fisico che di relazioni umane. Come scriveva nel 1946 L.J.Lebret, grande umanista ed economista di orientamento cristiano, in un’Europa sconvolta dal conflitto mondiale, “L’uomo moderno ha un immenso bisogno di bellezza. L’uomo non ha solo bisogno di verità. Egli è anche avido di bellezza. Senza bellezza gli manca qualcosa, è infelice” (L.J.Lebret – 1946), Guide du militant, Economie et Humanisme, L’Arbresle – Rhône, 2 voll.). Gli fa eco, in tempi a noi molto più vicini, uno dei massimi cognitivisti viventi, H. Gardner, quando osserva che le esperienze di bellezza rappresentano una delle ragioni principali per essere vivi e “per condividere la gioia di vivere con altri” (H.Gardner – 2011), Verità, bellezza, bontà, Feltrinelli, Milano.).
Percorsi
In conclusione, possiamo porci un problema che deriva dalle premesse da cui siamo partiti: quale bellezza è possibile, o è opportuno, cercare di costruire oggi?
Non vi sono evidentemente ricette precostituite, semmai indicazioni di percorso. E del resto è innegabile che la storia del nostro Paese da molti secoli abbia precostituito una vocazione singolare dell’Italia alla bellezza, che andrebbe oggi rimessa pienamente in valore, adeguatamente comunicata e offerta al mondo. Penso non solo alla bellezza dell’arte, ma di quella che si esprime nelle molteplici forme dell’artigianato e del design (il made in Italy), alla bellezza integrata di natura e paesaggio, alla bellezza della lingua e della letteratura italiana. Non è un caso, del resto, che sin dal Settecento il Grand Tour praticato dai giovani delle famiglie aristocratiche e benestanti europee avesse il suo centro nelle bellezze artistiche, storiche e naturali d’Italia (cfr. G.Gasparini – 2012, “La costruzione sociale della bellezza”, Aggiornamenti sociali, 63, 4, aprile, pp.297-306).
Nello snodo tra dimensione personale e collettiva della bellezza un elemento decisivo è rappresentato dall’impegno educativo. Un’educazione consapevole ed esplicita alla bellezza, a partire dall’infanzia e protratta in forme diversificate a tutte le età della vita, può svolgere la funzione di affiancare ai modelli efficientistici ed economicistici dominanti nella società contemporanea altri elementi e prospettive non meno cruciali per il futuro sia dei singoli che dei sistemi sociali: penso alla concentrazione e alla capacità di silenzio, alla valorizzazione degli elementi qualitativi anziché meramente quantitativi della vita sociale, al valore della lentezza da alternare alla velocità, alla riscoperta della gratuità, della sobrietà e della convivialità.
Resta il fatto che, pur in presenza di strutture o rea-lizzazioni socioculturali improntate alla bellezza e alla sua valorizzazione, è indispensabile una sensibilità personale autentica nei confronti della natura, del paesaggio rurale e urbano, delle manifestazioni artistiche, così come di certe forme di armonia che indicano o prefigurano una società che sia nello stesso tempo orientata alla bellezza, alla qualità della vita e alla giustizia: una società giusta, equa e bella. Certo questo assomiglia a un’utopia o a un wishful thinking (un pio desiderio di anime ingenue), specie nel nostro Paese che è reduce – ma non ancora del tutto – da anni di devastanti comportamenti politici ispirati a un individualismo sfrenato e al dileggio delle istituzioni, alla corruzione e alla malversazione, a uno spirito di rapina che ha in non pochi casi sostituito quello del servizio pubblico, nonché – talvolta – alla distruzione del patrimonio culturale e ambientale.
Forse, il perseguire un disegno di bellezza ampio e pervasivo, che non si fermi all’arte e alla natura-paesaggio ma investa tutta la vita quotidiana, fa parte dello “sperare contro speranza”, di qualcosa di utopico che resta ciononostante irrinunciabile. Per questo, vorrei proporre in sede conclusiva alcuni versi che parlano di B/bellezza, tra il minuscolo del quotidiano e il maiuscolo di ciò che si proietta verso l’oltretempo a cui allude “un libro antico”, il Libro per eccellenza:
La bellezza della Bellezza
non si può descrivere
nei libri di estetica
e forse neppure dire in poesia
è qualcosa che sfugge ai sensi
come il silenzio di un luogo
che non serve a nulla
un deserto un lago asciutto
un ammasso di neve
su rocce inarrivabili
qualcosa che ti può capitare
una volta sola nella vita
mentre mediti
sul libro antico
che si schiude bruciante
per un attimo infinitesimo
e poi ritorna ad essere
arduo contenitore di parole
rinserrate nel tempo.
G. Gasparini (2000), Limen, Book, Castel Maggiore (Bo), “B/bellezza”, p.75.