DONNE

Uno sviluppo per tutte

Diritti delle donne: posta in gioco del futuro dell’Afghanistan.
Rossana Scaricabarozzi (Policy Officer - Women’s Rights Programme 
ActionAid Italia)

Parlare di Afghanistan è difficile. C’è sempre il rischio di usare parole inadeguate, se non addirittura di dire cose sbagliate. La strategia di uscita che ho scelto a questo impasse è di attenermi il più possibile alle posizioni e rivendicazioni delle colleghe e attiviste afghane, che lavorano o collaborano con la mia organizzazione in Afghanistan. Utile anche per “leggere” il dibattito in Italia sull’Afghanistan e misurare lo spazio e il tempo dedicato a comprendere le richieste delle donne e a farsene portavoce. Inutile dire che, in gran parte dei casi, all’interno della comunicazione politica e mediatica del nostro Paese non ritrovo le parole di coloro che in Afghanistan lottano quotidianamente per promuovere e difendere i diritti delle donne. È necessario un evento straordinario, in grado di catturare l’attenzione per la sua tragicità – penso ad esempio all’attacco a Malala, giovanissima pakistana che ha subito un assalto da parte dei talebani per la sua ostinazione nel difendere il diritti all’istruzione per bambine e ragazze – per riportarci a parlare della necessità di una mobilitazione a livello internazionale per difendere ovunque nel mondo quei diritti che dovrebbero essere garantiti a ognuno (e ognuna) di noi. Sono anche momenti rari in cui giornali e televisioni ci riportano un’immagine diversa della donna rispetto a quella di vittima o categoria vulnerabile e si lascia finalmente spazio alla forza e al coraggio di attiviste che rivendicano la libertà delle donne di scegliere e di fare, secondo le proprie aspirazioni e propensioni. Il rischio che corriamo è, quindi, di non cogliere appieno le esigenze di un Paese in cui, da dieci anni, siamo presenti con contingenti militari e di ridurre il dibattito sull’Afghanistan a considerare opportuno o meno il ritiro delle nostre truppe.

Sogni disarmati
Non si parla, invece, della posta in gioco delle decisioni che si prenderanno. E qui viene la parte imbarazzante, perché se si scegliesse di farsi realmente portavoce delle rivendicazioni delle donne afghane si rischierebbe di passare per pro-interventisti: e se le donne afghane avessero paura del ritiro delle truppe straniere? E quanto Maria Bashir, Procuratore Capo della provincia di Herat, dichiara in un’intervista che è troppo presto, che i tempi non sono maturi per un passaggio di consegne al governo afghano della responsabilità della sicurezza del Paese? Alla luce di cosa allora parlare di ritiro?
Gli afghani, donne e uomini, sognano un Paese senza truppe internazionali. Temono, però, che con il ritiro delle truppe straniere i riflettori sull’Afghanistan si spengano, che il Paese cada in un caos peggiore di quello che sta vivendo ora e che a nessuno interessi più se i diritti delle persone sono rispettati o calpestati in nome di una calma apparente, in cui, per evitare una cruenta guerra civile, si possa rinunciare a tutelare i diritti delle donne.
Il processo internazionale che sta portando al graduale ritiro delle truppe internazionali dal Paese è, comunque, ormai in corso e la verità è che non ha quasi più senso discutere di presenza e di ritiro di soldati stranieri. È il caso, invece, di interrogarsi sul futuro di questo Paese e della responsabilità dell’Italia in quanto Paese donatore che ha aderito nel 2001 a una missione internazionale volta a difendere la democrazia e i diritti delle donne afghane. Di questo dovrebbero occuparsi di più politici e media quando parlano di Afghanistan. Perché i grandi obiettivi posti a giustificazione dell’intervento militare in Afghanistan sono ancora lungi dall’essere raggiunti.

Costruire il Paese
La stessa disattenzione – o leggerezza? – sul futuro che si prospetta per le donne dopo il ritiro delle truppe internazionali rischia di caratterizzare gli incontri internazionali sull’Afghanistan se la condizione delle donne non diventa priorità politica del governo afghano e della comunità internazionale. Non è stato apparentemente il caso della Conferenza internazionale sull’Afghanistan che si è svolta lo scorso luglio a Tokyo, l’ultima grande conferenza prima del ritiro delle truppe straniere nel 2014. Si è trattato di una delle tappe del “Processo di Kabul”, avviato nel 2010 per favorire la costruzione di un Afghanistan stabile ed economicamente sostenibile, sotto la guida e la responsabilità del governo afghano con il supporto della comunità internazionale. Scopo dell’appuntamento di Tokyo è stato di stabilire l’impegno dei Paesi donatori al governo afghano nel decennio della “trasformazione” (2015-2025) per la sicurezza e lo sviluppo dell’Afghanistan.
Chi c’era sostiene che l’Italia si è “battuta come un leone” per includere nel documento finale della conferenza impegni specifici per promuovere e tutelare i diritti delle donne afghane, minacciando persino di non apporre la propria firma alla dichiarazione dei donatori se non fossero stati introdotti cambiamenti significativi al testo su questo tema. Ed ecco, quindi, apparire tra le priorità la concreta attuazione della legge contro la violenza sulle donne e del piano nazionale per le donne afghane. Merito del governo, senza dubbio, ma merito anche della società civile e di un gruppo di donne parlamentari che si sono mobilitate in vista della conferenza. ActionAid ha, infatti, sollecitato la costituzione di un Network di donne parlamentari che oggi conta più di 60 membri in tutta Europa, incluse otto deputate e senatrici italiane. Incontri, videomessaggi e atti parlamentari sono alcune delle attività che hanno contribuito a dare maggiore attenzione a livello internazionale su temi considerati prioritari per le donne afghane, come il contrasto alla violenza e l’accesso alla giustizia. Ora resta da misurare quanto l’Italia intenda dare continuità al suo “ruolo da leone” per dare concreta attuazione alla dichiarazione finale di Tokyo, impegno che non potrà prescindere dal volume di risorse che si vorranno destinare per supportare il governo afghano nell’attuare leggi e programmi a favore dell’uguaglianza di genere e della tutela dei diritti umani. A titolo d’esempio, un’indagine commissionata da ActionAid ha rilevato che, per la lotta alla violenza contro le donne, sono necessari minimo 90 milioni di dollari per 5 anni, corrispondenti alle risorse indispensabili per rilanciare il Piano nazionale d’azione per le donne afghane e implementare la legge contro la violenza. L’Italia, negli ultimi anni, ha drasticamente ridotto le risorse destinate alla cooperazione allo sviluppo, incluse quelle destinate alla promozione dell’uguaglianza di genere in Afghanistan. Benché l’ultima finanziaria permetta di intravedere un possibile cambiamento di rotta di questa tendenza, risulta ancora poco chiaro quanto il nostro Paese farà per contribuire a raggiungere quella soglia minima necessaria ad attuare le leggi afghane a favore delle donne. Da valutare, poi, quale sarà l’impegno dell’Italia nei prossimi anni per l’implementazione della Risoluzione ONU 1325 su donne, pace e sicurezza, visto che il piano d’azione italiano si avvia a conclusione. La Risoluzione 1325 è, infatti, uno strumento rilevante per la promozione e la tutela dei diritti delle donne nei contesti di conflitto e post-conflitto sia per prevenire e contrastare la violenza di genere che per assicurare la partecipazione attiva delle donne alla costruzione della pace. Delegazioni della società civile afghana sono state coinvolte nelle ultime conferenze internazionali sull’Afghanistan, e questo è sicuramente un elemento positivo. La consultazione e inclusione delle donne nelle decisioni sul futuro del loro Paese è, infatti, tra le richieste più pressanti della società civile afghana, per un motivo ben illustrato dalle parole di un’attivista africana, che ho ascoltato a un forum internazionale dedicato al tema dei diritti delle donne: “If you are not at the table, then you are in the menu”. Vale a dire: “Se non sei seduta a quel tavolo, allora vuole dire che sei nel menù”.

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