Lavoro e violenze, l’Italia non è un paese per donne
Anno 2012. Da un lato (per esempio) il Tg1 delle ore 20.00 del 25 gennaio. Servizio di Vincenzo Mollica: il «capitano» Gianni Morandi e Rocco Papaleo presentano la valletta del Festival di Sanremo, Ivana Mrazova. Bellissima, come didascalicamente descritto dalla telecamera. Dall’altro, quella che è molto più di una «tirata d’orecchie» all’Italia da parte del Comitato Cedaw, l’organismo Onu che verifica il rispetto della Convenzione delle Nazioni Unite contro le discriminazioni nei confronti delle donne. «Il Comitato rimane profondamente preoccupato per la rappresentazione della donna quale oggetto sessuale e per gli stereotipi circa i ruoli e le responsabilità dell’uomo e della donna nella famiglia e nella società». Stereotipi, attenzione, «contenuti anche nelle dichiarazioni pubbliche rese dai politici», che «minano la condizione sociale della donna, come emerge dalla posizione svantaggiata in diversi settori, incluso il mercato del lavoro, l’accesso alla vita politica e alle cariche decisionali».
È da poco terminato il viaggio in Italia della relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, Rashida Manjoo. Una missione conoscitiva – la prima del genere in Italia, durante la quale la Manjoo ha visitato carceri, campi rom, si è fatta un’idea della realtà quotidiana delle donne. L’allarme lanciato non lascia dubbi: la violenza sulle donne «resta un problema in Italia». E l’invito è che la crisi economica non costituisca un alibi per distogliere l’attenzione. «L’Italia occupa il penultimo posto tra i paesi europei sul tema dell’equiparazione di genere, quindi che ci sia una questione femminile mi sembra molto evidente», spiega a Linkiesta Emma Bonino, vicepresidente del Senato. «È meno evidente ai più che questa è anche una questione di altissima priorità per il paese». L’Italia, infatti, «ha un problema di crescita che sta diventando il più grave problema per il futuro». E «tenere in panchina il 50% del capitale umano del paese è una scelta insensata», avverte l’esponente radicale. La chiave è proprio nel tema dell’occupazione femminile, avverte Bonino, che è anche presidente onoraria di Pari o Dispare, «sia dal punto di vista quantitativo», ovvero in termini di livelli occupazionali, «che qualitativo», cioè dal punto di vista delle carriere.
Rossana Scaricabarozzi, responsabile programma diritti delle donne ActionAid Italia, dà i numeri della rappresentanza politica delle donne. Italia: 20% dei parlamentari. Rwanda: 47 per cento, Spagna: più del 34%, Germania: 27%, Francia: 20,5 per cento. «Anche l’Afghanistan, dove certo ci sono problemi ben più gravi, a livello di rappresentanza politica supera l’Italia», spiega la Scaricabarozzi. D’altro canto nel nostro paese 4 donne su 10 «continuano a lasciare il lavoro dopo la prima gravidanza», tutto questo in un contesto di «assenza di welfare a protezione delle lavoratrici precarie».
Elsa Fornero ha annunciato di voler trovare una soluzione: «La maternità o la paternità non devono più essere vissute come un ostacolo alla carriera», spiega il ministro del Welfare con delega alle Pari Opportunità. «Anche nelle istituzioni e nella politica le posizioni di leadership sono in larghissima maggioranza occupate da uomini», spiega ancora Emma Bonino. E quindi «è evidente che la sensibilità sul tema è, anche nei casi migliori, quanto meno più indiretta». Poi c’è il contesto culturale: «per quanto riguarda i ruoli nella famiglia, la condivisione delle responsabilità di cura, è cambiato troppo lentamente e in modo assai difforme nelle diverse regioni del paese», dice la senatrice. Gli stereotipi femminili «persistono in tutti gli ambienti: nella vita familiare, in quella professionale, sociale e politica e sono continuamente confermati dai media, dalla pubblicità alla tv». Continuamente. «Quindi non c’è da stupirsi che le tematiche femminili vengano relegate in bassa priorità e percepite con un certo fastidio, soprattutto quando la crudeltà degli indicatori, come per esempio nel rapporto Cedaw, denuncia un ritardo clamoroso».
Della condizione femminile in Italia, tanto racconta anche la situazione delle carceri. La relatrice dell’Onu Rashida Manjoo spiega di essere stata messa a parte, durante la sua visita in Italia, delle difficoltà di accesso allo studio e al lavoro, «riconducibili alla mancanza di risorse e alle pratiche discriminatorie da parte del personale delle strutture carcerarie». E non manca la «disparità di trattamento da parte di alcuni giudici di sorveglianza nel riesame delle sentenze per la scarcerazione anticipata delle detenute che soddisfano i requisiti per le misure alternative al carcere». C’è poi tutta la questione dei bimbi dietro le sbarre, «i problemi che affrontano le detenute con figli minori all’interno e fuori dal carcere»: questione per la quale, secondo la Manjoo, «ove possibile, occorre valutare eventuali pene alternative». La soluzione alla quale si sta pensando, ovvero di innalzare da tre a sei anni il limite di età dei bambini che possono stare con le mamme in carcere fino a 6 anni, non è invece, per la relatrice Onu, auspicabile.
Quella delle donne in Italia è una storia che parla ancora troppo di ritardi strutturali e culturali. Epperò non mancano provvedimenti che Rashida Manjoo ha definito apprezzabili: la legge sullo stalking, i piani d’azione nazionali sulla violenza contro le donne e il Piano nazionale per l’inclusione delle donne nel mercato del lavoro. Ma non basta. La «piena ed effettiva partecipazione delle donne al lavoro e alla sfera politica» è ancora una sfida. Il quadro politico e giuridico «frammentario» e la «limitatezza delle risorse finanziarie per contrastare la violenza sulle donne», secondo la Manjoo, «ostacolano un’efficace ottemperanza dell’Italia ai suoi obblighi internazionali». E infatti siamo sorvegliati speciali, anche perché il rischio è che la crisi economica «non può essere utilizzata come giustificazione per la diminuzione di attenzione e risorse dedicate alla lotta contro tutte le manifestazioni della violenza su donne e bambine in questo Paese».
L’uguaglianza uomo-donna «non è soltanto un nobile ideale, è una condizione decisiva per lo sviluppo agricolo e la sicurezza alimentare» e per «vincere in modo sostenibile la lotta contro fame e povertà estrema», diceva il direttore Generale della Fao Jacques Diouf nel presentare l’anno scorso il rapporto Lo stato dell’alimentazione e dell’agricoltura. L’uguaglianza tra i generi, secondo il Rapporto sullo sviluppo nel mondo 2012 della Banca mondiale, porterebbe in alcuni Paesi ad un aumento della produttività lavorativa del 25%. «Ma quando si dà attenzione all’uguaglianza di genere ci viene il dubbio che sia una questione sottolineata solo per cercare nelle donne quella mancanza di crescita dei tempi di crisi che viviamo», avverte Rossana Scaricabarozzo di ActionAid. «Il motore del cambiamento è la necessità, mentre per essere reale e duraturo è fondamentale che sia culturale».
La via d’uscita? «Le donne non sono il problema ma la soluzione», dice all’Italia la commissaria Cedaw Violeta Neubauer. «Io sono un’ottimista cocciuta», sorride Emma Bonino. «E penso che le crisi siano degli agenti di cambiamento e che non dobbiamo perdere l’occasione della prossima riforma sul lavoro». Una riforma che «per la prima volta vedrà al tavolo negoziale un ministro donna che ha anche le responsabilità del welfare e delle pari opportunità e due controparti importanti come Confindustria e la Cgil con leader donne. Confido quindi che l’occupazione femminile e tutte le tematiche ad essa connesse saranno tenute in massima considerazione».
Più di 120 donne uccise dai partner, in Italia è femminicidio
In contemporanea in diverse città d’Italia, nei giorni scorsi sono state accese migliaia di fiaccole per ricordare Stefania Noce. Uccisa da un uomo che dice di aver amato «più della sua vita». Luci e fiamme per lei e per tutte le donne vittime di violenza, volute da «Se non ora quando» di Catania, da tutta Snoq e da tante associazioni e organizzazioni politiche. In tutto il mondo, la violenza maschile è la prima causa di morte per le donne: in Italia sono aumentate del 6,7% nel 2010. La violenza di compagni, mariti, o ex è la prima causa di morte per le donne dai 15 ai 44 anni. «Con dati statistici che vanno dal 70% all’87% la violenza domestica risulta essere la forma di violenza più pervasiva che continua a colpire le donne in tutto il Paese», ha detto la relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, Rashida Manjoo, al termine della sua visita ufficiale in Italia.
Le vittime di omicidio da parte di partner o ex partner sono passate da 101 nel 2006 a 127 nel 2010. Molte violenze non vengono neppure denunciate, per quello che è ancora il contesto italiano, «patriarcale e incentrato sulla famiglia». Vi è di più: capita ancora che la violenza domestica non venga percepita come reato. E «un quadro giuridico frammentario e l’inadeguatezza delle indagini, delle sanzioni e del risarcimento alle vittime sono fattori che contribuiscono al muro di silenzio e di invisibilità che circonda questo tema».
L’Italia non ha ancora ratificato la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza nei confronti delle donne firmato a Istanbul lo scorso maggio da 10 stati europei. La piattaforma italiana «Lavori in Corsa: 30 anni CEDAW», D.I.Re (Donne in Rete contro la violenza), e l’UDI (Unione Donne italiane), ne chiedono in questi giorni l’immediata ratifica. E un triste primato tutto italiano è quello di vedersi affibbiata in un documento ufficiale delle Nazioni Unite la parola «femminicidio». In questo lo Stivale è insieme al Messico, condannato nel 2009 dalla Corte interamericana per i diritti umani per il femminicidio di Ciudad Juarez. Una storia della quale si parla poco e dai confini ancora troppo incerti: centinaia di donne, più di 500, violentate e uccise nella totale indifferenza delle autorità dal 1993. E altrettante sarebbero scomparse. Donne, ragazze e bambine (bambine) uccise ma prima sequestrate, torturate, mutilate, violentate (ed è un eufemismo) nello Stato di Chihuahua. I cadaveri straziati – nei corpi ancora in vita inseriti oggetti a beneficio di giochi erotici (anche questo è un eufemismo) mortali – buttati nella monnezza, o sciolti nell’acido. Secondo alcune denunce, si sarebbero macchiati di questi crimini anche uomini delle forze dell’ordine. Ma tanto, nonostante l’aumento della violenza contro le donne, il dibattito politico in paesi come il Messico e il Guatemala continua secondo molti osservatori ad archiviare tutti questi orrori come un danno collaterale della grande guerra del narcotraffico.
Nel 1985 l’Italia ha ratificato la Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (CEDAW) adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU nel ’79, impegnandosi ad adottare «misure adeguate per garantire pari opportunità a donne e uomini in ambito sia pubblico che privato». Il monitoraggio dei risultati avviene ogni quattro anni. Gli Stati firmatari presentano un rapporto governativo con tutti gli interventi portati avanti per raggiungere i risultati richiesti dalla Cedaw. Oltre al rapporto governativo, in parallelo e autonomamente anche la società civile redige un proprio rapporto, il «Rapporto Ombra». Il Comitato Cedaw, composto da 23 esperti provenienti da tutto il mondo, eletti dagli Stati firmatari, esamina entrambi i rapporti e formula le proprie raccomandazioni allo Stato, che è tenuto a considerarle nell’ottica dell’avanzamento delle donne nella società e a risponderne negli anni successivi.
L’organismo delle Nazioni Unite ora ha chiesto all’Italia un aggiornamento entro due anni (invece dei canonici quattro) sulle misure adottate. Le ultime raccomandazioni fatte al nostro Paese, pubblicate il 3 agosto, sono state finalmente pubblicate sul sito delle Pari Opportunità in lingua italiana solo in questi giorni. Tra quattro anni sarà la volta di un nuovo rapporto periodico, il settimo da quando esiste la Convenzione. Nelle raccomandazioni del 2011, il Comitato Cedaw ha accolto con favore l’adozione della legge del 2009 che introduce il reato di stalking in Italia, «il Piano di Azione Nazionale per Combattere la Violenza nei confronti delle donne e lo Stalking, così come la prima ricerca completa sulla violenza fisica, sessuale e psicologica nei confronti delle donne, sviluppata dall’Istat». Azioni che, però, non bastano: «il Comitato rimane preoccupato per l’elevata prevalenza della violenza nei confronti di donne e bambine nonché per il persistere di attitudini socio-culturali che condonano la violenza domestica, oltre ad essere preoccupato per la mancanza di dati sulla violenza contro le donne e bambine migranti, Rom e Sinte». E qui l’affondo: «Il Comitato è inoltre preoccupato per l’elevato numero di donne uccise dai propri partner o ex-partner (femminicidi), che possono indicare il fallimento delle Autorità dello Stato-membro nel proteggere adeguatamente le donne, vittime dei loro partner o ex-partner».
«Femminicidio» è la distruzione fisica, psicologica, economica, istituzionale, della donna in quanto tale, della donna che non rispetta il suo ruolo. Il termine è stato coniato per i fatti di Ciudad Juarez, e ha fatto il giro del mondo. Barbara Spinelli, avvocato di Giuristi Democratici, tra le associazioni della società civile che si occupano del Rapporto Ombra rappresentante della piattaforma Lavori in Corsa – 30 anni CEDAW, ne parla in un libro scritto già nel 2008. «Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale». Già, perché tante sono e sono state nel tempo le richieste delle organizzazioni che si occupano di diritti umani di riconoscimento giuridico del femminicidio come reato e crimine contro l’umanità. Questo, si legge nella descrizione del libro, per «individuare il filo rosso che segna, a livello globale, la matrice comune di ogni forma di violenza e discriminazione contro le donne, ovvero la mancata considerazione della dignità delle stesse come persone».
Ai sensi della Convenzione Cedaw, spiega Barbara Spinelli a Linkiesta, «lo Stato ha delle obbligazioni note internazionalmente come le 4P»: prevenire la violenza sulle donne, attraverso un’adeguata sensibilizzazione, proteggere le donne che decidono di uscire dalla violenza, perseguire i reati commessi e procurare riparazione alle donne, supporto psicologico e sostegno all’ingresso nel mondo del lavoro. Inutile dire che, per le 4P, l’Italia potrebbe fare di più. «Il rapporto presentato dal governo italiano al Comitato Cedaw non dedica un capitolo specifico alla violenza sulle donne come richiesto», spiega la giurista. E «illustra troppo genericamente i provvedimenti che l’Italia ha preso». Quello che manca è «l’inquadramento della violenza dell’uomo sulle donne come carattere culturale». Le violenze si consumano soprattutto in famiglia, e soprattutto quando una famiglia si sta spaccando: ecco perché si auspica l’introduzione del divorzio breve. «La violenza sulle donne non è frutto di raptus, ma dalle relazioni di genere. E l’incapacità di adattare un’ottica di genere si riflette in un’inadeguatezza», dice la Spinelli.
Inadeguatezza e non sistematicità nella formazione degli operatori sanitari, sociali, delle forze dell’ordine e dei magistrati, «che costituiscono il primo ostacolo concreto alla protezione delle donne». Su 10 femminicidi, 7.5 sono stati preceduti da denunce alle forze dell’ordine o agli operatori sociali. «Quindi c’è una risposta inadeguata da parte dello Stato», spiega Barbara. Il comitato Cedaw «si dice appunto preoccupato per l’elevato numero di femminicidi che potrebbero evidenziare una responsabilità dello Stato nel non dare alle sue azioni in questo ambito carattere strutturale e culturale». Garantendo, tanto per cominciare, il risarcimento alle vittime. Ad oggi in Italia «la legge europea che prevede il risarcimento per le vittime è stata attuata per le vittime della violenza negli stadi, ma non per le donne», conclude amara l’esponente di Giuristi Democratici. (Angela Gennaro)
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