DONNE

La Antártida

Viaggio all’estremo Sud. Una visita in Antartide al femminile. Per arrivare ai confini del mondo.
Per sfidare l’immensità del ghiaccio e monitorare gli effetti devastanti dei mutamenti climatici.
Rosa Jijon (artista attivista)

Un’immensa distesa di ghiaccio, bianca e irraggiungibile che nasconde la storia della Terra e forse il suo futuro. L’Antartide, immaginato come estremo Sud, ultimo polo della conquista dell’uomo, oltre il quale esiste solo lo spazio infinito, insondabile, pieno di mistero. Le terre sconosciute hanno sempre rappresentato per l’uomo, nel corso della sua storia, l’incognito, la paura delle tenebre, dello sconosciuto, la coscienza del proprio limite. La foresta oscura e impenetrabile era la patria dei “forestieri”, della minaccia. Anche se il corpo è riuscito a spingersi fino al centro stesso del Polo Sud, lottando contro il ghiaccio e le avversità, in una slitta, un batiscafo, o più di recente in casse di metallo piene di strumenti scientifici, la scienza non è ancora riuscita a catalogare, qualificare, svelare tutto. L’Antartide, senza orsi polari che possano risvegliare la nostra immaginazione infantile, resta solo come un territorio senza esseri umani, riservato a uomini di scienza e di governo. Un continente selvaggio da domare e addomesticare.
Nel film “l’Uomo lupo” di Francois Truffaut, i due personaggi, il dottore di scienza e l’uomo lupo, il rifiutato e lo sconosciuto, si affrontano: uno con l’ansia irrefrenabile della scoperta, della comprensione, della classificazione, del benché minimo comportamento deviante; l’altro che, alla fine, scappa verso l’incerto. Non ci sono uomini che possano addomesticare questa terra. L’eterno mito della conquista ha estinto ciò che nelle terre di conquista esisteva fin da tempi remoti, il selvaggio da dominare o sterminare, la terra da colonizzare. Ricordiamo il mito fondativo del Far West o dell’Amazzonia, terre suppostamente senza uomini per uomini senza terra. O quello di chi oggi si pone a fare ricerca con un obiettivo chiaro, quello di carpire i segreti del sottosuolo, le risorse minerarie necessarie per alimentare un modello di sviluppo che ci porterà all’estinzione.

Equilibri
Poco si sa dell’impatto devastante dei mutamenti climatici sui ghiacci del Polo Sud, ma molto si sa del loro ruolo fondamentale per gli equilibri ecologici del pianeta. Poco si sapeva agli albori della cartografia della vera estensione di questa terra. Aristotele la immaginava un continente ipotetico, la “Terra Australis Incognita”, più tardi ripresa da Tolomeo che attribuiva al continente un ruolo chiave nel riequilibrare il peso del continente eurasiatico nell’emisfero settentrionale. è singolare rileggere oggi questa narrazione in chiave “geopolitica”, in un mondo nel quale il vecchio Nord soffre le conseguenze di una crisi di civiltà (culturale, politica, economica) e il Sud, che dovrebbe contribuire a garantire questo ipotetico equilibrio, Il Polo Sud diventa così simbolo del mondo futuro sconosciuto, che ancora si deve svelare nel suo aspetto più profondo, una frontiera dapprima ermetica, che oggi si rende accessibile, terra di estremi all’estremo della Terra.
Nel corso dei decenni, la comunità internazionale si è sforzata di immaginare per l’Antartide un regime giuridico che potesse conservarne il carattere di patrimonio comune per tutta l’umanità, per proteggerlo contro l’avanzamento della frontiera estrattiva. Istituendo ad esempio un parco mondiale, nel quale gli unici esseri umani ammessi sono quelli che mettono una bandiera e costruiscono una base scientifica, partecipando così alla protezione parziale di questo luogo immenso. è qui l’ennesimo paradosso, quello di un continente senza Stati, un non-Stato nel quale la sovranità degli Stati si confronta con lo sconosciuto.
Compito dell’artista è provare a offrire una lettura originale di questi temi di indagine. Dal terrore del ghiaccio immenso, brillantemente rappresentato in chiave esoterica nei racconti di H.P. Lovecraft, dove il bianco – ciò che non ha colore e la somma di tutti i colori – viene equiparato all’inferno dantesco. Alla presa di coscienza – e allo stesso tempo il rifiuto – dei limiti umani e di quelli del pianeta Terra. Il tema della lotta sfrenata tra conoscenza di nuove frontiere, geografiche, economiche, immaginarie che costruiscono una nuova epopea, di una nuova mitologia.
Non a caso l’epopea della scoperta di questo luogo lontano, sconosciuto, buco nero nella cartografia ufficiale ed eurocentrica, è sempre stata caratterizzata dal ruolo primario degli uomini, della mascolinità come unica forza capace di scoprire, svelare, conquistare e dominare la natura. “Cerchiamo uomini per un viaggio pericoloso. Salari minimi, freddo intenso, Lunghi mesi nell’oscurità totale, Pericolo costante. Ritorno in patria dubbio. Onore e riconoscimento in caso di successo”. Questo l’annuncio per reclutare membri della spedizione di Ernest Schackleton nel 1914. Sopravvissuti per miracolo, con la nave “Endurance” bloccata tra i ghiacci, i membri della spedizione rientrarono in patria senza onori all’indomani dello scoppio della prima guerra mondiale, e in molti sarebbero morti di lì a poco sul fronte di guerra.

La vera scoperta
Nella storia dell’Antartide esiste “l’era eroica”, quella degli esploratori (Schackleton, Scott, Amundsen...), improntata sullo sforzo di trovare certezza in un anfratto sconosciuto del pianeta, visto solo come un’immensa coltre di ghiaccio da conquistare alla scienza e al dominio imperiale. Inizialmente solo per maschi-alfa, l’Antartide è stato poi meta di un numero crescente di donne esploratrici. Tuttavia solo di recente si è iniziato a rileggere quell’epopea in chiave femminista e postcoloniale. Ci ha pensato dapprima una scrittrice femminista americana Ursula K, LeGuin con il suo “Sur”, che narra la storia della “vera” scoperta dell’Antartide per opera di un equipaggio di donne indigene e “mestizos” latinoamericane. Nella lingua spagnola l’Antartide è femminile, La Antártida.
Eppoi la drammaturga afro-inglese Moysola Adebayo, con “Moj of the Antarctic: An African Odyssey” ispirata alla storia vera di Elle Craft, schiava afroamericana del diciannovesimo secolo che riuscì a scappare e trovare la libertà in Inghilterra travestendosi da uomo bianco. Arrivata in Inghilterra Moj s’imbarca su una baleniera e diventa la prima donna nera a mettere piede in Antartide. Un continente che ai primordi apparteneva a Gondwana, dal quale poi si staccarono l’Antartide e il continente Africano.
La visione postcoloniale è insita nella storia stessa dell’Antartide. Ciononostante è paradossale notare come, proprio per riscattare un ipotetico dominio coloniale sovrano su quei ghiacci, (cosa resa impossibile – assieme all’uso per fini militari – dal Trattato Antartico del 1959) l’Inghilterra ha di recente deciso di dare il nome di una donna, Elisabetta II, la regina, a un ampio tratto di continente, scatenando le ire dell’Argentina.
Quello che caratterizza la presenza della stazione (il fatto che non si chiami base, non è un dettaglio linguistico) scientifica ecuadoriana Pedro Vicente Maldonado è – per contro – proprio la rielaborazione del concetto e della pratica di sovranità, intesa al di là di considerazioni geopolitiche, o rivendicazioni territoriali. È una sovranità scientifica collettiva esercitata con progetti di cooperazione Sud-Sud per contribuire, tra l’altro, alla conoscenza degli effetti dei mutamenti climatici, per il bene di tutta l’umanità. Una sovranità non permanente ma transitoria. Il rito che si consuma alla fine di ogni stagione di residenza nella stazione è emblematico: la bandiera tricolore dell’Ecuador viene bruciata prima della partenza e verrà riportata in loco solo all’inizio della stagione seguente.
Non solo enormi laghi ghiacciati si trovano sotto il ghiaccio, ma il pack – come un libro – svela storie nascoste, tracce d’indagine che ci interrogano sulle grandi tematiche dell’umanità, che hanno attraversato la storia, la politica, la cultura, i limiti della sovranità ed il servizio del bene comune, l’ideale cosmopolita. La sfida del progetto “Archivio del ghiaccio – o come superare il terrore del bianco” è di rappresentare questa complessità con la semplicità di un gesto simbolico.

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