Se questo è un uomo
Dissolto negli abissi dell’odio.
Q come Qualità, qualità della vita. “Se questo è un uomo”, s’interrogava e ci interroga ancora Primo Levi, mostrando a che cosa fosse ridotto il valore dell’essere umano nei campi di sterminio. “Se questo è un Dio” sembra domandare ogni volta la croce, mostrando, anche qui senza orpelli, a che cosa sia stato ridotto Dio, quando egli sulla nostra terra, trasformatasi anche per lui in una macchina di sterminio senza pietà, è stato arrestato, umiliato, flagellato, denudato e crocifisso. Quando leggerete queste righe, sarà già passata Pasqua, e con essa sarà già esplosa la vittoria della Vita sulla morte e tuttavia occorrerà sempre ripensare a quale prezzo e attraverso quale inaudita sofferenza.
In un abisso
Non cesserà mai di inquietarci la duplice domanda, ormai diventata solo apparentemente duplice, dal momento che Dio ha conosciuto l’abisso cui uomini possono condurre altri uomini. Essendo egli il Dio della vita e della bellezza, la Bellezza medesima, disceso fino agli inferi, e avendoli conosciuti fino all’abiezione totale, la domanda coinvolge la qualità divina dell’uomo non meno di quanto non coinvolga la qualità umana di Dio. La qualità divina dell’uomo, che fin dall’inizio è apparso con le braccia protese verso il cielo, come a indicare sempre la sua destinazione, assecondando quella sua memoria quaerens, memoria che cerca continuamente le sue origini.
Memoria del divino presente in lui e che l’uomo pertanto non si può rassegnare a vedere crocifissa, in qualsiasi angolo della terra ciò accada. L’incancellabile memoria della sua infinita dignità, anche quando questa apparisse per sempre perduta.
E, dall’altra parte, la qualità umana di Dio, che nella persona di Gesù e nella sua sublime commistione di amore e di dolore, rende più acuta, quasi insopportabile la domanda: è mai possibile che un Dio fattosi tale per amore venga ridotto a questo stato dall’odio? Da una sorta di odio infinito che attenta l’amore, fino a volerne distruggere le ultime visibili tracce, per cancellarne qualsiasi memoria?
No, non si cancella la memoria, sia che essa riaffiori dalle ceneri ancora brucianti di Auschwitz e di Monowitz, sia che gridi dal silenzio di quella croce sulla quale Dio su questa nostra terra ha reclinato in avanti il suo capo, in un ultimo “sì “ all’amore. Nell’uno e nell’altro caso l’amore grida la sua carica d’infinito che nemmeno la morte riesce a estinguere. Anzi la sua resa totale alla morte ne è la manifestazione estrema e l’insuperabile protesta.
Infinito amore
Dalla croce l’infinito amore appare per come esso è, per come sempre è stato: infinito. Non per una sua inimmaginabile e mai raggiungibile quantità, ma per un’insuperabile qualità. Si tratta, in primo luogo, della qualità dell’amore che è un tutt’uno con la qualità della vita. Il coinvolgimento di Dio nella questione iniziale acutizza la domanda sul duplice versante: “Se questo è un uomo, se questo è un Dio”. La questione, infatti, resta tale e tuttavia mostra sempre sprazzi divini, perché conserva le tracce di una memoria “sovversiva”, cioè capace di porre il mondo sottosopra. E così accadde e accade, dal momento che Dio ha toccato l’abisso della perdizione umana e l’uomo in quella perdizione, che lo ricongiunge ormai per sempre al suo Dio, ha ritrovato la via del cielo.
Tutto ciò è accaduto e accade miracolosamente, ma solo perché miracoloso è l’amore, l’amore vero, sicché la qualità umana riappare nell’abiezione di Dio e la qualità infinita dell’amore di Dio parla irresistibilmente nell’ultima abiezione umana. È quella che da ogni campo di sterminio sembra gridare: ecco l’odio di cui non se ne può immaginare uno maggiore. Non in simmetria architettonica, ma acutizzando verso l’incommensurabile la questione, la croce ripropone la domanda, nella sua eterna protesta verso l’odio, rispondendo: ecco l’amore di cui non se ne può pensare uno maggiore.
Ma perché il discorso non sembri troppo astratto, occorre aggiungere che quello finora fatto, lungi dall’essere un discorso sui “massimi sistemi”, è alla base di una diversa concezione della “qualità della vita”. Quando l’espressione affiora, occorre, infatti, chiedersi che cosa s’intenda per qualità e quali ne siano i criteri che la determinano. Capire la “qualità” solo in opposizione alla “quantità” certamente non basta. A definire la qualità concorrono, infatti, scelte e valori, sogni e ideali, indirizzi e orientamenti della vita stessa, di cui si vuole una migliore qualità. Il discorso fin qui condotto ci aiuta a ritrovare la rotta, ma non ci dispensa dal doverla aggiustare di volta in volta. Offre tuttavia più che una semplice costellazione di punti di riferimento, la stella polare intorno alla quale stelle e costellazioni ruotano.
Tali costellazioni riguardano le relazioni e la qualità della vita è sostanzialmente legata alle relazioni umane e interumane. Ma di tutte la stella polare è solo e semplicemente l’amore. Quello accennato sulle labbra di Cristo morente sulla croce e quello reclamato dall’ultimo singhiozzo udito ad Auschwitz. L’infinito silenzio, seguito a quella morte, reclamava e reclama un infinito amore, perché ogni altro è insufficiente a rispondere all’ultima trafiggente domanda: “Se questo è un uomo, se questo è un Dio”. Solo un infinito amore può indicare la linea sulla quale cercare la risposta. Infatti, la risposta sembra venire dal rimescolamento sintattico della doppia domanda e potrebbe essere questa: “L’uomo di Auschwitz è un uomo, perché Cristo che muore sulla croce è Dio”.
I carnefici, di qualunque genere e natura siano, possono spegnere la voce che viene dalle labbra, ma non quella che grida comunque “la sorte di una patria”: una patria che, sulla linea di quella cantata nella struggente poesia di Quasimodo (Lamento per il Sud), è la relazione fondamentale per ogni altra relazione, perché ne determina la qualità sulla linea di quella memoria. È una memoria che è come quella che va verso il Sud, e che tuttavia cerca più che la patria dove si è nati, un’origine e un principio da cui sempre rinascere: il sole dell’amore, l’unico dal quale può scaturire la pace, per affrontare le nebbie del Nord e ripercorrere le rosse strade del Sud.