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Equilibriste involontarie

Oltre il velo: l’autrice Francesca Caferri si inoltra nel mondo colorato e plurale delle donne immigrate, di seconda generazione. Equilibriste fra più mondi.
Monica Massari (Sociologa)

Il volumetto di Francesca Caferri, Oltre il velo: le nuove italiane, appena pubblicato da Mondadori nella versione e-book, è un piccolo viaggio, condotto con attenzione e sensibilità, all’interno di un universo che solo da qualche anno ha iniziato ad assumere, anche nel dibattito italiano, un po’ più di visibilità. Si tratta di un universo frequentato e animato da giovani donne impropriamente ricondotte nella categoria delle cosiddette “seconde generazioni” – come se la condizione migrante fosse un dato quasi genetico in grado di tramandarsi di generazione in generazione – spesso percepite doppiamente altre, rispetto alle loro compagne di viaggio. Altre innanzitutto perché straniere: per nascita, per famiglia o per origine presunta. Una condizione, questa, destinata a pesare enormemente sui loro progetti esistenziali così come nella quotidianità, non fosse altro perché per molte di loro la cittadinanza italiana è un miraggio che, solo dopo lunghi anni, può trasformarsi in realtà: nuove italiane, di fatto; potenziali eterne straniere per lo Stato italiano. Ma queste donne sono altre soprattutto perché, con i loro veli colorati sulla testa, costituiscono per molti un’icona vivente in grado di incarnare, sul proprio corpo, sulla propria pelle, i pregiudizi e gli stereotipi più diffusi sull’Islam. Un universo religioso, culturale e sociale storicamente considerato arretrato, immobile, misogino, incapace di integrarsi con la modernità e in cui le donne sarebbero relegate in una condizione di oppressione, violenza e sottomissione. Ne è, in qualche modo, conferma quel repertorio di sangue, violenze, abusi che ha visto alcune donne musulmane vittime di orrendi delitti ad opera di mariti, padri o fratelli – pensiamo al caso di Hina, uno fra tutti – e che puntualmente viene riproposto ogni qualvolta si affrontino le questioni di genere nell’ambito del più ampio discorso sulle differenze culturali.

Noi e l’Islam
La questione, lo sappiamo bene, è indubbiamente più complessa e affonda le proprie radici lontano nel tempo quando, cioè, la rappresentazione dell’Islam come sistema culturale e religioso retrivo, dove le donne venivano raffigurate in termini dispregiativi e degradanti, risultava particolarmente funzionale a legittimare particolari gerarchie economiche e sociali fra Oriente e Occidente. Ma oggi quella questione è divenuta ancora più intricata, visto che l’incontro/scontro fra Occidente, Europa e Islam non si svolge più in un altrove lontano – i mondi distanti, le colonie funzionali all’impero – ma si materializza qui e ora, in Europa, in Italia, nel nostro mondo. Nel rapporto fra noi e l’Islam, alla distanza geografica del passato, oggi è subentrata la prossimità fisica, quotidiana che fa fatica a metabolizzare quel senso di estraneità sociale e culturale che l’Islam tuttora suscita in molti di noi.
Francesca Caferri prova ad affrontare il corto circuito esistente fra condizione di vicinanza e sentimento diffuso di lontananza che, da sempre, la presenza dello straniero, vero o presunto, ha suscitato nella nostra società, assumendosi sin dall’inizio la responsabilità di una scelta. Quella, cioè, di non parlare su qualcosa o qualcuno: le donne, le giovani donne musulmane che vivono in Italia. L’autrice, piuttosto, sceglie di far parlare direttamente loro e, così facendo, dà loro voce per cercare di decostruire – a partire dalla quotidianità – quel senso comune degenerato che è sempre in agguato nel momento in cui si parla di Islam e musulmani/e. Assumendo uno sguardo che, volutamente, limita al minimo le analisi e gli interventi di chi guarda, cerca, piuttosto, di dare letteralmente la parola a coloro che, talvolta loro malgrado, di questo sguardo sono l’oggetto privilegiato. E cioè le protagoniste di queste storie: giovani donne musulmane per nascita o per cultura, che vivono in Italia in molti casi da sempre – italiane dunque – e che hanno consapevolmente assunto la scelta di indossare un abbigliamento tradizionale – l’hijab – che indica visivamente la propria appartenenza religiosa. Storie di donne che si chiamano Khalida, Soumaya, Aya, Oujedane che sono l’esempio vivente, come ci dice l’autrice, “dei cambiamenti avvenuti negli ultimi anni nella nostra società, un inno alla diversità in una nazione che ancora non sa pensarsi multiculturale” (p. 6).

Voci
Ascoltando la voce di queste giovani donne emerge sin da subito come la scelta o meno di indossare il velo si accompagni, in realtà, a tante altre che hanno modo di esprimersi non solo nei contesti più variegati della vita di ogni giorno – soprattutto nella sfera privata – ma anche e soprattutto nella sfera pubblica, visto che gran parte di loro è direttamente coinvolta in associazioni, gruppi, riviste, forme di attivismo politico e sociale. Khalida, ad esempio, con il suo bel velo azzurro sulla testa, fa parte dell’associazione di donne Filomena. Le sue parole sul diritto alla cittadinanza italiana per il milione e più di ragazzi/e che si ritiene compongano le cosiddette “seconde generazioni” risuonano nitide nella piazza romana che in un giorno di dicembre ospita una manifestazione del movimento Se non ora, quando: “che la nuova domanda sia ‘Come ti chiami?’ e non più ‘Da dove vieni?” si augura, concludendo il suo accorato appello, mentre le compagne l’attendono vicino al palco. La questione della riforma della cittadinanza, infatti, è uno “snodo centrale” del discorso sulle nuove generazioni di origine migrante, una delle più urgenti, in grado di costituire una grande opportunità di crescita e di cambiamento per il nostro Paese.
Le storie che queste giovani donne raccontano, come ad esempio quella di Aya, divenuta blogger per caso, dopo aver aperto una pagina facebook sulla Siria, rivelano l’abitudine quotidiana a vivere attraverso le diverse culture che contemporaneamente, seppur in misura maggiore o minore, compongono la propria identità. Equilibriste fra più mondi. Eppure le vicende quotidiane che le vedono – talvolta loro malgrado – protagoniste sono dense di tentativi di ribellione e forme di resistenza nei confronti di immagini stantie, sclerotizzate, volte a dipingerle eternamente in lotta tra oppressione e desiderio di emancipazione. Come se queste ragazze, come nota Francesca Caferri, dovessero ogni giorno “scegliere fra una cultura di provenienza, che necessariamente le vuole oppresse e sottomesse, e una vita di ribellione. Come se non esistessero sfumature” (p. 7). Ma le sfumature e le differenze ci sono e ci indicano modi di essere e vivere la propria musulmanità e, al contempo, la propria italianità – ma anche la vicinanza a mondi altri, ben più lontani – in cui la scelta religiosa si accompagna a percorsi esistenziali molteplici, per molti versi simili a quelli delle proprie coetanee italiane per nascita e origine familiare: le difficoltà di vedere apprezzate le proprie competenze, di essere valutate per i propri meriti e non per la propria apparenza fisica. Molti di questi problemi sono condivisi dalle giovani donne che vivono nel nostro Paese, a conferma di come le manifestazioni di sessismo e patriarcalismo siano una costante nella storia di diverse culture e, nel caso particolare, siano piuttosto diffuse anche nella nostra società, dove il ruolo e l’autorevolezza delle donne – e le cronache quotidiane ne sono un triste specchio – faticano a essere riconosciuti.

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