Nel pantheon religioso
Quali ostacoli ha incontrato il dialogo ecumenico e quale futuro si prospetta, dopo questa sua rinuncia?
Il clamoroso annuncio delle dimissioni di Benedetto XVI giunge nell’anno in cui si ricorda l’Editto emanato dall’imperatore Costantino per riconoscere il cristianesimo come ennesima “religio licita” in un pantheon religioso già affollato di culti e divinità. Come ben sappiamo, in pochi anni la fede appena “tollerata” divenne progressivamente la religione dell’impero sino a configurare un vero e proprio “regime di cristianità” nel quale il Papa deteneva – o pretendeva di detenere – sia il potere spirituale che quello politico.
È in quella vicenda che il ministero petrino acquisì le caratteristiche ecclesiologiche e teologiche giunte sino a noi che riconoscono al papato un potere e un ruolo che nel tempo ha subito più di qualche scossone – il più grande la fine dello Stato pontificio – ma che nella sostanza è rimasto inalterato per secoli.
Cielo e terra
La tesi che vorrei proporre è che il gesto di Joseph Ratzinger, che probabilmente potrà essere compreso e decifrato solo con il tempo e quando saranno chiarite le ragioni delle sussurrate frizioni interne all’establishment vaticano, ha un’evidente ricaduta sull’ecclesiologia e forse sulla stessa teologia cattolica: come pochi altri, questo gesto umanizza e vorrei dire “secolarizza” l’istituzione papale, riaprendo un confronto sull’organizzazione della Chiesa cattolica e sulla funzione papale, destinato ad avere un grande impatto sulla cristianità del XXI secolo.
Dettate dalla stanchezza, dalla malattia o dal senso di responsabilità, le dimissioni sono difficilmente compatibili con l’esercizio di un “ministero vicario di Cristo in terra”, come recita una consolidata formulazione medioevale. Se tale debba essere il servizio del Papa, allora ha gioco facile il cardinale di Cracovia e già segretario personale di Giovanni Paolo II, cardinale Stanislaw Dziwisz, a ricordare che “dalla croce di Cristo non si scende”. Ma il teologo Joseph Ratzinger, con un gesto grave e anomalo, ha forse voluto dire che il Papa, Benedetto XVI come altri, sulla croce di Cristo non ci è mai salito perché quel sacrificio resta unico e irripetibile.
Da questo punto di vista assistiamo all’imprevedibile svolta di un pontificato che, in pochi giorni, ha aperto un “file” strategico quale il ruolo del Papa e, a seguire, le possibili implicazioni di una comprensione ecclesiologica e teologica diversa da quella adottata sin qui.
Alla luce delle dimissioni, quella del Papa si conferma una missione certamente alta e autorevole ma assai più umana di quanto certa teologia cattolica abbia voluto affermare e la tradizione ecclesiale abbia celebrato per secoli. I teologi e il tempo ci diranno se si tratta davvero di una svolta nella comprensione della “forma di esercizio del primato petrino” – come già Giovanni Paolo II ipotizzava nel lontano 1995 all’interno della sua enciclica Ut unum sint – o se siamo di fronte a una scelta strettamente personale e quindi di modesto rilievo ecclesiologico.
Il tema ha una grande valenza ecumenica perché la “questione del papato” è probabilmente la più delicata e sentita nelle relazioni tra cattolici e ortodossi, questi ultimi preoccupati di salvaguardare il principio della “collegialità” che si esprime nel “Santo Sinodo” e nella dialettica interna che lo anima. Ma la questione è anche sul tappeto delle relazioni tra Roma e Ginevra, ovvero tra cattolici e riformati: non è certamente l’unica ma, tra quelle teologiche, è dirimente: come già emergeva nel dibattito di quasi vent’anni fa sulla “Ut Unum Sint”, infatti, mentre l’idea di un ruolo “vicario di Cristo” in terra non può essere accettata da una tradizione teologica che intende sottolineare il “solus Christus” e l’irripetibilità della croce di Gesù, vi sono dei margini di discussione sui ministeri nella Chiesa e, tra questi, proprio su quello “petrino”.
Nodi aperti
L’inattesa conclusione del papato di Benedetto XVI produce così un vero e proprio paradosso: un pontificato, che sotto il profilo delle relazioni ecumeniche aveva espresso più chiusure che aperture e adottato una prosa più ricca di punti fermi che di virgole, si conclude riaprendo una questione centrale del movimento ecumenico: che cosa è il papato, qual è il suo fondamento, come debba interpretarsi quel particolare ministero sul piano ecclesiale e su quello teologico.
È un dato di fatto che negli ultimi anni le relazioni ecumeniche tra la Chiesa cattolica e la galassia protestante abbiano registrato un evidente raffreddamento a vantaggio di un dialogo privilegiato tra Roma e l’ortodossia. Alle tradizionali questioni teologiche, inoltre, si sono aggiunti nuovi temi di divisione di ordine etico: ribadendo in innumerevoli occasioni l’espressione “valori non negoziabli”, papa Ratzinger ha di fatto chiuso sul nascere il confronto su questioni come il testamento biologico, la ricerca sulle cellule staminali, lo status delle coppie dello stesso sesso. E lo ha fatto ricorrendo a un argomento più antropologico-filosofico che teologico: il diritto naturale, le norme eterne iscritte in un’etica della natura e quindi necessariamente universale. Le Chiese protestanti non hanno accettato questa impostazione, negando che esista un’etica “della natura”, ma solo quella che la nostra fede ci suggerisce nel particolare contesto in cui si vive. L’etica è, infatti, scelta dell’uomo e in quanto tale fallibile e sotto il segno del peccato, necessariamente “relativa” rispetto all’assoluto di Dio. “Relativismo”, secondo papa Benedetto, resa senza combattimento alla logica della secolarizzazione e dell’indifferentismo etico; “etica della responsabilità”, secondo la tradizione protestante, che a ogni generazione e a ogni comunità di credenti impone l’esercizio difficile dell’analisi e del discernimento. Di fronte a questa polarizzazione, almeno da parte protestante, si è avuta l’impressione che il Papa abbia inteso dare priorità ad altri mondi come quello ortodosso o quello “evangelical” che, sia pure in competizione con il cattolicesimo in interi continenti, almeno mostra condividere la battaglia vaticana per i “valori cristiani non negoziabili”.
Se questo è stato lo scenario ecumenico ormai alle nostre spalle, sarebbe interessante capire quale sarà quello di fronte a noi in futuro. Troppo azzardato fare previsioni sul prossimo pontificato, ci limitiamo a delineare il profilo dei poli che realisticamente si stanno costituendo in questa fase preliminare al Conclave. Il primo è quello della continuità di un papato che guarda soprattutto all’Europa e, di fronte allo smarrimento delle sue “radici cristiane”, sogna un ritorno al passato della pre-secolarizzazione. In questo quadro, ecumenismo e dialogo interreligioso appaiono temi delicati e controversi perché nel frattempo l’Europa “secolarizzata” è divenuta anche più “pluralista”, attraversata come è da correnti religiose e spirituali nuove e dinamiche. E i tempi sensibili suggeriscono prudenza, perfino immobilismo. Insomma, in questa ipotesi, poco o nulla cambierebbe sul piano ecumenico e del dialogo interreligioso.
Un secondo profilo è quello di chi giudica concluso il tempo di una Chiesa “eurocentrica” e ipotizza un’apertura globale che implica l’elezione di un outsider, espressione delle Chiese del Sud del mondo: quelle che non vivono la secolarizzazione quanto la “competizione” religiosa sia nella forma del proselitismo come accade ad esempio in America Latina, o in quella dello scontro violento come registriamo in varie aree dell’Asia o dell’Africa. Anche in questo caso ecumenismo e dialogo sarebbero fatalmente condizionati dalla cronaca di relazioni difficili ed eventi distruttivi.
Il terzo profilo è quello di un papato – italiano, europeo o di qualsiasi parte del mondo non fa sostanziale differenza – che assuma in partenza la complessità degli scenari ecumenici e interreligiosi nella convinzione che pluralismo, laicità degli Stati e persino secolarizzazione non sono nuove bestie dell’Apocalisse, ma semplicemente il prodotto di una modernità che non può essere respinta o negata. Il profilo è, insomma, quello di un Papa realista che, senza nulla perdere del senso e dell’urgenza della missione della Chiesa, sa di dover affrontare sfide e opportunità nuove. Sotto il profilo ecumenico e del dialogo tra le grandi tradizioni di fede sarebbe una svolta importante, aperta ai “segni dei tempi” di quella modernità alla quale Giovanni XXIII sapeva guardare con fiducia e speranza.
Comunque si interpretino le dimissioni di Benedetto XVI, ci è difficile immaginare che non avranno effetto sul futuro della Chiesa cattolica e che peseranno ben più dei tanti “no”, dei numerosi “puntini sulle i” e delle robuste sottolineature dogmatiche alle quali il Papa tedesco ci aveva abituato.