Cambiamento e tradizione
Il papato di Benedetto XVI emergerà, nella storia della Chiesa, come un caso più unico che raro grazie alle dimissioni presentate dal Papa. Ma anche dal punto di vista del suo rapporto col Vaticano II, i quasi otto anni di papa Ratzinger rappresentano un caso di studio di estremo interesse.
Dei Verbum
La prima operazione di verità necessaria consiste nello sgombrare il campo dal mito di un Joseph Ratzinger “anti-conciliare”: questo sarebbe non solo storicamente poco accurato, ma anche un immeritato regalo per quanti, nel corso degli ultimi anni, hanno tentato di veicolare questa immagine. Il Vaticano II fa parte della biografia di Benedetto XVI, come si è visto nella lezione tenuta al clero romano due giorni dopo l’annuncio delle dimissioni. Quanto va analizzato, invece, è l’atteggiamento ermeneutico di Joseph Ratzinger rispetto al Concilio come documenti, come evento nella storia della Chiesa, e nei suoi sviluppi post-conciliari. In questo senso, ci sono alcuni momenti tipici del suo pontificato che si possono ricollegare alla lettura ratzingeriana del Vaticano II.
Uno degli aspetti “conciliari” di Benedetto XVI è stato il ricentramento dell’essere Chiesa attorno alla figura di Gesù Cristo. A costo di creare una nuova forma di “magistero pontificio” – quella dei libri su Gesù pubblicati dal pontefice – papa Ratzinger ha tentato di dare un’immagine nuova al cattolicesimo come particolare forma interpretativa del Vangelo nella scia della tradizione patristica. In questo, va detto che la relativizzazione operata da papa Benedetto XVI nei confronti degli aspetti istituzionali della Chiesa e del pontificato ha avuto dei costi dal punto di vista del funzionamento della macchina amministrativa della Curia romana, ma rispondeva all’esigenza di tornare alla fonte dell’essere cristiani, Gesù Cristo. Da qui si comprende l’enfasi, più volte evidente in questo pontificato, sulla costituzione del Vaticano II e sulla rivelazione e la Parola di Dio, Dei Verbum.
L’eredità
Un secondo aspetto di questa “conciliarità particolare” di papa Ratzinger è stata nella visione ecclesiologica del Papa, che – nonostante un’enfasi difficile da comprendere sugli estetismi barocchi della corte romana e delle sue liturgie profane – ha teso a ridurre, rispetto all’eredità di Giovanni Paolo II, il protagonismo mediatico del papato: anche qui, non senza costi per il funzionamento della macchina curiale. Ma le dimissioni rispondono anche a un’ecclesiologia del papato fedele al dettato e allo spirito conciliare che vedono nella Chiesa elementi relativi e mutevoli. Da questo punto di vista, il pontificato di Benedetto XVI ha rappresentato solo una pars destruens rispetto alla questione della riforma del governo della Chiesa, con un atto culminante – le dimissioni – ma con una gestione del lato “istituzionale” della Chiesa che ha segnalato un fondamentale disinteresse (o un’incapacità) da parte del Papa teologo a confrontarsi con la questione.
Un terzo aspetto, più problematico, è stato quello della dimensione del dialogo della Chiesa cattolica con le altre Chiese, con le altre religioni e all’interno della Chiesa. Tutte queste dimensioni sono state coperte dall’ombra delle negoziazioni con i lefebvriani, specialmente dal 2009 in poi e infine approdate nel nulla (fino ad oggi). Particolarmente problematica fu la decisione nel 2009 di creare un ordinariato particolare per gli anglicani desiderosi di “tornare” alla Chiesa cattolica. Le conseguenze di quell’atto non sono ancora pienamente percepibili, ma è chiaro che la Anglicanorum Coetibus rappresenta un atto di interpretazione dello spirito ecumenico del Vaticano II non privo di criticità. Più in generale, la Chiesa di Benedetto XVI ha teso a rafforzare la propria identità teologica e culturale più che creare ponti con le altre Chiese e religioni; in questo non sono mancate le ripercussioni all’interno della Chiesa, in cui il pontificato ha creato ed enfatizzato divisioni interne lungo faglie teologiche e culturali che erano già evidenti prima di Benedetto XVI, ma che con papa Ratzinger si sono in qualche caso esasperate – anche per la mancanza di controllo del Papa teologo sulle sue schiere di fans attivissimi nella blogosfera e nella Curia romana.
I cattolicesimi
Un quarto aspetto tipico di questi ultimi otto anni, ma anche un’eredità del quarto di secolo di Joseph Ratzinger alla Congregazione per la Dottrina della Fede, sono state le indagini contro alcuni teologi, e in particolare teologhe e suore americane. Qui in America questi atti sono stati letti chiaramente come una resa dei conti da parte del pontefice nei confronti di una parte di Chiesa – specialmente le suore – la più attiva nel presentarsi come “il cattolicesimo conciliare” o i “Vatican II Catholics”. Il periodo del cardinale Levada come prefetto della Congregazione è stato chiaramente visto come funzionale a mandare un messaggio al cattolicesimo liberal americano, specialmente circa l’ermeneutica del Vaticano II su questioni morali, sociali e di dialogo con le altre religioni.
Infine, il rapporto tra papa Benedetto XVI e lo spirito del Concilio va visto attraverso gli effetti del pontificato e dei suoi insegnamenti sul dibattito circa il ruolo del Concilio nella teologia e nella Chiesa cattolica. Il dibattito sul rapporto tra il Vaticano II e “la tradizione”, rilanciato dal discorso di Benedetto XVI alla Curia romana del 22 dicembre 2005, non apriva una querelle, ma la riapriva. Lo stato attuale del dibattito sembra essere tornato a una questione – quella della “continuità/discontinuità”, “lettera/spirito” – che il Sinodo dei vescovi del 1985 convocato da Giovanni Paolo II aveva condotto a un suo equilibrio teologico. Il passo indietro di cui siamo testimoni è indicativo non solo di un momento della vita ecclesiale, ma anche di una generale difficoltà a misurarsi, da parte di Benedetto XVI e non solo, con la realtà quotidiana delle cose e con il carattere storico delle idee e delle rappresentazioni, anche quelle teologiche.
Il prezzo che la credibilità morale e intellettuale del cattolicesimo ha pagato all’idolo della “continuità” è già alto. L’idea di “storia” è di gran lunga il fattore più importante di divisione all’interno della teologia cattolica dopo il Vaticano II e sul Vaticano II: come diceva Proudhon, grattando sotto la politica si trova una teologia. Nel nostro caso, grattando sotto il dibattito “continuità/discontinuità” si trovano diverse concezioni di storia. Da una parte, vi sono coloro che vedono nella ermeneutica della “continuità” sostenuta da Joseph Ratzinger fin dagli anni Ottanta (una formula che divenne meno tranchant, col binomio “continuità e riforma”, solo nel 2005, col discorso alla Curia romana) la sola possibile opzione ermeneutica sul Vaticano II: essi evidenziano la necessità di interpretare il Concilio in stretta continuità con la tradizione precedente, e in particolare con quella del Concilio di Trento e del Vaticano I. Dall’altra parte vi sono quanti vedono nel cattolicesimo due periodi – un pre-Vaticano II e un post-Vaticano II – e vedono in questo passaggio degli elementi decisivi di discontinuità: il Vaticano II come un punto di svolta, di cambiamento e, in sostanza, di progresso per la teologia cattolica.
I diversi fronti hanno sempre faticato a parlarsi, nel corso degli ultimi 50 anni. L’elemento nuovo, frutto di questi ultimi anni, è l’estremizzazione della posizione “continuista”, che sotto Benedetto XVI era arrivata a sconfinare con le posizioni lefebvriane. Il discorso di Benedetto XVI del 22 dicembre 2005, nato come il tentativo di rispondere a due diversi e contrapposti estremismi, a parere del Papa entrambi (i lefebvriani e i teologi liberal) colpevoli di vedere nel Concilio una rottura, ha finito per coltivare e incoraggiare soltanto una delle parti in causa, quella del tradizionalismo che ha colto nel discorso del Papa solo l’appello alla “continuità” e ha facilmente messo da parte l’elemento della “riforma”. Questi neo-tradizionalisti sembrano ignorare che la comprensione del cristianesimo come fenomeno storico non è colpa del Vaticano II, né tantomeno degli interpreti del Vaticano II.