Beato tra le donne
Direi che non ci sono stati commenti “di genere” alla notizia della svolta storica voluta da papa Benedetto: questioni di questo tipo sono talmente “neutre” da non trovare nelle donne alcuna ragione di interloquire con propria titolarità. Anzi, i modi delle interviste televisive hanno confermato la maggior propensione femminile a recepire emotivamente la notizia.
Infatti, non ci siamo sottratte a un certo intenerimento compassionevole davanti all’ammissione di incapacità fisica e spirituale: improvvisamente non abbiamo visto più papa Ratzinger, ma un uomo fragile, dallo sguardo infantile e con la velatura di timidezza fin qui repressa, desideroso di andare nella sua Germania e di sedere in poltrona con il gatto sulle ginocchia ad ascoltare Mozart. In realtà tutta la sua volontà tutt’altro che debole, ci potrà riservare ancora sorprese, quanto meno letterarie.
Resta vero che adesso anche lui deve riconoscere di “sentire” di “essere” corpo, un corpo più eloquente di quando era giovane, in grado di condizionare lo spirito. Il logos che – Platone docuit – governa la materia gerarchicamente inferiore, si è dimostrato vulnerabile come il fisico. Forse Gesù, che nemmeno lui era puro logos, si è incarnato accogliendo l’umano in tutte le sue varianti; per questo lo si onora con vesti candide e variamente sontuose. Forse è bene riconoscere la realtà psicofisica dell’umano, che non divide biologia e peccato, ma esalta cultura e responsabilità. Forse, comprendendo i limiti, possiamo più serenamente riflettere sul relativismo e i principi non negoziabili.
Come donne – il genere “debole” per definizione – non possiamo dimenticare che, a prescindere da qualche generica richiesta di scuse, perfino la nostra valorizzazione di cristiane rientra in uno schema gerarchico di inferiorità.
Una radicata tradizione, che ancora fatica a cadere, ritiene il nostro corpo più carnale, secondo un senso poco teologico del peccato e lo disciplina in un ruolo convenzionale senza approfondire i valori e le responsabilità generali della sessualità e della corporeità, indipendentemente dal destino della donna-madre e dell’uomo-immagine di Dio.
Le donne sanno pensare in proprio e, si sa, sono scomode in quanto soggetti detentori di diritti contemporaneamente “uguali e diversi”. Lo si vede nella peggior campagna elettorale di cui si sia avuta esperienza: sono scomparse dalla leaderistica di partiti e movimenti, composta solo di uomini che hanno parlato con voce di uomini. Eppure era in corso una campagna mondiale contro la strage dei femminicidi, “una brutta cosa”, che non ha mai prodotto autocoscienza negli uomini sia laici che chierici, anche quando si dissociano dalle violenze. Perché un uomo violenta e/o uccide una donna inoffensiva? Che razza di sessualità, mentale e fisica, ha uno stupratore o un femminicida? Che cosa ha detto la Chiesa? Perché non ha mai evangelizzato il corpo dei maschi? Che corpo è quello che ha dovuto attendere il Concilio Vaticano II perché l’amore fosse il primo principio fondativo del matrimonio, anche se non è stato abolito l’orrendo “remedium concupiscentiae”, che inquina il sacramento e che una delle madri del Concilio, Luz Maria Longoria, contestò già cinquant’anni fa? La stessa tragedia della pedofilia può essere risolta solo con condanne e divieti dopo secoli di colpevole silenzio?
Certo, esiste la corruzione della Curia, l’interferenza con le politiche degli Stati, lo scandalo dello Ior, la secolarizzazione. Ma la storia ormai sta mutando l’antropologia: i principi restano, ma, come diceva Giovanni XXIII, non è il Vangelo che cambia, siamo noi – uomini e donne – che impariamo a leggerlo meglio. Dobbiamo, dunque, affrontare temi divenuti scomodi perché silenziati da secoli, maledetti nella forma, sostanzialmente solo rimossi.
Come donne abbiamo un grande dispiacere: proprio alla vigilia della sua decisione, papa Ratzinger il 19 gennaio 2013, alla sessione plenaria del Pontificio Consiglio “Cor Unum” (dal tema “Carità, nuova etica e antropologia cristiana”) ha concluso condannando “filosofie come quella del gender”, perché “la reciprocità tra maschile e femminile è espressione della bellezza della natura voluta dal creatore”. Una cosa ben diversa dalla speranza della Pacem in Terris (“nella donna diviene sempre più chiara e operante la coscienza della propria dignità. Sa di non poter permettere di essere considerata e trattata come strumento; esige di essere considerata come persona, tanto nell’ambito della vita domestica che in quello della vita pubblica”). Anche Giovanni Paolo II, che negò alle donne il sacerdozio (per altro mai stato richiesta principale del femminismo), nella Mulieris Dignitatem aveva affermato che “la donna è la rappresentante e l’archetipo di tutto il genere umano: rappresenta l’umanità che appartiene a tutti gli esseri umani, sia uomini che donne... Non può diventare «oggetto» di «dominio» e di «possesso» maschile... Quante volte paga per il proprio peccato... ma paga essa sola, e paga da sola! Quante volte essa rimane abbandonata con la sua maternità, quando l’uomo, padre del bambino, non vuole accettarne la responsabilità... La Bibbia ci convince del fatto che non si può avere un’adeguata ermeneutica dell’uomo, ossia di ciò che è «umano», senza un adeguato ricorso a ciò che è «femminile»... La Chiesa chiede... che queste inestimabili manifestazioni dello Spirito che, con grande generosità, sono elargite alle figlie della Gerusalemme eterna, siano attentamente riconosciute, valorizzate, perché tornino a comune vantaggio della Chiesa e dell’umanità, specialmente ai nostri tempi”.
Forse, come gran parte dell’umano maschile, anche papa Benedetto ha avuto paura delle donne e delle parole che definiscono le loro scuole di pensiero. Il termine “femminismo” lo aveva già inquietato nell’uso e nei comportamenti delle suore americane della Lwcr (la Federazione delle religiose americane) che si erano trovate inquisite dal visitatore apostolico e “commissariate” proprio per il loro “femminismo”. Anche se il clero è poco attento alla produzione teologica delle donne, da decenni laiche e religiose si occupano di teologia cercando di contribuire al “comune beneficio della Chiesa e dell’umanità”. Ovviamente con voce e logica proprie.
È ben vero che Benedetto XVI ha elevato alla santità e nominato dottore della Chiesa lldegarda di Bingen, una donna che, nata nel 1098, da badessa voleva che la domenica e le feste religiose le suore fossero abbigliate con eleganza in onore a Dio e che nella sua antropologia teologica partiva dalla valorizzazione del corpo. Forse pochi in Vaticano l’avevano letta; ma il Papa è stato davvero assistito dallo Spirito dandole tanto valore. E, forse, adesso avrà più tempo per leggere questa Santa: non si preoccupi se anche le suore pensano che fosse già femminista.