TESTIMONI

Dalla cella vedo il mare

La straordinaria vicenda di un sacerdote bresciano, don Pierluigi Murgioni, che rimase convinto della forza evangelica della nonviolenza nonostante i lunghi anni di carcere e le torture.
Anselmo Palini

Nel dicembre 1972, mentre è detenuto in una cella del carcere di Punta Carretas, in Uruguay, don Pierluigi Murgioni scrive ai familiari una lettera piena di poesia: “Dalla mia cella posso vedere il mare; stasera c’è una luna piena stupenda, bassa sul mare, rossa, con fiocchi di nuvole davanti: tutto uno spettacolo. Sono piccole cose che ti aiutano a ‘essere fuori’. Mi hanno rassicurato sul vostro conto, siete forti. E non poteva essere diversamente: bisogna saper accettare tutto con semplicità, come è nella dolce e terribile logica del Vangelo. Dio è amore, morto e resuscitato, e perciò: ‘Benedetti i puri di cuore, benedetti i poveri, benedetti voi che piangete, benedetti i perseguitati, benedetti i costruttori di pace’”.
Il Concilio Vaticano II e la Conferenza di Medellin, la teologia della liberazione e le comunità di base, la scelta dei poveri e la denuncia delle ingiustizie strutturali, la testimonianza evangelica e la persecuzione: tutto questo troviamo nella vicenda del bresciano don Pierluigi Murgioni.

La dittatura
Ordinato sacerdote nel 1966 da Paolo VI, dopo un anno di servizio pastorale a Villaputzu, in Sardegna, la terra d’origine della sua famiglia, si recò per un anno in Spagna per frequentare dei corsi di preparazione in vista della missione in Uruguay, Paese cui era stato destinato. Nel Paese iberico conobbe i manganelli della polizia franchista e capì cosa significava vivere in uno Stato retto da una dittatura.
Agli inizi di settembre del 1968 arriva in Uruguay, proprio mentre i vescovi latinoamericani, nella loro Conferenza di Medellin, fanno la scelta dei poveri.
L’America latina che don Pierluigi trova al suo arrivo è una realtà passata in campo economico dalla sfera d’influenza inglese a quella statunitense. È una realtà caratterizzata dall’avvento di dittature militari sia nei piccoli Paesi, come l’Uruguay, sia nelle grandi nazioni come il Brasile, e di lì a poco anche in Cile e in Argentina. Tutti questi colpi di stato avvengono con il diretto sostegno nordamericano: non si vuole che in America latina si affermino governi in contrasto con gli interessi economici statunitensi.
L’Uruguay, da Svizzera d’America quale era considerato ancora alla metà del Novecento, era in breve sprofondato in una grave crisi economica e politica, con i militari sempre più padroni della situazione. Nel giugno 1968 il governo del presidente Pacheco proclama lo stato d’emergenza, annullando tutte le garanzie costituzionali e di fatto dando il via alla creazione di uno stato dittatoriale.
Il 10 settembre 1968 don Murgioni inizia a svolgere il proprio servizio nella diocesi di Melo e chiede di poter risiedere in un quartiere povero, il barrio santa Cruz, in una piccola casa presa in affitto; poi l’anno successivo accetta la proposta del vescovo di Melo, mons. Caceres, di trasferirsi a Treinta y Tres, la seconda città della diocesi, sprovvista di servizio pastorale.
Con l’attività di evangelizzazione e promozione umana si pone di fatto in contrasto con la politica totalitaria e dittatoriale del governo. Ben presto don Pierluigi si coinvolge direttamente con le forze di opposizione, aiutando a procurare documenti falsi per permettere agli oppositori ricercati di sfuggire alla cattura e riparare all’estero. Poi un bel giorno gli arriva in canonica un guerrigliero ferito; necessita di cure e per questo, correndo grossissimi rischi, lo porta in Brasile in macchina, facendo oltre duecento chilometri.

L’arresto e le torture
Nel dicembre 1971 don Pierluigi torna in Italia per un periodo di vacanza. La situazione in Uruguay peggiora sensibilmente, l’abitazione di don Pierluigi viene perquisita dai militari, diversi suoi collaboratori pastorali vengono fermati o arrestati. Quando è sulla via del ritorno, i suoi compagni in Uruguay gli fanno sapere di non scendere con la nave a Montevideo, ma di proseguire per l’Argentina, consiglio che il sacerdote bresciano non segue: non ritiene corretto mettersi in salvo quando diversi suoi collaboratori sono finiti in carcere. Così l’8 maggio 1972 anche don Pierluigi viene arrestato a Treinta y Tres, con l’accusa di far parte del movimento rivoluzionario dei Tupamaros.
Arrestato e sottoposto a feroci torture, viene rinchiuso in carcere per oltre cinque anni con la sola colpa di avere proposto, con la parola e con l’esempio, il messaggio evangelico di pace e di giustizia. Ma, in un Paese come l’Uruguay, retto da una dittatura militare, predicare il Vangelo significava essere considerato un pericoloso sovversivo. Per un certo periodo nel carcere di Punta Carretas è detenuto nello stesso piano in cui vi era l’attuale Presidente dell’Uruguay, José Mujica. Viene poi trasferito nel carcere di massima sicurezza di Libertad, un penitenziario costruito sopra alte colonne in modo da rendere impossibile qualsiasi tentativo di fuga. E nei lunghi anni trascorsi in carcere don Pierluigi è un punto di riferimento per gli altri detenuti che ammirano la sua coerenza, la sua forza nel resistere ai soprusi, la sua dignità.

L’espulsione dall’Uruguay
Don Pierluigi viene rilasciato, dopo oltre cinque anni di prigionia, il 9 ottobre 1977 ed espulso dall’Uruguay: tutto ciò avviene grazie all’interessamento della Santa Sede e del Pontefice in persona, Paolo VI, del Governo italiano e della Chiesa bresciana. Nonostante i terribili anni trascorsi in prigionia, don Murgioni tornò in Italia ancora più convinto del fatto che quella del Vangelo e della nonviolenza fosse l’unica strada da percorrere.
Vanda Bono, una uruguayana ora residente in Italia, ha raccolto per la propria tesi di laurea, sulla pratica della tortura in Uruguay al tempo della dittatura, una lunga intervista a don Pierluigi. Ha, poi, così sintetizzato il significato che per lei ha avuto incontrare e intervistare il sacerdote bresciano: «Quando avevo incontrato don Murgioni, mi aveva colpito molto, dietro le evidenti fitte che portava nell’animo per quanto accaduto, la forza e la determinazione che lo caratterizzavano. Avevo esitato nel contattarlo. Sapevo, per averlo letto, che è difficile ritornare con la memoria a esperienze tanto traumatiche, che il tentativo era quello di lasciarsele dietro le spalle. E lo dissi a don Murgioni, ma lui mi rispose: «Non ti preoccupare. Lascia il foglio con le domande che hai preparato e io ti risponderò». Il risultato è una testimonianza preziosa.
Rientrato in Italia, don Murgioni riprende a svolgere il proprio servizio nella diocesi di Brescia. Negli ultimi mesi di vita si dedica alla traduzione in italiano del Diario di Oscar Romero: questo testo, pubblicato da edizioni la meridiana di Molfetta, presenta la prefazione di mons. Luigi Bettazzi, la postfazione di padre David Maria Turoldo e, appunto, la traduzione di Pierluigi Murgioni.
Pierluigi Murgioni muore il 2 novembre 1993, a soli cinquantun anni, a causa probabilmente di una lenta degenerazione degli organi più martoriati dalle torture subite in carcere.
La vicenda di Pierluigi Murgioni pone alcuni interrogativi che restano aperti: come annunciare il Vangelo di pace e di giustizia in una realtà di profonde e radicali disuguaglianze sociali? Come porsi di fronte a un potere politico brutale e violento? Come difendere i diritti della povera gente? Come, insomma, essere Chiesa profetica e non Chiesa muta e disincarnata in un contesto di dittatura militare?

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