EDITORIALE

Dall'acqua in poi

Tonio Dell'Olio

L’ultimo appuntamento nazionale delle urne prima delle elezioni politiche era stato il referendum a difesa dell’acqua come bene comune. Evento accompagnato anche da Mosaico di pace e che, al di là di ogni più rosea previsione e contro una tendenza che si era andata consolidando negli ultimi appuntamenti referendari, ha visto una massiccia partecipazione degli elettori e la maggioranza per il SI schiacciante. Costituiva una novità epocale che andava letta in profondità rispetto al cambiamento che carsicamente covava nel cuore del Paese. Non si trattava solamente di un risultato imprevisto. Era la manifestazione di una presa di coscienza più profonda di partecipazione dei cittadini e delle cittadine a divenire protagonisti in prima persona. La volontà determinata di riprendersi in mano il destino del Paese secondo schemi nuovi, ovvero senza delega e senza le rappresentazioni tradizionali dei partiti. Un fenomeno che era poi proseguito con altri segnali importanti come la richiesta dal basso del cambiamento della legge elettorale e con la campagna per il riconoscimento della cittadinanza italiana agli immigrati di seconda generazione. Segnali che non erano estranei soltanto alle rigidità degli schemi delle formazioni politiche ma persino ad alcune espressioni della cosiddetta società civile. Un fenomeno corale e nuovo. Avessimo avuto una classe politica attenta a leggere la vita e il pensiero della gente, l’esasperazione e le attese... forse oggi avremmo uno scenario politico diverso. D’altra parte non si poteva pretendere una riforma radicale della politica e della rappresentanza da coloro che della politica tradizionale sono l’espressione diretta. Non c’è alcun bisogno di schierarsi dalla parte dei rottamatori o di ricorrere a quelle categorie per capire che il cambiamento richiesto non era un maquillage a colpi di slogan ma esigeva un rinnovamento profondo di idee, di persone e di proposta politica. Il pieno di consensi registrato dal Movimento 5 stelle, comunque la si pensi, ha significato esattamente questa indicazione. La gente non ci sta più a delegare il proprio malessere e le proprie speranza di guarigione nelle mani di medici esperti della struttura ospedaliera, competenti nella letteratura medica, magari anche aggiornati sulle nuove malattie insorgenti ma che non ascoltano i pazienti e forse non li lasciano nemmeno parlare. Se negli ospedali i pazienti in cura sono “numeri di letti in uno stanzone”, nella politica rischiano di essere soltanto una percentuale di consenso che permetta l’ingresso di un partito nei palazzi del potere. Oggi non funziona più così. La sovranità popolare è cosa altra e più alta di questo. È partecipazione, è parola e ascolto, è racconto di una quotidianità difficile e a volte drammatica, è fatica condivisa nella ricerca di una soluzione possibile. Una soluzione nuova perché i modelli già visti e collaudati non solo non hanno offerto indicazioni terapeutiche efficaci ma si sono rivelati patogeni, ovvero sono all’origine di patologie e di effetti collaterali, di controindicazioni quanto non di epidemie fatali in campo sociale ed economico. La posta in gioco oggi non è la sopravvivenza di questo o quel partito. Si tratta piuttosto della qualità della democrazia come la Costituzione l’aveva sognata, intravista e in parte disegnata. O siamo capaci di un rinnovamento di questo tipo o saremo costretti a immaginare improbabili viaggi della speranza per i pazienti gravi. Con il carico colpevole di chi non ce la fa. Una politica realmente nuova è chiamata oggi più che mai ad adottare proprio questo punto di osservazione come postazione obbligata. Gli ultimi.

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