In difesa di un popolo
I fondamenti etici della Difesa Popolare Nonviolenta.
Appunti manuali inediti, a cura e responsabilità di Enrico Peyretti, che li ha conservati e trascritti, raccolti durante la relazione di don Tonino Bello nel convegno sulla Difesa Popolare Nonviolenta, svoltasi a Torino il 2 novembre 1990. Tra altri vari interventi scritti di don Tonino sull’argomento, l’autore segnala l’articolo “L’ultima radice”, pubblicato in Nigrizia, settembre 1991.
Questo mio doveva essere un saluto, poi è diventato un tema.
Fondamenti etici della DPN? Il problema etico ce l’hanno quelli che sostengono la difesa armata, non noi!! Dirò, invece, le difficoltà che la nonviolenza incontra per entrare non solo nelle coscienze, ma nell’immaginario della gente. Vedo cinque difficoltà:
1. Nonviolenza come optional: si parla molto di nonviolenza nei movimenti, ma come una delle tante possibilità, con lo stesso valore di altri metodi. È caduto il marchio doc, che è evangelico. Anche in certi ambienti ecclesiali si sente dire: è un metodo vostro, andate pure avanti! La nonviolenza è elogiata, anche se elusa: “Bisogna stare coi piedi per terra!” Ma l’unica garanzia oggi è la soluzione nonviolenta dei conflitti. E questo vale non solo per i credenti in Gesù, ma per tanti uomini di buona volontà.
2. L’etica a doppio binario: a) privato b) pubblico, politico. Anche in ambienti cristiani. Nel privato è raccomandato il disarmo unilaterale del perdono, è condannata la ritorsione violenta. Il Vangelo è ridotto a buon senso, invece del Discorso della Montagna. Il problema delle Chiese è superare questa schizofrenia. I vescovi tedeschi nel 1983 affermavano: nell’età delle armi distruttive, “l’amore dei nemici deve applicarsi anche nei rapporti tra i popoli e nella politica internazionale”.
3. La nonviolenza sa di utopia. Ma i vescovi giapponesi nel 1983 hanno parlato di “impegno nonviolento per la pace”. Così i vescovi belgi, olandesi (pure nel 1983). Essi negano il carattere utopistico della nonviolenza. I vescovi Usa nel 1983 hanno dichiarato: “I mezzi nonviolenti di resistenza al male meritano maggiore studio e considerazione. (…) Esortiamo a metterli a confronto con gli effetti di una guerra. (…) Sia la ragione pratica che la fede spirituale esigono che essi siano presi in seria considerazione come una forma efficace di azione”. E Martin Luther King afferma: “L’amore disarmato è di gran lunga l’arma più potente del mondo”.
4. La nonviolenza ci trova spesso indecisi. Nei bivi del cammino servono indicazioni precise: no alla violenza; non solo sui rettilinei (quando la pace è facile), ma agli incroci pericolosi (come ora nella crisi del Golfo); no alla guerra. Alzare questo segnale senza esitazione. Non ammettere eccezioni al no alla guerra.
5. Concretare la logica della DPN. Cosa vuol dire DPN con Saddam, con Gheddafi? Quali strategie? Cosa può la DPN con la mafia? Quella con la mafia è la più grande guerra italiana dopo il 1945: mille morti dal gennaio 1990, in sei mesi, mentre i morti dell’Intifada, in tre anni, sono 900. Il fatturato della mafia supera i 100.000 miliardi di lire. Ci sono 450 cosche, un apparato economico completo. Pratica una difesa deterrente e distruttiva. Ha 15.000 “soldati”. La popolazione paga tributi, il “pizzo”, in cambio di una certa sicurezza. La mafia gestisce le feste patronali. Fa pedagogia ai giovani emarginati. È tutt’altro che “arcaica”. Esiste un approccio nonviolento alla lotta alla mafia? Un metodo che sia alternativo alle risposte militarizzate: legge sulla droga, politica sull’immigrazione.
Senza giustizia non c’è pace. La guerra è frutto dell’ingiustizia. La DPN intacchi le radici dell’ingiustizia.
Divulgate con caparbietà le linee concrete della DPN.
Qualche commento
Fornendo questo documento a Mosaico di pace, aggiungo alcune riflessioni attuali. La difesa di un popolo, delle sue istituzioni, della libertà e della democrazia, la difesa cioé della vita, è un problema etico, come rilevava don Tonino, e non soltanto pratico-effcientistico.
Non è vera difesa della vita quella che usa la morte. La guerra come mezzo di difesa non difende l’essenziale. Dicevano i latini: “Propter vitam, vivendi perdere causam”, cioè: per vivere, perdere il motivo del vivere. Ripeteva Norberto Bobbio che “la guerra è l’antitesi del diritto”, e quindi cercava, tra dubbi e interrogativi, le vie della pace. L’Assemblea ecumenica di Kingston 2011 ha posto come programma delle chiese il passaggio dall’antica teoria della “guerra giusta” (un male giustificato a determinate condizioni, sempre facilmente trovate e allargate) alla dottrina e impegno della “pace giusta”, ottenuta e garantita con mezzi giusti.
In Italia, la legge 230/1998 sul diritto all’obiezione di coscienza prevede la preparazione di una “difesa civile non armata e nonviolenta”, ma nessun successivo governo ha mai attuato questa direttiva, che avrebbe il valore di un esempio mondiale. Abbiamo avuto invece l’esercito professionale: non un popolo che cerca il modo di difendere i propri diritti senza offendere altri diritti umani, ma il vecchio monopolio armato della difesa, la degenerazione della difesa ridotta ai mezzi offensivi (cos’altro sono le armi sempre più sofisticate?), il servizio di difensore dei più deboli trasformato in una professione mercenaria a cui si rivolgono giovani scartati dalla vita civile che non offre loro un lavoro. Poi la retorica nazionale copre queste magagne con ondate di ipocrisia anche religiosa, come accade nei funerali dei morti nelle missioni cosiddette di pace, e ha raggiunto un culmine di vergogna quando i due fucilieri che hanno ucciso per errore due pescatori indiani, perciò perseguiti dalla giustizia indiana, sono stati trattati in Italia come eroi.
Don Tonino parlava nel novembre 1990; eravamo a cavallo tra due momenti cruciali: prima il 1989 (col successo esemplare delle rivoluzioni nonviolente nell’Europa dell’Est) che aprì grandi speranze di un ordine mondiale di pace, secondo lo Statuto dell’Onu, dopo i decenni della Guerra Fredda; poi la crisi del Golfo, nel 1990, che l’Occidente volle gestire con il ritorno alla guerra, scoppiata il 17 gennaio 1991. Si aprì così quello che Gorbaciov chiamò “il decennio perduto”, e poi la lunga stagione delle “nuove guerre”, chiamate pace, che arriva ai nostri giorni.
L’Occidente, perduta l’Urss, si costruì un nuovo nemico nell’islam politico, anche per “attingere alle necessarie fonti di energia” (le guerre per il petrolio), come dichiarava senza pudore nel 1991 il governo italiano (vedi il mio scritto Denuncia del Nuovo Modello di Difesa –N.M.D. –, giugno 2001, in http://www.peacelink.it/tools/author.php?l=peyretti). Tutta la “filosofia” di quel progetto di difesa è apertamente dichiarata nelle prime 70 pagine. Vi si dice che, caduto il muro Est-Ovest, il nuovo confronto è nell’area mediterranea “tra una realtà culturale ancorata alla matrice islamica e i modelli di sviluppo del mondo occidentale” (pp. 15-16). Là è il nuovo nemico, il nuovo conflitto economico-religioso! Il pericolo attuale, secondo il NMD, sta nelle tendenze “al sovvertimento delle attuali situazioni di predominio regionale, anche per il controllo delle riserve energetiche esistenti nell’area” (p. 21). Quindi si vuol difendere un predominio occidentale! Oggi vediamo in quel tempo l’avviarsi della spirale guerra-terrorismo, che si alimentano reciprocamente, strozzando la vita: “Terrorismo e guerra sono due facce di un’unica medaglia” (Luigi Bonanate, La crisi. Il sistema internazionale vent’anni dopo la caduta del Muro di Berlino, Bruno Mondadori 2009, pp. 39-40, e in vari altri studi).
Don Tonino Bello coglieva la grave questione etica nella svolta politica negativa in corso, dalla possibilità della pace alla nuova fede nella guerra, e voleva dare alti fondamenti all’alternativa nonviolenta. Quando la guerra toccò il corpo dell’Europa, con le scissioni e le guerre nazionalistiche della Jugoslavia, incoraggiate anche da alcuni interessi europei, Tonino Bello si sentì personalmente impegnato, pur già malato, a cinque mesi dalla morte (20 aprile 1993), a partecipare a quella marcia per la pace a Sarajevo assediata, nel dicembre 1992, che fu il culmine della sua vita di apostolo della pace. Nel famoso discorso che improvvisò quella notte, rivendicata quella “Onu della base, dei poveri”, differente dall’Onu dei potenti, affermava “la grande idea della nonviolenza attiva, della difesa popolare nonviolenta”, e insisteva su questo ideale e i relativi metodi: “Noi qui siamo venuti a portare un germe: un giorno fiorirà” (Antonino Bello, Scritti di pace, Molfetta 1997, pp. 339-340).
Corpi Civili di Pace
Oggi si parla meno di Difesa Popolare Nonviolenta e piuttosto di Corpi Civili di Pace. Il lettore può trovare informazioni sulla storia, realtà esistenti e ricerche in corso nei siti relativi (www.reteccp.org; www.operazionecolomba.it; www.nonviolentpeaceforce.org; www.pacedifesa.org; www.alexanderlanger.org; www.berrettibianchi.org). Consiglio anche di Alberto L’Abate, Per un futuro senza guerre, Liguori editori, 2008. Il nodo sta nel fatto che le iniziative reali di prevenzione, mediazione, assistenza, ricostruzione civile, riconciliazione, sono attuate da piccole generose associazioni volontarie, e non diventano atti della politica. Gli Stati sono legati ad una angusta cultura dei conflitti: quando questi si fanno acuti non vedono e non conoscono altro che lo strumento militare. “Gli Stati sono più stupidi di noi”, dice Galtung.
Eppure, il realismo dovrebbe imparare dai fatti. La statistica registra un notevole successo delle rivoluzioni nonviolente, azioni di difesa dei diritti popolari con mezzi nonviolenti: su 323 rivoluzioni del secolo XX, quelle nonviolente sono state un centinaio, e hanno avuto successo al 53%; quelle violente, invece, al 26%. Nel periodo 1975-2002, sono state 47 le rivoluzioni nonviolente, o per lo più non violente; su 18 condotte da forze nonviolente e coese, 17 hanno vinto e una sola ha avuto un successo parziale. (Drago, Le rivoluzioni nonviolente dell’ultimo secolo, Ediz. Nuova Cultura, Roma 2010. Le fonti sono: P. Ackerman e A. Karatnycky: How Freedom is Won. From Civic Resistance to Durable Democracy. Freedom House, Washington, 2005. M.J. Stephan e E. Chenoweth, Why Civil Resistance Works, International Security, 33, 1/2008, 7-44).
Guardando anche alle recenti rivoluzioni arabe, nonostante la complessità e incertezza dei singoli casi, si può dire che probabilmente, nei movimenti popolari, sta crollando il mito della violenza rivoluzionaria risolutiva. La violenza, militare e strutturale, rimarrebbe prerogativa dei poteri oppressivi.
Allora, una politica che voglia ritrovare un senso del bene comune, perciò un valore etico, all’altezza della maturazione umana, non basta che combatta la corruzione, che ricambi la classe dirigente con impeto rottamatore più che costruttivo: è necessario che impari un modo umano di gestire tanto i conflitti acuti come quelli correnti, con la cura appassionata di custodire sia le vite sia l’ambiente naturale di ogni vita, e che predisponga strumenti culturali e istituzionali per la gestione nonviolenta dei conflitti. È questo un tema di politica nuova, che ha radici antiche, nelle sapienze alternative a violenza e guerra, nelle ispirazioni morali più alte, presenti in religioni e culture, che a noi, qui, come fu per don Tonino, arrivano col soffio vivo dello spirito evangelico.