NONVIOLENZA

Dove sono i pacifisti?

Don Tonino è stato protagonista di un ampio movimento per la pace che ha lavorato, dal basso e con metodi nonviolenti, per disarmare i territori e restituire i diritti sociali compressi. Pacifista fino in fondo. Che ne è stato, dopo la sua morte, del più ampio movimento sociale?
Lorenzo Guadagnucci

La lunga stagione dei movimenti sociali, per come oggi la intendiamo, è cominciata probabilmente il primo gennaio 1994, quando un gruppo di indigeni usciti dalla Selva Lacandona occupò per qualche ora il municipio di San Cristobal de Las Casas, capitale dello stato del Chiapas nel sud del Messico. Quegli indios incappucciati, impugnando improbabili fucili, lanciarono un proclama che denunciava l’aggressione portata alle popolazioni escluse dal banchetto consumista, da ciò che cominciava a chiamarsi globalizzazione neoliberista. Il subcomandante Marcos, dal municipio occupato, lesse la prima dichiarazione della Selva Lacandona, che cominciava così: “Noi siamo il prodotto di 500 anni di lotte”. Quel giorno, primo gennaio 1994, entrava in vigore in Messico il Nafta, il patto di libero scambio con Stati Uniti e Canada, uno di quegli accordi sovranazionali che hanno aperto la strada al modello neoliberale, mettendo fuori gioco la sovranità nazionale, la piccola proprietà contadina, lo stato sociale, l’intervento pubblico in economia, a vantaggio della libertà di movimento dei capitali internazionali, in altre parole il libero saccheggio di risorse e la libera soppressione di diritti civili e sociali. È una stagione storica che ha prodotto disuguaglianze mai viste prima, ingiustizie che in America Latina hanno precedenti solo negli anni più bui del colonialismo.
“Ma noi oggi diciamo BASTA!” disse Marcos nel suo proclama, un testo storico, primo di una serie di dichiarazioni attraverso le quali l’Ezln (l’Esercito di liberazione zapatista del Chiapas) avrebbe messo a punto un’analisi critica della globalizzazione di straordinaria perspicacia.

I Forum Sociali
Il primo Forum Sociale Mondiale sarebbe arrivato sette anni dopo, nel gennaio 2001 a Porto Alegre, dove si riunirono centinaia di gruppi e organizzazioni di base provenienti da tutto il mondo, spinte dalla comune lotta contro i nuovi poteri sovranazionali, poteri che cominciarono ad essere conosciuti dall’opinione pubblica occidentale: Fondo Monetario internazionale, Banca Mondiale, Organizzazione Mondiale del Commercio. A Porto Alegre il nucleo più forte, sia in termini numerici sia di analisi e capacità politica, era quello sudamericano, a dimostrazione che l’improvvisa comparsa degli zapatisti non era frutto del caso o di specifiche e irripetibili circostanze. Era in corso, nel corpo sociale dell’America Latina, una pacifica ribellione che, in breve tempo, avrebbe portato al rigetto dell’ideologia neoliberale, oggi una teoria e una prassi privi di ogni legittimità a Sud degli Stati Uniti.
Marcos e gli zapatisti diedero una sferzata straordinaria alla cultura politica dei movimenti di opposizione di tutto il mondo. Avevano fucili e si definivano esercito di liberazione nazionale, ma non erano un gruppo armato e militarizzato come tanti ne sono esistiti in America Latina. Erano incappucciati, ma “per rendersi visibili”, come spiegavano, e non per condurre una lotta armata clandestina. Avevano in Marcos, intellettuale di pelle bianca, il loro portavoce, ma questi si definiva “subcomandante”, perché gli zapatisti rifiutavano la logica gerarchica. Nelle comunità del Chiapas si praticava la democrazia diretta, valeva il principio della non-delega, si prendevano decisioni rifiutando la contrapposizione maggioranza/minoranza, preferendo la ricerca di un consenso generale, investendo tempo e intelligenza nei processi di formazione delle decisioni.

La scelta nonviolenta
La lezione degli zapatisti ha fatto scuola dentro i movimenti sociali a cavallo fra XX e XXI secolo. I settori più avvertiti ne hanno ripreso l’ispirazione fondamentale, voltando pagina rispetto alla tradizione della sinistra storica di derivazione marxista. Sulla punta degli sgangherati fucili degli indios del Chiapas è tornata alla ribalta la teoria e la pratica della nonviolenza. Non solo in America Latina, ma anche in Europa e nel resto del mondo, in mille gruppi e organizzazioni si è cominciato a discutere di coerenza fra mezzi e fini, di democrazia diretta e partecipativa, di decisioni da prendere con il metodo del consenso. È stata una stagione straordinaria, certo ricca di contraddizioni, ma che ha lasciato un’eredità tangibile nell’esperienza di moltitudini di cittadini e attivisti.
Il Forum di Porto Alegre, nel 2001, fu anche la scoperta del “bilancio partecipativo”, che nella capitale del Rio Grande do Sul, nel sud del Brasile, aveva in quegli anni la sua più compiuta e radicale applicazione. Era un altro modo, diffuso in innumerevoli municipi di vari Paesi dell’America Latina, di aggiornare e superare i canoni delle democrazie formali, messe in discussione e spesso travolte dallo strapotere dei capitali ormai liberi di imperversare senza confini, in piena deregulation. Il “bilancio partecipativo” puntava sull’allargamento della democrazia, coinvolgendo i diretti interessati, quartiere per quartiere, nelle scelte da prendere per certi investimenti sociali o nelle infrastrutture. Era un modo per contrastare le tendenze oligarchiche delle democrazie formali; un modo per redistribuire il potere e con esso diritti e concrete opportunità di vita, gli uni e le altre sottoposte a una sorta di razionamento a causa delle politiche neoliberali, che si traducevano di fatto in una “lotta di classe” ingaggiata contro i comuni cittadini da una minoranza di oligarchi legati ai poteri finanziari e sovranazionali.
Mentre le forze politiche tradizionali, comprese quelle di sinistra, cercavano di affermare un impossibile governo della globalizzazione neoliberale, nel corpo vivo della società si sperimentavano così nuove forme di aggregazione e di partecipazione.
In Italia abbiamo vissuto il momento d’oro di questa stagione attorno alle manifestazioni contro il G8 di Genova del 2001. Quel movimento fu soffocato nel sangue e con innumerevoli abusi di potere, ma ha lasciato un’eredità indelebile nella memoria e nell’esperienza di migliaia e migliaia di persone e nella cultura condivisa da una vasta area dell’impegno civile. Dobbiamo a quella stagione l’elaborazione del concetto di “beni comuni”, il rafforzamento delle lotte contro le privatizzazioni, la diffusione della pratica nonviolenta, a lungo emarginata dal discorso pubblico. È un discorso aperto, che potrà sorprendere, come sorprese nel 1994 l’apparizione degli zapatisti, che avevano però 500 anni di lotte alle spalle...

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