CHIESA

Da mezzogiorno alle tre

La croce è, per tutti, collocazione provvisoria. Dopo le tre ci sarà la rimozione forzata di tutte le croci. Risuona ancora forte il monito di don Tonino: la speranza della Resurrezione è per tutti.
Giovanni Mazzillo (Teologo)

R come Resurrezione, o meglio ancora, come Risorto. Mi dico, non senza una certa trepidazione: devo cercare di scrivere qualcosa di sensato non tanto su un evento, quanto su una Persona, che è assolutamente determinante per ogni discorso cristiano sulla pace, perché è determinante per la stessa esistenza della fede cristiana. È determinante per me, come per chiunque consideri Cristo ragione della sua vita e non mero punto di riferimento culturale. Insomma per chi si dica cristiano e – spero - cerchi almeno di comportarsi come tale, e non si consideri semplicemente “cristianista”, alla stessa stregua di chi conosca culturalmente e studi l’Islam, senza essere per questo necessariamente un islamico.

Oltre le lacrime
Per don Tonino Bello il Risorto era la ragione fondamentale della sua vita, della sua profezia, la quale di solito diventava canto, ma lo era anche della sua passione per la pace e del suo amore sempre sorgivo per gli sconfitti del mondo. Nel Risorto trovava le mille e più ragioni per continuare a sperare e a operare, affinché il mondo dei trafitti e dei vinti della terra, quello degli scantinati della storia, mostrasse finalmente la luce, similmente a quell’“altare scomodo, ma carico di gioia” dal quale benediceva il suo popolo e tutto il popolo della pace. “Vi benedico da un altare coperto da penombre, ma carico di luce... circondato da silenzi, ma risonante di voci”, per concludere: “Sono le grazie, le luci, le voci dei mondi / dei cieli e delle terre nuove che, / con la Resurrezione, / irrompono nel nostro mondo vecchio e lo chiamano a tornare giovane” (Pasqua di Resurrezione, 1993). A queste formule di benedizione episcopale vera e propria, che sono anche attestazione solenne e sofferta dalla sua ultima cattedra, si potrebbero affiancare molti altri testi. E tuttavia anche quel buio, emblematico delle tre ore precedenti la morte di Gesù, non era che provvisorio e delimitava un orizzonte oltre il quale c’era la vita e il recupero di tutto il valore delle lacrime del mondo. Sicché troviamo ancora “Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio, si fece buio su tutta la terra. Da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Ecco le sponde che delimitano il fiume delle lacrime umane” (Il parcheggio del calvario).
Pertanto don Tonino avrebbe di certo sottoscritto che con la Resurrezione sta in piedi la nostra fede e senza la Resurrezione essa non ha ragione di essere. Ma in più ha affermato e dimostrato con le parole e i fatti, che la Resurrezione è pur sempre la meta mentre il calvario è sempre e solo un passaggio. Così diventa comprensibile ed è teologicamente esatto quanto egli scrive a proposito del Crocifisso, per la cui sistemazione era stato scritto, “collocazione provvisoria”. Ribadisce che si tratta di collocazione provvisoria, che deve restare tale perché tale è in realtà e che tale provvisorietà esprime al meglio, fino a definirne l’intima natura, la Croce: “La mia, la tua croce, non solo quella di Cristo”.

La ragione di esistere
Contro ogni deriva misticheggiante, che indugia troppo, talvolta masochisticamente, sulla sofferenza e sulla croce, senza pensare seriamente e con altrettanto impegno alla Pasqua, bisogna ogni volta ripetere che il venerdì santo è un giorno di passaggio, fondamentale certo, ma di passaggio. È la Pasqua che è invece il giorno della festa e la cifra dello stato finale e abituale della vita cristiana. Del resto, lo aveva dovuto già precisare Paolo ai cristiani di Corinto, che si sentivano così portati in alto da un entusiastico, quanto inconsistente, misticismo, da perdere la concretezza “storica” della resurrezione, e così aveva dovuto lapidariamente e definitivamente scrivere: “Se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede!” (1Cor 15,17).
Don Tonino cammina nella stessa direzione e in una delle sequenze di quei suoi pensieri, che talvolta si susseguono e incalzano inesorabilmente, mitigandosi solo attraverso le immagini che li accompagnano, egli scrive di sapere che cosa significhi la sofferenza, specie quella umanamente senza senso. Quella da cui sgorgano lacrime come in un effluvio inarrestabile: dai disastri che falcidiano i popoli a quelli esistenziali che lacerano i rapporti più intimi e più grandi.
Chiunque legge, potrebbe aggiungere di conoscere la vita che va verso la morte, la polvere di strada che accompagna il proprio cammino e che coprirà i propri passi… le malattie che assediano sogni e vite umane e le disgrazie che uccidono futuro e giovinezza tra familiari e amici. Insomma, ciascuno di noi conosce le lacrime e ne sente come il retrogusto amaro in ogni sorso che beve di questa vita, da questa vita.
Dopo il suo interminabile elenco, che non lascia il tempo nemmeno di un breve respiro, di fronte all’enumerazione di fratture strutturali così enormi e di pesi che fanno controbilanciare tanto in alto la speranza, da renderla quasi del tutto incredibile, don Tonino, tuttavia, concludeva: “Queste cose le so: ma io voglio giocarmi, fino all’ultima, tutte le carte dell’incredibile e dire ugualmente che il nostro pianto non ha più ragione di esistere”. E ne aggiungeva il motivo, tanto simile a quello evocato da Paolo: “La Resurrezione di Gesù ne ha disseccate le sorgenti. E tutte le lacrime che si trovano in circolazione sono come gli ultimi scoli delle tubature dopo che hanno chiuso l’acquedotto” (Il Calvario tre giorni dopo).

Dal pianto all’abbraccio
La resurrezione non dissecca soltanto le sorgenti del pianto, ma fa scaturire inaspettatamente il sorriso. Fa piangere, forse, ancora una volta, ma come quando ci succede per un’emozione dovuta a una gioia intensa e improvvisa. Si passa dal pianto mesto del lutto al pianto incontenibile, come quando si abbraccia la persona più cara ritrovata. In un’altra intensa pagina, don Tonino descriveva questa metamorfosi del pianto, diremmo in termini cristiani, la sua trasfigurazione. Tutto accadeva in una sequenza di tempo di appena due notti e all’inizio del terzo giorno. Ma senza cambiamento di luogo, perché tutto avveniva davanti a una tomba: quella dapprima nuova che, al calar del sole del venerdì, si era riempita del corpo di Colui che né i cieli né la terra possono contenere, e che, al mattino di Pasqua, invece, era stata trovata completamente vuota. O meglio, era stata trovata aperta e senza il corpo di Gesù, il quale però aveva lasciato lì una sorta di involucro vuoto e giacente sulla superficie dove era stato deposto, come un otre afflosciato: le bende che lo avvolgevano, e il sudario, ripiegato da un’altra parte. Proprio vedendo ciò, Pietro e Giovanni, che alle parole della Maddalena erano accorsi alla tomba, credettero (cf. Gv 20,1-8).
La figura più emblematica, ma che come sempre rappresenta interamente la nostra umanità, perché è colei che è passata dal desolante pianto sotto la croce al pianto di chi rivede e forse abbraccia quel figlio che esce da quel sepolcro, è Maria ed è così descritta da don Tonino: “[Maria] dovette essere presente, l’unica, all’uscita di lui dal grembo verginale di pietra: il sepolcro ‘nel quale nessuno era stato ancora deposto’. E divenne la donna del primo sguardo dell’uomo fatto Dio. Gli altri furono testimoni del Risorto. Lei, della Resurrezione” (Maria donna del terzo giorno).
Resurrezione, dunque, dal pianto e del pianto, che tale rimane, ma che cambia di segno. Resurrezione del Figlio, che era perfettamente Dio e compiutamente uomo, sia allora, quando era esanime sulla croce, sia adesso, ma conservando per sempre quelle ferite, che pur sfolgoranti di luce, restano ferite aperte. Indicano che tutte le nostre ferite, da quelle visibili a quelle invisibili dell’anima, non soltanto hanno valore, ma possono brillare di luce. Impariamo a vivere non solo con le nostre ferite, ma a farne un punto di forza per una resurrezione continua. Feritoie che lasciano entrare la luce, ma che consentono di guardare più in là. Oltre se stessi e al di là del proprio dolore. Per assumere il dolore degli altri, ma anche per vedere oltre: verso la luce che proviene dal Risorto.

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